Una fenice di 60 anni fa: la associazione delle Società Sportive "Lazio"
Marco Impiglia
Una storia complessa
Il 15 luglio 1963, più o meno alle dieci di sera nella sede della S.S. Lazio in via IV Fontane civico 20-21A, il professor Leonardo Siliato, nel bel mezzo di una seduta del consiglio generale, dichiarò sciolto il sodalizio; in suo luogo, annunciò la nascita della Associazione delle Società Sportive Lazio. Punto finale di un faticoso iter iniziato formalmente nel 1959, con la salita alla presidenza del decano Olindo Bitetti, al fine di risolvere il doppio problema della crisi finanziaria della Polisportiva e della necessità che la stessa si staccasse dalla sezione calcistica, come da precisa volontà della Federcalcio. Tutto ciò sarà oggetto di uno dei capitoli del libro che illustrerà la storia della SSL dal 1926 al 1967, e che conto di far uscire nella collana di LazioWiki per il 125esimo dalla fondazione. Qui scrivo per gli amanti dell’epopea biancoceleste, considerata non tanto nelle sue vicende relative al football, con i suoi lati negativi del tifo violento, politicizzato e strumentalizzato, le distorsioni etiche generate dal professionismo milionario, quanto piuttosto nella sua globalità, che comprende la pratica dello sport in una prospettiva benefica e sociale. Il cosiddetto "sport per tutti", formula che compare già all’abbrivio del Novecento, in un’Italia ancora monarchica e liberale, e che in seguito in molti hanno ripreso, ognuno vestendo la donzella secondo i propri gusti. Porgo i miei saluti fraterni a questa élite di puri adepti della "Lazialità", giacché tale la valuto, e al servizio di essa svolgo questa parte dei miei studi storiografici, mantenendo viva la speranza di una percolazione pedagogica che giunga fino agli strati sottostanti. Nella sostanza, come diceva uno scrittore nato russo e cresciuto americano dello scorso secolo, "la buona letteratura che ha come tema l’illuminazione della condizione umana".
Sto, dunque, per parlarvi di una torta di soffice panna e perline azzurrine di zucchero fatato. Una torta che, nell’estate del ’63, aveva una sola virtuale candelina, segnata "zero" e che mi piace rappresentare dei cinque colori dei cerchi olimpici. Questo in onore di Fortunato Ballerini, il Presidente che nel 1904 battezzò la prima bandiera a strisce bianche e celesti, colui che diede al sodalizio l’emblema dell’aquila e l’impronta decoubertiniana: lo sport come valore sociale. Una visione che, fortunatamente, grazie ad alcuni illustri presidenti, cito Renzo Nostini e il suo continuatore Antonio Buccioni, la "Lazio" conserva tuttora. Poiché una storia complessa ha bisogno di una chiave di lettura per essere svolta sinteticamente, ho scelto di usare l’analisi dell’evoluzione degli statuti per venirne a capo. Gli statuti, infatti, rispecchiano i cambiamenti sopravvenuti nel tempo all’interno del sodalizio. Come vedremo, essi si adattano allo sfondo politico e sociale del Paese, ed anzi lo interpretano. Purtroppo, non disponiamo della serie completa degli statuti a partire dal 1900. Ce ne mancano tre della belle époque, e forse anche qualcosa dell’era fascista. Sapete bene che, nonostante gli sforzi miei e di altri volenterosi che si interessano alle vicende delle origini, molte sono le tessere mancanti del mosaico. Ma, per lo meno, la S. S. Lazio conosce la data del suo compleanno, che celebra con soddisfazione, mentre la gemella diversa AS Roma neppure quella sa con assoluta certezza, e ci litiga sopra. Detto questo, da laziale vero che vide col babbo la sua prima partita dei biancazzurri il 18 settembre 1966 al Comunale di Firenze (5-1 per i viola), passiamo alla disamina.
I misteri della nascita e quelli del primo statuto
Ricordo che, diciotto anni fa, mentre mi stavo adoperando a ricostruire le vicende di una delle più gloriose società sportive capitoline, la "Cristoforo Colombo" di via Tacito, mi capitò di ricevere dai dirigenti della stessa una voluminosa cartella contenente una serie di fogli di registro e lettere incapsulate nella carta velina. Il faldone si apriva, alla sommità, con l’atto di fondazione della S. S. Cristoforo Colombo di Roma, un fantastico "verbale di adunanza" recante la data 14 marzo 1906. Seguiva il primo statuto di nove articoli, sempre vergato a mano con una stilografica; statuto che sarebbe stato ampliato nel decennio successivo, fino ad arrivare a 41 articoli, ordinati su più fogli protocollo. La "Colombo" vide la luce in un sottoscala di via Angelo Brunetti, a due passi da piazza del Popolo. Sorse dalla voglia di fare sport proclamata da sei giovani maggiorenni, ossia sopra i 21 anni, alcuni dei quali militari e il resto ragazzi tra i sedici e i venti, esattamente come per la Podistica Lazio. Sono molte le analogie tra i due sodalizi. A cominciare dal fatto che entrambe si costituirono senza colori e senza un emblema (pure se la Colombo inaugurò molto presto la bandiera a strisce bianche e azzurre, già nel dicembre del 1906), senza fondi e amicizie autorevoli, con l’obiettivo di dedicarsi ai nuovi "sports atletici". La Colombo fu presto una delle regine delle discipline della forza bruta, quali la lotta, i pesi e la "boxe inglese", oltre che validissima nel ciclismo su strada e nelle corse di resistenza a piedi; portò anche un suo tesserato, Umberto Blasi, a correre la maratona olimpica del 1908. La Lazio si distinse nel podismo, negli sport natatori e nel football. E però, c’è questa differenza esiziale dal punto di vista di uno storico: la prima ha conservati gli atti della fondazione e i verbali dei primi venti anni, la seconda no.
Società nate all’impronta, previo l’iniziativa di sparuti gruppi, non si premuravano di redigere un documento legale in sede notarile per sancire la loro esistenza: potevano, infatti, morire nell’arco di pochi mesi. I nomi che attualmente sopravvivono nel panorama cittadino, per quel che concerne realtà sorte durante la belle époque – ad esempio, le due società di canottieri Tevere Remo e Aniene nate nell’area urbana del Tevere e poi emigrate all’Acqua Acetosa, la Romana di Nuoto a ponte Cavour, la Borgo Prati vicino San Pietro, la Ginnastica Roma al Muro Torto, il Circolo Tennis Parioli a Monte Antenne e la prestigiosa Accademia d’Armi Musumeci Greco a via del Seminario – hanno in comune di possedere le carte delle loro scaturigini: "fonti primarie", come si dice in gergo. Se non direttamente nelle sedi, si tratta di documenti rintracciabili negli archivi comunali e statali. Per la Lazio, abbiamo carte che partono dal 1903 – il contratto di locazione a via Pompeo Magno conservato dal pioniere Sante Ancherani – e un "mito di fondazione". Un racconto della sua genesi confezionato, tra l’altro, molto tardi, e precisamente nel biennio 1967-68, da Mario Pennacchia. Ovvero il famoso libro, sorta di bibbia biancoceleste, Storia della Lazio, uscito per i tipi del Corriere dello Sport nel giugno del 1969 per festeggiare il ritorno in Serie A della squadra di calcio. Sapete qual è il più antico documento, non consistente in foto d’epoca, riscontrabile nel suddetto? Una tessera originale di Fausto Coppi, arruolato nelle file della sezione ciclismo nel 1945.
E soprattutto, non vi sono immagini di statuti, lettere o verbali, nelle 313 pagine formato 20x14. Quel che premeva al giornalista – l’obiettivo editoriale – era di produrre una saga popolare focalizzata sulle vicende del pallone. Nella copertina, infatti, vediamo raffigurati goleador di tre diverse epoche: Ancherani, footballer e sprinter non annoverabile tra i fondatori, il mitico centravanti Silvio Piola e Ferruccio Mazzola, giudicato il talento di quella "Lazietta" che dal Flaminio risaliva all’Olimpico. Alla guida del club c’era Umberto Lenzini, il palazzinaro di natali statunitensi che aveva edificato Valle Aurelia e la Pineta Sacchetti. L’uomo di sport che, assieme ai fratelli Aldo e Angelo, nel 1967 aveva preso in mano la "sezione calcio" della polisportiva, trasformandola in società per azioni. Come mi rivelò, qualche anno avanti la sua scomparsa, lo stesso Pennacchia, il libro del 1969 mirava a medicare un vulnus, il fatto che la Lazio non possedesse una storia organica riassunta in una strenna. La Roma, pur nata nel 1927, un libro del genere lo possedeva dal 1954, e ne aveva appena pubblicato un altro per il suo quarantennale. E tuttavia, quella prima storia biancazzurra doveva necessariamente essere svolta in forma giornalistica, con un registro adatto alla tifoseria del calcio. Olindo Bitetti va considerato come il padre putativo dell’opera, giacché fu lui ad aiutare Pennacchia, quando questi gli chiese un appuntamento nella sede della S. S. Lazio a via Col di Lana. Bitetti disse "ok, facciamolo!", e lo portò a visitare in auto i "luoghi originari" della Podistica, facendo tappa a casa dei due pionieri che riteneva utili ai suoi scopi: Ancherani, ogni giorno rintracciabile al suo negozio di articoli sportivi a via dei Prefetti, non lungi dal Parlamento, e Corrado Corelli, lo scultore che abitava dalle parti di piazzale Clodio.
Ma quali erano gli scopi del vecchio Bitetti, il fedele e sagace dirigente, laureato in legge e inviato di guerra del Corriere della Sera in gioventù, che aveva marciato per sette decadi al fianco della Lazio? L’obiettivo di Bitetti – forse la creatura più laziale di tutti i tempi – era di edificare una storia credibile e romanzata al punto giusto, in maniera da dare l’impressione che la Società di via Col di Lana fosse nata con tutti i crismi di un’indiscutibile superiorità rispetto alla AS Roma. Così che Pennacchia, seguendo i consigli (aveva il permesso di telefonargli ogni sera dopo cena) e i racconti del suo mentore, finì per dare vita, probabilmente senza rendersene conto, a quello che gli storici chiamano un "mito di Fondazione". Nella ricostruzione Bitetti/Pennacchia, il nome "Lazio" venne pertanto abbinato alla volontà dei fondatori di rappresentare qualcosa di territorialmente più grande dell’Urbe. E i colori idem: non il giallo ocra e il rosso scuro della bimillenaria metropoli ex dominatrice del mondo conosciuto e centro della cristianità, bensì il bianco e il celeste della bandiera della Grecia, patria delle olimpiadi: sempre una visione ecumenica, ma più moderna e, in fondo, laica, quindi rispondente alle scaturigini stesse della Podistica. Mirabile dictu! Ma, nella realtà delle cose, di queste due motivazioni non v’era traccia nelle rievocazioni che, fino a quel momento, erano apparse sui giornali a firma dei pionieri, ad esempio quelle vignettate di Romano Zangrilli e Vittorio Spositi del 1914 e una serie di Alceste Grifoni in tarda era fascista, e solo si sapeva delle gesta in stile ragazzi della via Pal dei primi laziali capeggiati da Luigi Bigiarelli e Arturo Balestrieri. Una società di giovanotti della piccola e media borghesia che frequentavano il Fiume, desiderosi di dare libero sfogo all’esuberanza atletica in omaggio alla moda sportiva. Alcuni di loro, indicativamente il promotore Bigiarelli, l’ex bersagliere della campagna coloniale in Africa impigliato in problemi sentimentali, si comportavano addirittura come dei "dandy".
Io sono del parere – e con me gli amici e sodali di LazioWiki – che la Podistica nacque senza smalti, vessillo e insegne, col nome che scaturì da conciliaboli dei quali non conosciamo l’esatta natura; discussioni preparatorie tenute sulla panchina di piazza della Libertà e al barcone del Pippa Nera, nei pressi di ponte Regina Margherita. Le argomentazioni riportate da Pennacchia sono verosimili, ma contengono indizi di ambiguità; ad esempio, si parla di "Lazio" in quanto "regione", una nozione che non poteva stare nelle teste di Bigiarelli e soci; così come l’argomentazione "Olimpiadi", realtà che, al volgere del 1899, a Roma in pochissimi conoscevano, forse solo qualche militare schermidore e cavallerizzo di alto lignaggio. Nessun giornale e rivista sportiva o politica accennava ai Jeux Olympiques che sarebbero cominciati a Parigi di lì a qualche mese, disseminati in maniera confusa e senza una precisa linea temporale nell’ambito di un’esposizione mondiale commerciale. Quattro anni prima, nella primavera del 1896, l’edizione inaugurale dei Giochi, ospitata in forma concentrata allo stadio Panathenaikon di Atene, aveva preso succinti commenti sulla Gazzetta dello Sport; dopo di che era calato il silenzio, su quell’evento sporadico e lontano. E allora, da storico professionista, vi posso dire che nella genesi della Lazio, apparecchiata più di mezzo secolo fa, avverto un peccato di "attualizzazione": la volontà di trasporre gli avvenimenti su un binario di idee e sentimenti coevi allo scrivente e gratificanti per il cliente lettore. Un difetto che è il marchio di fabbrica della storiografia priva di basi scientifiche, laddove si applichi una metodologia non consona alla ricerca di stile accademico. La quale invece ha per capisaldi un approccio atarattico, l’investigazione sistematica delle fonti cartacee, e solo in seconda istanza l’apporto della storia orale, che va comunque verificata sulla base della documentazione rinvenuta. Per contro, sta scritto a inchiostro seppia, sul foglio giallino datato 14 marzo 1906, che la Colombo derivò il nome del navigatore genovese per onorare una figura eccelsa del Paese, e dopo che a uno dei sei fondatori era stata rigettata la proposta "Young Sport".
Di sicuro, i nove della Pippa Nera ne buttarono là più di uno, di nomi acconci per la loro nascente società sportiva. Infine, vinse il titolo "Lazio", e non sapremo mai con certezza il perché. Già esisteva una Società Pedestre Roma, con sede ai Monti, e magari la vicinanza tra "pedestre" e "podistica" venne considerata eccessiva e promiscua. Del tutto inventata, a mio parere, è la spiegazione che i fondatori non scelsero il nome "Roma" in quanto già c’era la rinomata Società Ginnastica Roma. In effetti, nel 1899 erano attivi una quindicina di circoli sportivi che avevano le parole "Roma" e "Romana" nella denominazione; uno in più non avrebbe cambiato nulla. Nel mio archivio, ho un bel volume rosso e oro, edito a Firenze nel 1967 sotto gli auspici del presidente della FIGC Artemio Franchi – La prima enciclopedia storica del calcio mondiale – dove si afferma che fu l’italo-peruviano Alberto Mesones a suggerire il nome "Lazio", ma senza addurre una precisa motivazione. La cosa mi convince e lo ripeto: nell’interpretazione Pennacchia-Bitetti, le due parole chiave della genesi – Lazio e Olimpiadi – costituiscono un messaggio ideologico chiaro, che ribadisce il concetto di un sodalizio nato nel nome di una fratellanza laica. E ora veniamo all’analisi degli statuti. Il reperto più antico, purtroppo, non è stato trasmesso in originale. È lo statuto stilato in assemblea dai "quindici", nell’appartamento dei fratelli Bigiarelli, in vicolo degli Osti il 13 gennaio 1900, a quattro giorni dalla fondazione sul barcone del gestore "Pippa Nera". A proposito di questa fondazione, sapete qual è la fonte originaria? Fa testo in letteratura ciò che scrisse Fortunato Ballerini alla pagina 144 del libro La Federazione Ginnastica Italiana e le sue origini, edito a Roma nel 1939 a sue spese come atto d’amore finale del ginnasiarca, che aveva dedicato l’esistenza allo sport inteso in una chiave sociale e culturale.
La Storia della Lazio del ’69 riprende le parole di Ballerini, giacché il volume fu fatto conoscere da Bitetti a Pennacchia. Una "teoria dei nove fondatori" che negli anni ’60 non era da tutti condivisa. Vediamo, infatti, che il 2 febbraio 1964, allorché al Teatro Eliseo in via Nazionale si svolse una festa di compleanno che ebbe come relatore principale Renzo Nostini, presenti molti dei "padri" sopravvissuti ma non Bitetti, si accese una discussione tra chi propendeva per il numero di sette (Ancherani) e chi per il numero di nove; dei nove, Ancherani non riconosceva Giacomo Bigiarelli ed Enrico Venier. Ma già il decano della sezione escursionismo, il professor Aldo Maffei, nel 1950 aveva ricordato, nella prefazione di un libretto di itinerari escursionistici pubblicato per celebrare il cinquantenario, come la SPL fosse nata per l’iniziativa di nove uomini, identificati con tanto di nomi e cognomi, meno il nome di battesimo di Lefevre, inspiegabilmente tralasciato da Ballerini e di cui nessuno più sapeva nulla. Pochi anni dopo quella discussione, tenuta davanti al popolo laziale con l’ingegner Nostini a fungere da attento uditore e autorevole moderatore (e non era la prima volta: nel 1950 si erano svolte, nella sede di via Frattina, alcune "conversazioni" sulle origini del sodalizio), Bitetti e Pennacchia avrebbero sciolto il nodo, dando credito al racconto di Ballerini, e giustamente recuperando il nome perduto del fondatore Lefevre: Giulio, morto a Roma nel 1953, come LW ha appurato da un colloquio col nipote Marcello.
Al 99%, i quindici sottoscriventi quel primo statuto – che, attenzione!, non fu di dieci come molti credono, ma di ventuno articoli – firmarono su semplici fogli protocollo. Quindi, si diede incarico a una tipografia di stampare il documento in forma di brochure per distribuirlo ai soci. A mio giudizio, quest’ultima operazione occorse prima del 24 marzo 1901. Da cosa lo deduco? Da un brano estrapolato dal discorso di commiato che Ballerini profferì nella sede di via Veneto il 22 febbraio 1922. Nella circostanza, egli parlò di uno statuto di 25 articoli scaturito dalla prima "assemblea formale" tenuta il 24 marzo 1901 a via Valadier, e che, sempre secondo Ballerini, era "ornato di bella calligrafia» e incorniciato in un quadro affisso in sede". Il dettaglio del passaggio da 21 a 25 articoli ci dice che lo statuto del 1901 scritto a mano non è lo stesso del 13.1.1900 trasposto in stampa. Inoltre, dalla ricognizione puntuale del quotidiano Il Messaggero, ricaviamo che in un’assemblea ordinaria, svolta il 12 gennaio del 1902, vennero approvate "importanti modifiche allo statuto". E questo significa che il testo dello statuto 1901 è rimasto intatto per soli nove mesi, mentre la sua versione amanuense diventava il "Santo Graal" della Società, incorniciata ed esposta nelle varie sedi. Già non più disponibili – è lecito dedurre – i fogli originali dello statuto 1900. Il 12.1.1902 è una data che ha un suo significato, perché, da circa un mese e mezzo (1° dicembre 1901), Luigi Bigiarelli era partito alla volta di Parigi col fratello Giacomo, col proposito di avviare un commercio di gioielli e, al contempo, migliorare le sue qualità di marciatore. Il presidente della sezione nuoto, Giuseppe Pedercini, fu in quella seduta eletto alla presidenza generale: il primo di una serie che arriva fino a noi. Così, è possibile che lo statuto 1901 sia stato in quella occasione corretto sul punto riguardante la presidenza. Stampato in caratteri neri, come detto, lo statuto 1900 non è più reperibile in originale, sia nella sua forma calligrafica che in quella stampata.
Per quest’ultima, disponiamo di due versioni. Analizziamolo un attimo, tracciamo una anamnesi del documento, visto che nessuno l’ha mai tentata fino ad ora. Nella letteratura conosciuta, esso compare per la prima volta alla pagina dieci del volume primo de La storia della Lazio", opera edita nel 1986 da Multimedia a cura di un pool di giornalisti. La versione di Multimedia presenta un viraggio giallino, che altro non è che la resa di un originale dalla tinta chiara divenuta beige col trascorrere del tempo. Lo chiameremo lo statuto bianco. Ha ventuno articoli e una graziosa cornicetta Liberty. Particolare esiziale, si vede il segno di una graffetta nella parte superiore che riprende a margine in quella inferiore, come se fosse rimasto ripiegato a lungo; la grandezza della graffetta indica che si trattava di un foglietto, tale da poter essere infilato nella tasca di una giacca. [ALLEGATO 1] La seconda versione [ALLEGATO 2] è diversa nella cornicetta, che non è più Liberty e ha il fondo turchino, che opino sia stato scelto in omaggio ai colori assunti nel frattempo dalla SPL. Identica è, tuttavia, la linotype dalla quale il documento è uscito, per via del font e dei difetti che sono i medesimi nelle due versioni. Lo chiameremo lo statuto azzurro. La mia idea è che si tratti della metà superiore dello statuto a 21 articoli, ma in seconda ristampa: una ristampa senza data, ovviamente. Ricapitolando, giacché gli archivi della Podistica non sono giunti fino a noi, perduti nel periodo 1943-44 col saccheggio della villa Ballerini a Monte Mario, abbiamo in cartella due statuti stampati rispettivamente di dieci e ventuno articoli. Quello a ventuno è il più antico, non si conosce la sua provenienza ma ho il sospetto che appartenesse al pioniere Attilio Tomassini. Il motivo? Nel volume di Multimedia, a pagina 22, appare come per un miracolo il più vecchio esemplare di tessera sociale, datato 9 luglio 1900, e il font è il medesimo dello statuto bianco. Tomassini proveniva dalle file della Rari Nantes Roma, come diversi altri laziali. Se un giorno qualcuno riuscisse a rintracciare gli eredi Tomassini, credo che troverebbe un piccolo tesoro.
Più misteriosa ancora è la provenienza dello statuto azzurro. Chi l’ha tirato fuori? Forse Olindo Bitetti? E quando? Pennacchia, che verosimilmente l’ha veicolato nella koinè laziale, lo ricevette da lui? Non sono riuscito a individuare la sua prima apparizione in letteratura: magari è proprio opera mia nel volume Società Podistica Lazio 1900-1926, ma è facile che qualche rivista l’abbia pubblicato prima. Un’altra ipotesi da valutare, seppure la considero meno probabile, è che lo statuto dei quindici (che pagarono tre lire ciascuno per far parte dell’associazione) constasse per l’appunto di soli dieci articoli, e che lo sfondo turchino sia stato scelto in tipografia per caso o perché la Podistica aveva già quel colore nel suo dna. In effetti, i nuotatori nell’estate del 1900 vararono un costume triangolare di "tela azzurra" (lo rievoca Spositi in un articolo sul Littoriale del 10 agosto 1939), con ricamato il nome della società. Così che i podisti correvano bianchi, i nuotatori fendevano il Tevere azzurri, e nel 1904 sarebbero comparsi i footballer, loro invece bianchi e celesti a inquarti, desiderosi di essere fichi e non sfigurare con i rivali della Virtus. Lo stesso Nostini, in una cartella preparata per il Centenario del 2000, lo statuto azzurro lo presenta come il primo in modo asseverativo, senza ulteriori distinguo e seguendo l’opinione comune. Lo statuto azzurro, dunque, negli anni ’90 già circolava. Davvero un peccato che gli originali amanuensi dello statuto 1900 siano svaniti nel nulla, e con essi gli originali stampati, perduti a causa di un’incursione ladresca avvenuta ottanta anni fa, nel marasma di una guerra civile. Giunti a questo punto, sarete d’accordo con me, cari fratelli, che la genesi biancoceleste è appassionante in una misura da legal thriller sia in forma scientifica divulgativa che romanzata. Potete passare da Pennacchia a Impiglia, o a Bellisario e qualcun altro, e la sostanza cambia poco.
Che fosse a dieci o ventuno articoli, lo statuto stampato in un’antica, quanto ignota, tipografia e contraddistinto dall’intestatura "Approvato nell’assemblea dei Soci del dì 13 gennaio 1900" non fa riferimenti a smalti, a un motto e tanto meno a un emblema. Dal che si evince che la SPL sia uscita fuori bianca come un lenzuolo di bucato. Lo statuto 1900 presenta, però, agli articoli 1 e 2, la data di nascita, il nome e gli scopi sociali: "coltivare e diffondere l’esercizio della corsa e delle marcie; promuovere gare". La Guida Monaci edizione 1901 li riprende pari pari, il che è una prova indiretta dell’autenticità. Pennacchia, la prima volta che l’andai a trovare nel 2001 con una camminatina a piedi, abitando il grande giornalista vicino al Fiume e non lungi da casa mia, teneva la copia dello statuto azzurro bella incorniciata nello studio. Tuttavia, egli nei suoi volumi non accenna agli statuti della prima Lazio. Ergo, nel 1969 non ne sapeva nulla, o, se pure gli era capitato sotto gli occhi il documento, non aveva ritenuto di doverlo utilizzare (e lo capisco: in una certa misura minava il mito di fondazione, foriero di un’altra narrazione). E dopo, per le riedizioni commissionategli da Cragnotti, non se n’è curato, rinunciando alla revisione dei capitoli iniziali nel già laborioso aggiornamento. Vedete dunque come, per via di uno dei principi che sostengono la società dei consumi – confezionare un prodotto che piaccia alla gente senza preoccuparsi troppo della sua qualità, in questo caso storiografica, non letteraria, perché questa davvero non è in discussione – la SS Lazio ha coltivato per anni una sua genesi fiabesca, sul modello di Romolo che col vomere incide nella terra il solco delle future mura di Roma. I miti sono utili e sirenici. Perfetti per la massa, che ha bisogno di racconti lineari, in grado di riassumere icasticamente labirintiche vicende altrimenti inconoscibili nella loro interezza. I miti sono spesso scritti bene da maestri dell’epica. Ma la Storia è un’altra cosa. "La Storia" mi diceva all’università il professor Giampiero Carocci "è sempre molto complicata".
Gli statuti varati nella belle époque e in era fascista
Dal 1904 al 1923, registriamo una serie di statuti che accompagnano la crescita della SPL. Secondo quanto disse cento anni fa Fortunato Ballerini nel suo storico discorso d’addio al popolo laziale, il primo di questi statuti, composto di quaranta articoli, fu approvato in un’assemblea tenuta il 29 maggio 1904, giorno dell’assorbimento della biancoverde Società Ginnopodistica Esperia. Lo statuto 1904 scaturì dal lavoro di una commissione nominata il 25 gennaio, anch’essa la prima di una serie di commissioni che avrebbero aggiornato gli statuti da lì in avanti. Il 1904 è, pertanto, un altro anno fondamentale per la storia della Lazio. Chiusa la stagione bohémienne, allontanatisi i promotori Bigiarelli e Balestrieri e ritrovatosi il sodalizio a poter contare su una trentina di iscritti, entra in scena il cavalier Ballerini, cinquantenne funzionario del regno con una lunga esperienza in campo sportivo, e che le cose le vuole bene amministrate e predisposte. Uno, soprattutto, a cui capita di essere chiamato in udienza privata dal re Vittorio Emanuele III, per cui ha gli agganci giusti negli ambienti massonici capitolini. La Podistica Lazio, da questo momento, assurge al rango di società integrata al sistema, calibrata su quelle che sono le necessità politico-istituzionali di creare una gioventù sana, forte e obbediente alle strategie educative perseguite dall’establishment liberale. In questo suo viaggio in stile Wilhelm Meister sotto la guida del fiorentino Ballerini, nonché la benevolenza di un politico in carriera del calibro del deputato savonese della Destra storica Paolo Boselli, nel 1921 la Podistica Lazio riceverà il premio di essere eretta in ente morale. Lo statuto di quaranta articoli del 1904, il terzo della serie secondo la presente ricostruzione (21 nel 1900, 25 nel 1901, 40 nel 1904), non è giunto fino a noi, sappiamo solamente che venne stampato il primo di giugno. All’articolo 33, riportava la norma indicante nel Presidente della Società il "rappresentante legale" della stessa; norma già introdotta nello statuto del 1901, dove però compariva all’articolo 14, che nello Statuto 1900 era dedicato alla informazione sull’esistenza anche di un "regolamento per la parte sportiva". Dalla Guida Monaci edizioni 1905 e 1908, veniamo a sapere di una leggera variazione degli scopi sociali: "coltivare e diffondere il podismo nelle sue varie forme educative e sportive e coltivare ogni ramo di sport". Il Messaggero ci dice che una modifica a questo statuto fu fatta in occasione di un’assemblea ordinaria la domenica del 7 gennaio 1906.
Il successivo statuto risale al 3 gennaio 1909. Rimane sconosciuto il numero degli articoli che lo componevano, né abbiamo la sua data di stampa. Venne approvato in un’assemblea straordinaria svolta quel giorno, prima domenica del nuovo anno, alla Casina dell’Uccelliera a Villa Umberto. Citato sia da Ballerini nel 1922 che negli statuti e regolamenti del 1923 e 1949. L’importanza dello statuto 1909, il quarto della serie, è dovuta alla circostanza che da pochi mesi – dal 20 agosto 1908 – la SPL si era affiliata alla Federazione Ginnastica Nazionale Italiana, e quindi il suo statuto doveva conformarsi a certe direttive di base. Il 1908 è l’anno in cui la Lazio organizza e vince, l’11 novembre, il 1° Cross Country Nazionale Podistico “Coppa Duca Costantino di Sparta”, evento indetto sotto gli auspici della FGNI. È possibile che dopo l’affiliazione Ballerini abbia disposto una commissione per la modifica dello statuto 1904. Il quinto statuto in ordine cronologico ha come data di stampa il 19 luglio del 1917. Trattasi di uno Statuto e Regolamento Generale approvato nell’assemblea straordinaria del 9 aprile. Sono dell’avviso, seppure non ne ho le prove, che fu pubblicato in anticipo sul giornalino "Lazio", un bollettino che la SPL distribuiva dal 1913. La sua visione in anteprima consentì ai soci, che ammontavano oramai a varie centinaia, di discuterne democraticamente la struttura. Lo SRG 1917 ebbe l’officio di regolare la sempre più ampia gamma di iniziative sia sociali (l’asilo nido in via Veneto, le conferenze sul tema della situazione delle donne povere e carcerate) che sportive e culturali, nonché l’avvenuta suddivisione nel 1912 della Società in sezioni amministrativamente autonome e collegate. L’informazione relativa alle due date di entrata in vigore e di stampa la si ottiene incrociando Ballerini 1922 con lo SRG 1949, dove pure lo statuto e regolamento del 1917 è citato, a riprova della sua centralità. Lo scopo sociale è di nuovo mutato nella forma testuale, come ci rivela la Guida Monaci 1918: "coltivare e diffondere la educazione e la coltura fisica e morale della gioventù".
Un obiettivo conforme alla fisionomia assunta dall’associazione, che a questo punto è più complessa di quella di una normale polisportiva, e anzi in Italia non ha l’eguale. Non conosciamo il numero degli articoli dello SRG 1917, ma, suddiviso com’era il libello in due parti distinte, dovevano essere molti di più di quaranta. È possibile che qui, oppure nel 1909 o addirittura nel 1904, siano comparsi articoli inerenti gli smalti e il motto. Un aggiornamento di questo statuto fu approvato in un’assemblea ospitata nella sede di via Veneto il 28 giugno 1921, all’indomani dell’erezione in ente morale. Il sesto statuto della serie risale al 1923. La Polisportiva lo detiene in formato elettronico, un libretto stampato dalla tipografia Egeria in via di San Giacomo, che è una traversa di via del Babuino, e posto in vendita a 60 centesimi di lira. Si tratta di uno Statuto e Regolamento Generale di rispettivamente 19 e 88 articoli, pure questo citato nello SRG 1949. Esso venne approvato nell’assemblea straordinaria del 9 aprile 1923, "in riforma di quello del 3 gennaio 1909". Era necessario avere un libretto acquistabile dai soci a causa dell’estrema articolazione raggiunta della struttura associativa. Infatti, c’erano molti modi di essere della "Lazio" nel primo dopoguerra. All’epoca, un tesserato o una tesserata potevano scegliere tra attività spazianti in campi e dai costi e l’impegno assai diversi: ballo, lezioni di lingue, di strumenti musicali e di teatro, giardinaggio, conferenze di professori su svariate tematiche, anche di natura impegnata e sociale, volontariato benefico assistenziale, escursionismo archeologico e montano, bocce, scherma, boxe, tamburello, football, ginnastica, discipline atletiche, eccetera.
Ipotizzo sia stata formata una commissione apposita dopo le dimissioni di Ballerini, o in concomitanza con la crisi dirigenziale intervenuta nell’autunno del 1921. Il cavaliere stesso potrebbe avere indicato la formulazione di base. Nel preziosissimo giornale "Lazio" del 30 marzo 1923 – che LazioWiki possiede in formato elettronico –, dopo il travaglio di un anno di discussioni interne venne finalmente presentata, agli oltre quattromila soci tesserati, la proposta del nuovo Regolamento Generale. [ALLEGATO 3] Lo SRG 1923 subì una prima revisione nell’assemblea straordinaria del 25 settembre 1924, come risulta dal numero del 15 luglio. Ad un’analisi critica del documento, si può notare che l’art. 1 mantiene la dizione riguardante gli scopi sociali, ma aggiunge, per cautelarsi dalla situazione di caos che impera nel Paese: "[la Società] rimane estranea a qualsiasi manifestazione politica e religiosa". Una formulazione che giudico molto "balleriniana" e che, come vedremo, sarà oggetto di interventi a favore e contro, negli statuti a seguire. L’art. 15, pure, è importante, giacché definisce gli smalti e il motto: "I colori sociali sono il bianco e il celeste: Concordia parvae res crescunt". Quello del 1923 è il secondo statuto arrivato integralmente fino a noi in letteratura, dopo il primo del 13 gennaio 1900, e anche qui non si rinvengono indicazioni sull’emblema sociale. Abbiamo la data di nascita, gli smalti – il bianco e una tinta di "celeste carico" – e il motto. Quest’ultimo, tuttavia, non ha veste di "divisa", ovvero non figura nello stemma. Che nei primi anni ‘20 è ancora imperniato sull’aquila a paradigma alpino, entrata nel 1905 e planata sulle carte sociali con la gestione dell’Uccelliera (vedi documento d’archivio 17 marzo 1906) e l’inaugurazione della sezione escursionistica (la famosa passeggiata a Veio di Ballerini del 12 marzo 1906). Sto parlando dell’attuale simbolo della Polisportiva: lo scudo a strisce verticali bianche e celesti e il cartiglio che lo attraversa. Il glorioso coat of arms della Società Sportiva Lazio.
Negli anni 1923 e 1924, l’Italia aveva già il suo primo Governo Mussolini. Per la Lazio, la "fascistizzazione" – quel processo di inquadramento e controllo politico dello sport in ogni sua propaggine, in un’affannosa e mai risolta ricerca di equilibrio tra le istanze dell’economia liberista e le ambizioni del "corporativismo" a matrice totalitaria – inizia nel 1925 e si conclude nel 1926. Piuttosto rapida e perfettamente dentro il lasso di tempo, calcolabile grosso modo dal 1925 al 1928, durante il quale il “duce” Benito Mussolini si impossessò del CONI, mise fuori legge le organizzazioni socialiste e cattoliche che si dedicavano allo sport, lanciò i suoi eserciti di uomini e donne ideologicamente orientati (milizia, dopolavoro, balilla e universitari), impose i suoi simboli e battezzò società sportive ortodosse, fossero esse del tutto nuove oppure il risultato di ricombinazioni di precedenti club sorti in epoca liberale. I personaggi che portarono a una Lazio piuttosto "nera", non solo nell’immaginario di oggi ma nella realtà storica dei fatti, sono noti, e ne cito i tre principali: il console miliziano Giorgio Vaccaro, che ricoprì le cariche di segretario del CONI e presidente della Federcalcio, nonché l’officio di vicepresidente della SS Lazio; il gerarca Nicolò Maraini, segretario del Fascio Laziale Sabino, che nell’estate del 1925 acquisì la carica di presidente della sezione calcio e atletica della SPL, e poi, a distanza di pochi mesi, quella di presidente generale; e infine Ettore Varini, pezzo grosso della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale e diretto superiore di Vaccaro, che l’8 settembre 1926 fu collocato alla presidenza, carica più formale che esecutiva ma che avrebbe tenuto fino al 1929, a fascistizzazione completata. Sapete bene come tra il 1926 e il 1927 Vaccaro, spalleggiato dall’altro vicepresidente Bitetti, trait d’union con la vecchia dirigenza liberale, riuscì a respingere l’assalto del gerarca abruzzese Italo Foschi, volto a inglobare la SPL nella nascente A. S. Roma.
Nell’iter di questa battaglia, durata due anni, la Podistica mutò il titolo in "Società Sportiva" e offerse a Mussolini la tessera numero uno di "socio vitalizio". La mutazione del nome entrò in vigore in un’assemblea straordinaria tenuta il 19 giugno 1926. Un mese dopo, il 18 luglio, in un’altra seduta similare furono approvate modifiche allo SRG 1923. A mio avviso, la modifica principale al testo riguardò il nome assunto dalla società. Se ci furono altre variazioni non possiamo saperlo. Non è mai stato rinvenuto uno statuto della SS Lazio per gli anni che vanno dalla stagione 1926-27 alla caduta del fascismo. Potrà sembrare strano, ma questa apparente anomalia rientra in un quadro abbastanza comune per l’epoca. Essendo mutata la natura giuridicamente democratica delle associazioni sportive, le variazioni statutarie discendevano da direttive emanate dall’alto per via politica, e, almeno riguardo alle vecchie società liberali, non ci si preoccupava di fissarle in libelli stampati per i soci, forse anche per evitare che avvertissero la soppressione delle libertà civili al raffronto con gli ordinamenti precedenti. Così, in un periodo in cui il regime mussoliniano salvò la Podistica da una probabile dissoluzione, o comunque da un indebolimento marcato – quello era l’andazzo, dovuto all’incompatibilità tra la sezione calcio, messasi sulla strada del professionismo, e le altre attività –, negli anni ’30 che videro la polisportiva rifiorire e gestire direttamente lo Stadio del Partito, ossia l’impianto dove nel 1934 si disputò la finale della Coppa del Mondo di calcio, si riscontra altresì l‘imbavagliamento graduale di una fratellanza umana sorta sulla scorta di principi improntati all’etica illuminista. Un abbraccio alla dittatura di tipo entusiasta, e del quale potrei dare qui molteplici esempi. Basti pensare all’acquisto "politico" di Silvio Piola dalla Pro Vercelli, vero capolavoro di Vaccaro.
Un’adesione che non esito a definire totale, opportunistica e priva di riserve morali, sulla falsariga di un patriottismo male interpretato; al punto che, nel novembre del 1938, la SSL sarà una delle prime realtà sportive di rilevanza nazionale ad eseguire le inique direttive sull’espulsione dei "non ariani". Sarebbe configurabile l’ipotesi che nello statuto biancoazzurro siano stati apportati interventi pesanti, al fine di stare al passo con le leggi fasciste e la deriva razzista dell’ultima fase. Infatti, lo spirito dello SRG 1923 – nello specifico l’articolo che definiva la SPL estranea a interferenze politiche e religiose – era troppo liberale per l’Italia del consenso alla dittatura. Ma non abbiamo nulla di rilevante in proposito a livello di documentazione. Per quel che ne so, non c’è in circolazione uno statuto stampigliato in copertina con la classica dicitura "E. F." Mai mi è capitato di averne uno sott’occhio, nonostante i tanti faldoni polverosi che ho fatto tirare giù dagli scaffali in oltre trent’anni di ricerche. Sappiamo, tuttavia, che già il 23 luglio 1927, in un’assemblea ordinaria presieduta dal generale della milizia Varini, furono approvate modifiche allo statuto del ’23, tra cui una che contemplava la nuova categoria dei soci vitalizi. E da lì l’abitudine ad operare variazioni statutarie non elaborate da una commissione e discusse in sede assembleare, bensì imposte dall’alto. Il regime instaurato nel 1925 da Mussolini, che subito eliminò d’imperio dallo stemma l’effigie della pacifica aquila alpina, sostituendola nel 1928 col fascio littorio, sostenne la S.S. Lazio nella sua crescita, fino a darle la possibilità di svolgere tredici discipline e primeggiare in vari settori, e però presentò il suo conto. Che lo statuto non sia stato riformulato lo si evince dall’annuncio comparso sul Corriere dello Sport (l’ex Il Littoriale che, per poco tempo fino all’arrivo delle truppe d’occupazione germaniche, riacquisì la testata nativa) il 15 agosto 1943, a poche settimane dall’arresto di Mussolini da parte del re Vittorio Emanuele III.
Il testo: "La S. S. Lazio, fondata a Roma nel 1900 e eretta in ente morale nel 1921, comunica: Il consiglio direttivo della S.S. Lazio, interprete dell’attuale momento, si ritiene decaduto. In attesa di disposizioni superiori la direzione della Società è stata affidata ad un Comitato di soci fondatori. Il Comitato richiama i soci all’art. 1 dello Statuto a norma del quale: la S. S. Lazio ha lo scopo di coltivare e diffondere il podismo, calcio e altri generi di sani esercizi, come mezzi di educazione fisica e morale della gioventù. Rimane estranea a qualsiasi manifestazione politica e religiosa. Su questo straordinario comunicato vi propongo, in via del tutto personale, alcune semplici riflessioni. La prima è che la formula escogitata per chiarire gli scopi della associazione è inedita; più esattamente, è una ibridazione di tutte le altre formule apparse dal 1900 in poi, e che abbiamo menzionate. In ogni modo, la formulazione è diversa da quella dello SRG 1923. Risponde forse a uno statuto modificato durante la dittatura, ossia dopo il 1924? Io non lo credo. Lo sport, nella concezione mussoliniana, lo si voleva "super-politico" e non "estraneo alla politica". Penso, piuttosto, che il comunicato pubblico del Comitato dei soci fondatori sia un artificio escogitato per mettere le distanze tra loro stessi e la ex dirigenza, facendo conoscere alla gente la volontà della "Lazio", sodalizio nato nel 1900 ergo molto prima dell’avvento del fascismo, di continuare l’attività in un tempo di spaventosa confusione e letale incertezza. Quel che soprattutto mi spinge ad avanzare una simile ipotesi è il dettaglio dell’uso del termine "podismo", desueto dal primo dopoguerra e che, limitatamente agli statuti pregressi, non compariva da quasi quarant’anni. Il motivo della citazione di questa parte dell’articolo d’esordio dello "Statuto" sta nella determinazione di rimanere fuori del marasma politico e bellico. Agendo in una tale maniera, i "fondatori" intesero porre al riparo l’associazione da eventuali problemi legati al crollo del regime. Come dire: "Noi, in realtà, cari amici sportivi, siamo sempre stati quelli dell’ante dittatura, non ci interessano le ideologie e solo intendiamo praticare lo sport in santa pace. Non ci credete? Ecco lo Statuto vigente e rimasto immutato!". Questa bella cosa, Ancherani, Masini e gli altri, la dissero urbi et orbi mentre Benito Mussolini era ancora socio vitalizio numero uno della SSL. Una bugia a fin di bene. Una "bugia bianca".
Gli statuti repubblicani del primo dopoguerra
Esaminiamo per primo il periodo delicatissimo che va dal 1944 a tutto il 1946. È il momento della liberazione di Roma dal nazi-fascismo e della ripartenza democratica, in un paese che, seppure controllato militarmente dalle forze d’occupazione anglo-americane, rischia una guerra civile di natura ideologica. Da una nota del Corriere dello Sport, risulta che un’assemblea programmata per il 26 agosto 1944 venne rimandata "a data da destinarsi". Il Comitato dei soci fondatori doveva sovraintendere alla gestione delle partite della sezione calcio impegnata nei "tornei di guerra" (per chi avesse interesse all’argomento, può leggere il mio saggio Der Fussball in Rom während der deutschen und anglo-amerikanischen Besatzung (1943-1945), inserito nel volume di M. Herzog e F. Brändle Europäischer Fussball im Zweiten Weltkrieg, Stuttgart 2015), che il nazifascismo tollerava unitamente ad altri sport professionali; e c’era da amministrare la Società. In questo senso, abbiamo un documento concernente Giorgio Chiaron Casoni, tesserato in qualità di "socio effettivo" il primo aprile del 1944, con la firma in calce di Tito Masini sotto la stampigliatura "commissario straordinario". Con Masini e Sante Ancherani, alcuni dei nomi che risultano nel comitato di reggenza sono quelli di Odoacre Aloisi e Fernando Saraceni, i fratelli Lucio e Giovanni Giannelli, Osvaldo Zacchi, Arnaldo Coni e Andrea Ercoli, con Dino Canestri a fungere da allenatore della squadra di calcio. È certo – lo scrive Ercoli nelle sue memorie pubblicate nel 1999 con l’aiuto di Pennacchia – che il 9 settembre del 1944 si svolse nei "locali sociali" in via Borgognona 47, ovvero l’Accademia nazionale d’armi gestita dal maestro di scherma Agesilao Greco, la prima assemblea del dopoguerra, "la prima da una quindicina di anni". Lasciando intendere che finalmente si tornava a una base elettiva, e non più a riunioni formali nelle quali si rendevano operanti nomine già assegnate per vie gerarchiche. In quella occasione, presidente generale venne eletto Raoul Campos Venuti, lo storico tesoriere ebreo del periodo 1925-33, con alla vicepresidenza Giorgio Casoni e Alberto De Peppo, segretario Saraceni, Masini nel ruolo di economo ed Ercoli a capo della sezione calcio.
La squadra senior che, imitando quanto era avvenuto al nord, si era stabilita in "gestione cooperativa", con la spartizione diretta degli utili del botteghino tra gli stessi giocatori. Un’interpretazione leggermente diversa di questi avvenimenti della stagione ‘43-44 la fornisce lo stesso Ancherani in una lettera indirizzata, poco prima di morire, a Gian Casoni, che voleva sapere da lui l’esatta successione dei presidenti del calcio. Ancherani afferma che nel 1943, dopo la caduta di Mussolini, il CONI lo nominò "commissario straordinario", e poi, "dopo la liberazione", l’officio passò ad Ercoli. Lo stesso Ercoli scrive di avere ricoperto per breve tempo quella carica. A mio parere, fu Ercoli l’uomo che ricaricò la molla della S.S. Lazio, un orologio che avrebbe potuto rompersi per sempre. Il riavvio lungo la giusta rotta fu operato seguendo la stella polare del football. Il primo luglio del 1945, in vista della prima stagione agonistica a cifra nazionale sotto l’egida di una FIGC ricompattata, grazie ai buoni uffici di Ercoli si tenne un’assemblea generale nella quale si elesse presidente della sezione calcio Arnaldo Coni, il dirigente che in epoca mussoliniana si era occupato della sezione giovanile e della squadra riserve. Lo stesso Coni si dimise di lì a tre mesi, assieme a tutto il consiglio direttivo, accorgendosi di avere fatto il passo più lungo della gamba. Entrò allora in scena Giuseppe Rivola, uomo d’affari imolese, principale concessionario della FIAT a Roma con la sua filiale all’Esquilino. Nel 1946, Rivola ed Ercoli, dopo aver fatto vidimare a maggio dal Regio Tribunale di Roma il registro utile a riportare per iscritto i verbali sociali (spariti nel frattempo quelli fascisti), organizzarono, il sabato sera del 13 luglio a via Borgognona, un’assemblea straordinaria nella quale furono approvate modifiche allo statuto; nell’articolo apparso sul Corriere dello Sport si parla di "quelle varianti necessarie alle nuove esigenze". Immagino ci si riferisca alla pulizia dei cascami fascisti e all’avvento del sistema repubblicano dopo il referendum del 2 giugno. Gli epocali rivolgimenti in corso, dunque, pesavano sulle tempistiche della riorganizzazione strutturale della Lazio.
La situazione nel Paese era tesissima e non si volevano complicazioni. Rivola, che non si interessava per nulla di politica, fu eletto alla presidenza generale, come da programma e col sostegno di Ercoli. Divenne così il diciassettesimo presidente nella linea di successione dal 1902, senza calcolare Bigiarelli, che presidente non aveva voluto esserlo, le reggenze e i commissariamenti. Purtroppo, non disponiamo della documentazione dell’assemblea occorsa il 13 luglio 1946. I verbali custoditi partono, infatti, dalla prima riunione di insediamento del consiglio, avvenuta il giovedì del 18 luglio. Quattro giorni prima, di domenica, c’era stata la seconda parte dell’assemblea che aveva portato al seguente direttivo: Giuseppe Rivola presidente, consiglieri Umberto Mariotti, Ferruccio Caramalli, Giorgio Chiaron Casoni, Raoul Campos, Andrea Ercoli, Silvio Orlandi, Alfredo Ciarlanti, Giuseppe Stinchelli, Giovanni Giannelli; sindaci effettivi Ernesto Candela, Pietro Felicani, Fernando Saraceni. Nella riunione d’esordio, Casoni e Campos furono nominati vicepresidenti. Ercoli – proprietario di un’azienda agricola, personaggio generoso e di famiglia lazialissima, col fratello più grande, Giuseppe, che aveva fatto parte della schiera di coloro che avevano estromesso Ballerini – venne chiamato dal consiglio a presiedere la "ricostituenda" sezione calcio; il che fa pensare che la stagione 1945-46 i calciatori l’avessero disputata senza un pool di dirigenti in carica. Il cavalier Ercoli, ex corridore automobilista amateur, aveva tirato su soldi pesanti grazie al re Vittorio Emanuele III, che negli anni ‘30 gli aveva affidato la bonifica della tenuta di Castel Porziano. Nel verbale della seduta del 18.7.1946 non si accenna allo statuto modificato. Le sezioni in quel momento erano cinque: calcio, escursionismo, ciclismo, nuoto e canottaggio, svolto quest’ultimo al "Circolo" al lungotevere Flaminio sotto la guida di Carlo Adinolfi; il nuoto si era ripreso a farlo sul Tevere, come negli anni ’20, appoggiandosi a uno stabilimento privato di quelli a pagamento.
Rispetto al 1943, di sezioni se ne erano dunque perse la bellezza di sei. Occorreva una guida, e il pregio di Ercoli consisteva nel non avere ricoperto ruoli politici nel regime defunto, la sua fede biancazzurra non ponendosi minimamente in discussione. Si ripartì da lui. Uomini più coinvolti nella Lazio fascista, ad esempio Olindo Bitetti, Giorgio Vaccaro e Remo Zenobi, si preoccupavano in quel momento dei loro affari personali, di stare nascosti o, addirittura, avevano riparato all’estero, in Sud America nel caso di Bitetti. Nel triennio 1947-49 possiamo dire che la S.S.L. si riassestò per bene. Dalla ricognizione dei verbali delle sedute, tenute dapprima in via Borgognona 47 e poi a via Frattina al civico 89, emergono alcuni fatti. Innanzitutto, il rientro alla base di Bitetti, il vecchio drago che, abbandonati i suoi giri in Brasile e le battute di pesca al tonno al largo del Perù, riapparve un bel giorno al Circolo, spodestò Adinolfi e venne acclamato vicepresidente della Polisportiva (24 giugno 1948). Col recupero di Bitetti, la Lazio riacquisì una forza strategica di fondamentale importanza. La clamorosa riapparizione di Bitetti diede il segnale, tra l’altro, ad altri personaggi implicati nella gestione pregressa che l’ambiente non disdegnava di seguirli ancora. Si instaura, in tal modo, un’atmosfera conservatrice. Quel che conta è la "Lazialità", la fede nei colori, per cui le gesta di un Piola in era fascista mantengono il loro valore: sono momenti da ricordare e non da disprezzare. È da sottolineare questo fatto, perché molte società sportive nascevano, al volgere degli anni ’40, con una marcata valenza politica, ideologicamente orientate a sinistra e al centro cattolico cristiano. In molte di esse, in ottemperanza a un desiderio che comunque appariva più forte al settentrione, regnava una logica di epurazione.
Inoltre, erano sorti gli "enti di propaganda", novella genia di organizzazioni nazionali collegate ai principali partiti – la DC, il PCI, il PSI, ecc. Essi già contestavano la leadership del CONI che il commissario Giulio Onesti aveva dichiarato apolitico, basando sostanzialmente la propria indipendenza sul gettito del Totocalcio. Anche sulla scorta di questa situazione creatasi nel settore sportivo – un CONI formalmente autonomo ma nella realtà dipendente dai milioni procurati dal calcio professionistico, diretto da uomini formatisi sotto il regime per una precisa scelta di Onesti avallata dal giovane segretario di Alcide De Gasperi delegato alle questioni dello sport, ovvero Giulio Andreotti – si deve valutare lo speciale equilibrio di forze che venne a maturazione nel giro di due lustri all’interno della Lazio: una sezione calcio con un giro d’affari milionario e alla presidenza agiati imprenditori da una parte, il lotto delle sezioni sportive dall’altra. Sezioni che, in una certa misura, e certamente nell’immaginario popolare, costituivano "l’altra Lazio", la polisportiva degli atleti dilettanti animata da dirigenti votati alla causa: i Pensa, i Maffei, i Bitetti, i Nostini, i Casoni, i Gualdi, gli Zenobi, i Tessarolo, i Siliato. Il nobile sodalizio nato nel 1900 che all’occorrenza riusciva a catturare nella sua orbita mecenati sul modello del conte Cremisini. Se non ché, queste sezioni sopravvissute allo shock bellico gradualmente aumentarono da cinque a una dozzina, pretendendo sovvenzioni dalla presidenza generale che, a sua volta, le cercava invano dal calcio. Tutti i verbali degli anni ’50 sono irti di discussioni sulle due tematiche. Si discute, anche abbastanza vanamente, da tifosi proprio, dei successi e degli insuccessi agonistici, dei personaggi e della situazione economica della "Squadra", all’affannosa ricerca del suo primo scudetto e però strutturata in modo tale da non poter competere con le aziendali Milan, Inter e Juventus. Nel contempo, si bisticcia sulle scarse finanze messe a disposizione dalla Lazio Generale; ci si lamenta di dover stare col cappello in mano a chiedere la questua e si sottolineano i miracolosi raggiungimenti delle sezioni, vincitrici di titoli tricolori assoluti nel nuoto e nella pallanuoto, nel baseball, nella scherma e nel pattinaggio a rotelle.
La terza tematica più dibattuta nelle sedute assembleari e nelle riunioni ristrette del direttivo tenute, dall’aprile del 1947, nella sede di via Frattina, riguardò lo statuto. Nel 1948-49 venne nominata una commissione col compito di elaborare un nuovo Statuto e Regolamento Generale. Il recupero della democrazia parlamentare comportava uno SRG equivalente all’ante dittatura. Il testo definitivo lo redassero i consiglieri Bevilacqua, Mariani, De Bartolomei, Precone, Panico, Morosini e Campanile. Fu, la commissione, una delle prime mosse di Remo Zenobi, acclamato alla presidenza generale nell’assemblea straordinaria del 12 febbraio 1949. Lo statuto e regolamento venne approvato, con 361 favorevoli e 10 contrari, da un corpus composto dai tesserati in regola con i pagamenti. Entrò in vigore il 12 maggio 1949. Nella seduta del 14 maggio, il vicepresidente Casoni fece un discorso durante il quale, tra le altre cose, disse: "Con questo si è fatto un decisivo passo avanti nella organizzazione strutturale della nostra Società". Purtroppo, in allegato nei verbali non c’è lo SRG 1949. Sappiamo che una sua bozza venne distribuita il 28 di aprile durante la pubblica seduta di lettura per la presentazione ai soci. Dall’esame dei verbali del Collegio dei Probiviri, si evince che, alla data del 15 giugno, il libello era stato stampato o in procinto di esserlo. [ALLEGATO 4] Dall’esemplare in possesso del Centro Studi Lazio 1900, estrapoliamo che l’articolo primo riprese pari pari gli statuti degli anni ’20: "coltivare e diffondere le varie discipline come mezzo di educazione fisica e morale"; scopo perseguito attraverso le sezioni aderenti alle rispettive federazioni nazionali. Ma, soprattutto, saltano all’occhio due cose: il ripristino dell’articolo sull’estraneità della Società alla politica e alla religione – probabilmente già inserito nell’assemblea del 9 settembre 1944, o al limite in quella del 13 luglio 1946, praticamente obbligatorio visto il caos endemico con la lotta serrata in corso tra le forze di sinistra, più o meno filo-sovietiche, e il centro filo-americano – e la definizione degli smalti sociali, inserita in coda all’articolo 1, che diventano "il bianco e l’azzurro".
Perché biancazzurri? Semplicemente perché si segue la dizione esemplata dal calcio. I giocatori amati dal popolo laziale vestono una maglia biancazzurra e i giornali li chiamano "biancazzurri"; i circoli dei tifosi sono biancazzurri, non biancocelesti. Nel 1951 nasce un periodico "Bianco-azzurro", che ragguaglia sulla squadra che milita nella Serie A e sulle altre squadre minori, rende protagonisti i tifosi e pubblica il regolamento generale dei circoli. Sul giornalino, che subito diventa molto popolare, l’attività in tutti gli sport fa da cornice al calcio, perché è esattamente questa la percezione che i laziali hanno della S. S. Lazio. Il biancoceleste del 1904 cede al biancazzurro per usucapione, nella sostanza. Come chiosa, posso aggiungere che lo statuto e regolamento del ’49 venne stampato nella Tipografia Carpentieri. La ditta del signor Giandomenico Carpentieri esiste ancora, in via Cassiodoro 6. Dopo lo SRG 1949 seguirono, nel giro di poco tempo, due aggiornamenti, esattamente nel 1952 e nel 1955. L’analisi puntuale dei verbali ci aiuta a capire in che misura supportarono la crescita delle sezioni. Lo SRG 1952 ebbe come elaboratori Mariani, Bitetti, Campos, Giuliani e Mortari; su consiglio di Renzo Nostini, anch’egli rientrato nel consesso per via dell’interesse alla sezione nuoto, lo SRG venne approvato tramite un referendum popolare, e non in assemblea. Una sua bozza venne presentata l’ultimo giorno del 1951 sul giornale sociale, similmente a quanto si era fatto nel 1923. [ALLEGATO 5] C’è da considerare, come accennato, che questo ragionamento a livello statutario sulle sezioni consentì di aumentare rapidamente il loro numero, con l’upgrade da sottosezione della pallacanestro a sezione della pallavolo e l’arrivo nel dopoguerra delle sezioni baseball, hockey e pattinaggio; infine, la scherma e il rugby, entrate nel 1954 nonostante le proteste delle sezioni ciclismo, escursionismo e nuoto che non intendevano spartire i quattrini. Favorevole a questo andamento propositivo volto a varare sezioni sportive – regolato dall’articolo 7 comma A dello statuto generale – si mostrò il presidente Remo Zenobi, spalleggiato dal potente finanziatore Eugenio Gualdi, che giunse a ricordare ai consoci come in epoca fascista la S.S.L. avesse avuto fino a tredici sezioni attive.
La scomparsa improvvisa di “papà” Zenobi, occorsa nel maggio del 1953, non mutò più di tanto il processo in corso. L’obiezione mossa all’allargamento fu che le sezioni dovessero essere finanziariamente autonome, oppure smettere del tutto di esistere. Una posizione logica, specialmente caldeggiata da Nostini, e che, se fosse stata posta in pratica, avrebbe impedito la crisi intervenuta a cavallo tra gli anni ’50 e ‘60. Bitetti, da nuovo duce del Circolo al lungotevere Flaminio, ergo a capo della sezione canottaggio affiliata FIC e della sottosezione tennis, rincarava che un ostacolo più tremendo, e che realmente impediva il benessere della Lazio, risiedeva nella mancanza di impianti di proprietà o in concessione dal Comune. Avuti quelli, le sezioni avrebbero camminato con le proprie gambe, senza pietire nulla (circa 15-20 milioni annui per le spese delle sezioni e della Casa Madre) a chi gestiva il football. E infatti, il 13 gennaio 1953 partì la discussione sull’ampliamento della casina sul Tevere, che porterà nel 1954 al varo della scenografica piscina progettata da Nostini e a un revival delle fortune del circolo nautico. In questa data, la sezione calcio si prese carico ufficialmente di tutte le spese inerenti "la Sede, il Circolo e lo Stadio della Rondinella", ossia le tre case biancazzurre. La crisi finanziaria, per la regina delle sezioni e con Zenobi vivo, ancora non veniva avvertita come un ostacolo alla collaborazione. Nei verbali, bisogna dire che Nostini e Bitetti appaiono i più ricchi di idee. Bitetti è uno di quelli che non si espone finanziariamente in prima persona, incline a suggerire strategie che mirano a ottenere impianti dal potentissimo Onesti. Un po’ come operava Ballerini negli anni dieci, quando si appoggiava ai suoi amici massoni che avevano le mani in pasta nella cosa pubblica; o come lo stesso Bitetti aveva fatto negli anni fascisti, ottenendo favori da Vaccaro e dal segretario amministrativo del PNF Giovanni Marinelli.
Per risolvere l’assillo della cagnotte, nel novembre del ‘53 Nostini propose di adottare un sistema di cooptazione di società praticanti sport di moda, come ad esempio le arti marziali. Ma incontrò l’ostilità dei soliti capisezione, preoccupati di non aumentare le fette della torta. Giustamente, Nostini rilevava che azioni del genere non avrebbero comportato aggravi economici, accrescendo al contempo le possibilità di imporsi su fronti inesplorati. Tutti questi discorsi, e il revanscismo zenobiano sullo sfondo che innescò il revival della polisportiva ad ampio spettro, furono la causa del nuovo "sistema di statuti" coinvolgente il funzionamento delle sezioni, che nella stagione 1953-54 erano ormai nove. Il mettere mano di continuo agli statuti fu un tentativo di risolvere le contese interne e venire a capo delle deficienze finanziarie, che avrebbero invece avuto bisogno di interventi concreti e non di chiacchiere e cavilli giuridici. Lo SRG 1952 venne anch’esso stampato da Carpentieri, indicativamente poco prima dell’estate o a luglio-agosto. Allo SRG del ‘52 seguì quello del ‘55, che si caratterizzò per l’articolazione netta tra società e sezioni. Un tipo di strutturazione che, come abbiamo visto, era un portato dell’aumento delle sezioni dopo dieci stagioni di rilancio. Anche la AS Roma di Renato Sacerdoti da un paio d’anni si muoveva in tal senso, e forse la cosa servì da stimolo competitivo. Purtroppo, l’annata 1955 manca completamente nel libro dei verbali, dove si passa dal direttivo del 16 dicembre 1954 a quello del 26 gennaio 1956. Forse la cosa è collegabile al fatto che il 1955 fu un anno difficile per la sezione calcio, per via delle dimissioni del discusso conte Mario Vaselli da vicepresidente occorse in piena estate. Nell’assemblea del primo agosto 1955, si decise di concedere pieni poteri a Costantino Tessarolo, un imprenditore vicentino amico del facoltoso consigliere-tifoso Bornigia ed entrato sei anni prima nel direttivo: calcio e presidenza generale fino alla chiusura dell’esercizio sociale, ovvero fino al 30 aprile 1956. L’esposizione debitoria assommava a 100 milioni e spicci (con Zenobi si era arrivati a 170).
Inoltre, gravava nell’aria un progetto di affiancare una "finanziaria" (leggi sponsor) alla Lazio Calcio, a imitazione dell’A.C. Torino Talmone e del Lane Rossi Vicenza. Si trattava di una soluzione radicale e quasi un colpo di mano in quanto – lo disse lo stesso Tessarolo all’assemblea – già con i "pieni poteri" si andava contro lo statuto, ma l’alternativa sarebbe stata più grave: "lo scioglimento del consiglio direttivo e della giunta esecutiva". Il redivivo Giorgio Vaccaro, uno degli elementi pesantemente collusi col regime ma reintegrati dopo che prima Bitetti e poi Zenobi avevano sfondato la porta, fu l’unico che in sede di dibattito si mise di traverso, concedendo dopo qualche precisazione di allinearsi alla maggioranza. Siamo nell’estate dello scandalo FIGC che condusse alla retrocessione dell’Udinese, seconda classificata. La S. S. Lazio andava forte nella pallanuoto, nel nuoto e nel baseball, discretamente nel basket e nel rugby, ma le questioni calcistiche rimanevano il focus delle riunioni. I denari provenivano da lì: le briciole del carosello dei milioni per accaparrarsi le stelle del pallone. La possibilità a breve termine di creare una cordata per salvare la Società abbinandosi a un gruppo industriale non si realizzò. L’assemblea del primo agosto 1955, non riportata nei verbali bensì in una cronaca del Corriere dello Sport, si concluse con Tessarolo che presentò piuttosto "il progetto per la nuova sede che dovrà sorgere al Lungotevere e che prevede lavori per duecento milioni. Una sede che sarà costruita entro il 1960... Un circolo sportivo che non avrà eguali in Europa, degno di una grande città come Roma". Di questo progetto inevaso non rimane traccia documentaria. Se non un disegno che sarebbe stato pubblicato nel 1979 dal Circolo. Ma vedete come, a un passo da frangenti drammatici che avrebbero condotto la S.S. Lazio sull’orlo della sparizione, si pensasse in termini propositivi, sull’onda di un boom economico che stava giusto iniziando a percepirsi nella vita della nazione.
Giunti a questo punto, preferisco attenermi allo scandaglio dei verbali, evitando riassunti che avrebbero il carattere di voli pindarici, col rischio che non si capirebbero diverse cose, sfuggirebbe la complessità degli avvenimenti. All’abbrivio del 1956, la polisportiva contava su undici sezioni; undici come nella famosa medaglia d’argento del 1940, presa a modello per riproporre l’emblema dell’aquila. Un’aquila laziale che, nel dopoguerra democristiano, assunse le fattezze di una ibridazione tra l’aquila alpina della Podistica e quella fascista imperiale. Le sezioni venivano così citate nei verbali: calcio, canottaggio, ciclismo, escursionismo, nuoto, pallacanestro, pallavolo, baseball, rugby, scherma e tiro al piattello, quest’ultima costituita nella seduta del 26 gennaio 1956; parimenti, una sezione per l’atletica leggera era stata affiancata come sottosezione all’escursionismo. Un rientro epocale, se pensiamo che la Lazio era nata da un mulinello di gambe. I contributi assommavano a 30 milioni, due terzi dei quali spartiti tra canottaggio, nuoto e baseball. Per cui si può dire che nella sorellanza delle sezioni ce n’era qualcuna che valeva più delle altre. Non solo il calcio, orwelliana creatura egemone, e che continuava nella sua stolta discesa verso gli inferi del default finanziario. Il 4 novembre del ‘56 si svolse un’assemblea straordinaria innescata dal disavanzo eccessivo della sezione principe, dopo gli sperperi sciagurati di Tessarolo&Vaselli valutati in 818 milioni di lire. Tessarolo diede le dimissioni da presidente della squadra di calcio. Il 23 del mese subentrò una reggenza, formata da Leonardo Siliato, sessantenne professore universitario genovese già amministratore dell’Ansaldo e della Terni in era fascista, e dall’imprenditore del settore farmaceutico Antonio Alecce. L’assemblea non è verbalizzata nei registri. E neppure quella successiva, svolta a gennaio del 1957, quando Siliato assunse in solitario la presidenza della sezione calcio.
Lo è, invece, quella dell’11 marzo 1957. Molto accesa, perché, al cospetto di un Tessarolo ora dimissionario anche dalla presidenza generale, Bitetti disse che la situazione era diventata drammatica per la ragione che "i dirigenti del calcio sono gli stessi della dirigenza generale". Bitetti usò i termini "incoscienza", "promesse non mantenute", "difetto costituzionale". Nella sostanza, all’abbrivio del 1957 si profila ciò che avverrà nell’arco di un settennio: il diramarsi della spaccatura tra la sezione calcio e la casa madre e la decisione di rendere autonome amministrativamente le sezioni, innalzandole a società a sé stanti. Questa riunione del consiglio fu lunghissima e venne necessariamente ripresa il 26 marzo, con la raccomandazione finale di Casoni di non dire nulla alla stampa. Tessarolo non vi partecipò "per inderogabili impegni". All’ordine del giorno entrò, pertanto, la voce "elezioni", ai sensi dell’articolo 13 dello statuto. Casoni propose come presidente generale il conte Antonio Cremisini, che il consiglio elesse per acclamazione. L’illustre personaggio, pure lui un ex colluso ad alti livelli col regime, non era presente, ma Siliato e Casoni la sera prima avevano incassato il suo assenso. In modo analogo si era agito con Remo Zenobi: consultazione dei "senatori", accordo dietro le quinte col candidato, presentazione al popolo. Alle ore 21, dopo una telefonata, Cremisini in effetti fece il suo ingresso nella sala principale della sede di via Frattina e Siliato gli appuntò sul bavero il distintivo sociale d’oro. Con l’arrivo di Cremisini si ebbe subito, in ottobre, la costituzione della sezione atletica leggera, sganciata dall’escursionismo e finalmente affiliata alla FIDAL. La sezione numero dodici. Il conte Cremisini, deputato missino e fervente monarchico, è un personaggio davvero unico nella storia della S.S.L.: investì molti denari nella causa senza ricavarne grandi utili, a parte gli applausi dell’ecclesia biancazzurra e qualche voto in più alle elezioni politiche. Nel 1958 il direttivo, condotto da Bitetti, gli propose la questione dello statuto da rinnovare, al fine di rendere "più operanti il consiglio e la presidenza". Si formò una commissione, della quale non sappiamo i nomi poiché nei verbali si riparte dal 25 luglio 1958, allorché Cremisini ricordò alla commissione di sbrigarsi.
Il conte era uno di quelli – non molti, una minoranza sparuta in verità – che caldeggiavano la possibilità di abbinamenti commerciali da parte delle singole sezioni, nella speranza di sgravarsi un poco. Ma nel febbraio del 1959 la sua azione si interruppe bruscamente. Spedì ai presidenti di sezione una lettera nella quale espresse la volontà di non essere riconfermato in carica: paperone sì, ma non desideroso della pentola. Queste riunioni del consiglio generale oramai si svolgevano in due stanze a via Frattina, in una sede in via di degrado (venne istituita una "commissione per la sede"), mentre il professor Siliato dal 4 dicembre 1957 aveva spostato la "Lazio Calcio" a viale Rossini, in un bel villino prospiciente piazza Ungheria nel cuore dei Parioli. Le due sedi distinte – una nuova e funzionale, l’altra vecchia e con i mobili tarlati – erano il segnale tangibile del fossato profondo che separava la polisportiva dalla sezione calcio. Fortunatamente per lui, Cremisini capì in tempo di non poter continuare a svenarsi per tenere in vita le sezioni dilettantistiche (circa 54 milioni in un biennio), alcune delle quali molto valide e onerose da foraggiare. Al centro della difficoltà di Cremisini a ripetere un altro biennio di presidenza ci fu un motivo di base: l’impossibilità di migliorare l’organizzazione strutturale della Società, stante le deficienze a suo dire presenti nello statuto. I tre statuti aggiornati del 1949, 1952 e 1955, dunque, non erano bastati. Il conte denunciò all’uditorio la mancanza di chiarezza nei rapporti tra il calcio e le altre discipline, riscontrabile nelle carte societarie dal 1945 in poi, a dispetto dei continui aggiustamenti. Sotto la breve ma intensa presidenza Cremisini si impose, o forse meglio dilagò, la sensazione comune che le sezioni dovessero fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze. E fu a questa stazione del calvario che "Olindo il leone", "l’uomo per tutte le stagioni", prese decisamente il controllo della situazione. Nella seduta del consiglio generale svolta il 3 marzo 1959, Bitetti, conti alla mano, ricordò ai consiglieri e probiviri come si stesse "sull’orlo del fallimento, e la sezione calcio prima fra tutte".
Citò come modello da seguire il Real Madrid (si recava spesso per affari in Spagna), dove tutti i soci – decine di migliaia e non poche centinaia – ogni anno donavano una quota abbonamento per assistere alle partite di football: un bell’ammontare di pesos che contribuiva alla gestione polisportiva del club caro al dittatore Franco. Il decano biancoceleste, considerato unanimemente il padre superstite della S. P. Lazio, si candidò a nuovo presidente della polisportiva. Lo fece quasi in contrapposizione a Siliato, che teneva le riunioni della "sua Lazio" a piazza Ungheria, e dal quale assolutamente non arrivavano più sovvenzioni, neanche minime, alla Casa Madre. La discussione, quella sera del 3 marzo 1959, partì accesa e si udirono parole aspre da parte di taluni consiglieri vicini a Bitetti, tipo: "la sezione calcio non ci considera niente, non esistiamo addirittura!". In un clima da "allons enfants de la Patrie!", eletto per acclamazione dal direttivo, Olindo Bitetti ritornò così alla guida della S. S. Lazio. La riunione si chiuse all’una di notte, aggiornata al martedì successivo, allorché si procedette all’elezione delle varie cariche. Siliato e Nostini furono chiamati alla vicepresidenza, mentre segretario generale rimase Arnaldo Coni. Nella prima seduta della giunta esecutiva, tenuta il 10 di aprile, Bitetti accettò la presidenza temporanea della sezione scherma, il cui consiglio si era dimesso per via di un dissidio con la FIS. Si tratta del primo step di un’operazione che porterà alla fusione, pilotata da Nostini, della scherma biancoceleste col Circolo Pessina, per dare vita all’attuale Club Scherma Roma; il motivo per cui la disciplina della scherma, dalle eccelse tradizioni risalenti alla Grande Guerra, non rientrerà di lì a poco nel novero delle società riunite sotto lo scudo della Associazione S. S. Lazio. Tra le prime decisioni di Bitetti presidente ci furono pure l’affidamento dell’atletica leggera a Uber Gradella, l’ex portiere del team di calcio che aveva aperto un negozio di articoli sportivi, e l’inaugurazione, fissata per il 21 aprile, di un "Circolo Sociale al Palazzo Bernini".
A questa data, erano quindici le discipline praticate a buoni livelli ed elencate nelle carte sociali: atletica, baseball, calcio, canottaggio, ciclismo, escursionismo, hockey e pattinaggio, nuoto, pallanuoto, pallacanestro, pallavolo, rugby, scherma, tennis, tiro al piattello. Bitetti divenne finalmente presidente generale unico – non era mai stato alla guida se non in reggenza con Gerardo Branca nel 1924-25 – nel momento dell’espansione massima della polisportiva dalla sua nascita. E col temporale più grosso che tuonava all’orizzonte dai giorni degli assalti di Italo Foschi. Come accade per i terremoti a elevata magnitudo e le più spettacolari eruzioni vulcaniche, molti indizi preannunciavano il botto. Tra questi, il fatto che dal gennaio del 1959 la sede di via Frattina fosse sotto sfratto.
La crisi e la sua soluzione
Da presidente in carica, Bitetti si trovò ad affrontare le istanze libertarie palesate dalle sezioni: non tutte, ma le più importanti sì. Ad esempio, nella seduta tenuta il 26 marzo 1960 dal consiglio generale, tornato a riunirsi a via Borgognona, il consigliere dott. Massimo Giovannini, vicepresidente della sezione ciclismo, rilevò come ogni sezione avesse "una sua autonomia", tale da "assumere l’aspetto di una vera e propria società". Secondo il parere di Giovannini, la S.S.L. si poteva "quasi paragonare ad una confederazione". Giovannini rilevava, ricevendo cenni di capo positivi da parte dei colleghi del consiglio, come le sezioni invece di collaborare si ignorassero a vicenda, isolando la Presidenza che lo statuto, a sua volta, limitava nelle attribuzioni. Da questo intervento riassuntivo di Giovannini, probabilmente imbeccato da Bitetti, nacque una proposta di rivedere lo statuto, al fine di conformarlo alle necessità di cambiamento strutturale della Società. Si nominò l’ennesima commissione dell’era repubblicana (laddove ai tempi del consenso al regime non ve ne era stata nessuna), che nella seduta del primo aprile 1960 risultò così composta: Aldo Maffei, Massimo Giovannini, Giorgio Mortari e l’avvocato Fortunato Precone; il tutto con "l’assistenza della Presidenza Generale", cioè Bitetti, che additò ai presenti l’obiettivo pertinente al nuovo statuto: "l’unificazione della Società". Nella stessa seduta si parlò di chiedere impianti al CONI, una volta conclusa l’Olimpiade, e di fare una campagna di tesseramento di nuovi soci atleti, che sarebbe stato facile mantenere fedeli avendo a disposizione attrezzatture di alto livello in ogni singola disciplina. Siliato, in rappresentanza di una squadra di calcio che continuava a ruotare velocemente le sue guide (alla reggenza della sezione ora c’era Ercoli) e che stava precipitando per la prima volta nella storia in cadetteria, fece presente di avere ricevuto dalla FIGC precisi paletti riguardo al bilancio sociale.
Chiese altresì ai presidenti lumi su come venire a capo del busillis della cosiddetta "tessera sociale", valida con poca spesa per tutti gli aderenti alla Polisportiva e che non poteva prevedere certo l’ingresso gratuito alle partite di pallone. Da questo intervento di Siliato, mi pare evidente come non si fosse entrati pienamente nell’idea della scissione strada obbligata. Si sperava ancora, nell’anno olimpico, in una pioggia di finanziamenti dal CONI che appianasse tutto, in primis la mancanza di impianti che rendevano "povera" la società. Che è un po’ lo stesso problema che angustia la S. S. Lazio di oggi, se ci riflettete un attimo. Bitetti, forse ricordandosi della Rondinella anni ‘20, buttò là l’idea di rendere la S.S.L. promotrice della costruzione di uno stadio per il calcio da 120.000 posti, tramite una "finanziaria" che ne sarebbe rimasta proprietaria. Non sappiamo quali uomini e quali carte tenesse nelle tasche il vecchio leone per azzardare una simile avventura, ma dai verbali riscontriamo che incontrò lo scetticismo sarcastico di Siliato. In effetti, anche in questo caso non si arriverà a nulla: neppure si farà il plastico, che da solo sarebbe costato un milione di lire. Il contesto di boom economico di cui godeva il Paese, la "festa olimpica" e il fermento edilizio, con i latifondisti, principi o cafoni che fossero, che si arricchivano senza muovere un dito e nugoli di palazzinari a caccia di buoni affari, funzionavano da sostrato per questo tipo di fantasie. La triste realtà sarà che dalla XVII Olimpiade la S.S.L. estrarrà solamente l’usufrutto dello stadio Flaminio per le sue partite da giocare in Serie B e l’uso dei campi di calcio di Tor di Quinto per gli allenamenti della squadra.
Sotto la cenere covava la questione, davvero scottante, dei paletti imposti dalla Federcalcio. Nella riunione del consiglio generale svolta il 12 luglio 1961, nella quale Giovannini si presentò nel suo inedito ruolo di "commissario straordinario sez. calcio", Bitetti relazionò l’uditorio sulla lettera ricevuta dallo stesso Giovannini in merito alla circolare diramata dal segretario della FIGC, Giuseppe Pasquale, in data 27 maggio. Direttiva che invitava le società professionistiche a "darsi una propria figura giuridica senza interferenze con le altre attività sportive collaterali". Pasquale sollecitava categoricamente i club affiliati a modificare gli statuti sociali. In pratica, per la Lazio questa iniziativa, che aveva come punto di innesco lo stesso Onesti e si proponeva di razionalizzare il caotico mondo del calcio spettacolo in preda ai valzer scomposti dei "ricchi scemi", si tradusse per la Lazio in un’ulteriore spinta verso la separazione dalla sezione calcio. Lazio Calcio che, a dicembre del ‘61, dalla gestione commissariale di Giovannini passò a un’altra guidata da Tessarolo, il quale si accollò l’onere di imbastire una "commissione finanziaria" per risanare i bilanci. Si trattava, dunque, di definire le supposte cordate di imprenditori disposti a investire somme liquide nella "Lazio". La solita toppa in mancanza di una S.p.A. con capitale strettamente regolato e un presidente massimo azionista, come logica avrebbe voluto. In effetti, era questa la vera distanza da colmare: lo scopo di lucro perseguito da una sponda, quella del calcio professionistico, e il carattere amatoriale innervato dal volontariato dell’altra sponda, che riassumeva il sentimento polisportivo di una piccola quota del popolo biancoceleste. La Casa Madre dove, tuttavia, ogni cuore aveva compreso che non si poteva più proseguire sulla strada intrapresa nell’estate del 1943, una volta sganciatosi il sodalizio dalle protezioni del regime mussoliniano.
Nella considerazione oggettiva, ogni volta drammaticamente evidente nelle relazioni finanziarie dei vari presidenti, che esistevano sezioni leader a livello nazionale in grave difficoltà di gestione. Bitetti, constatando che cornucopie in azione non se ne vedevano da nessun lato, e con la sezione calcio a un nulla dalla caduta in un abisso dalle conseguenze imprevedibili, decise che l’unica soluzione stava in una radicale trasformazione dell’assetto sociale, che doveva necessariamente partire da un lavoro pesante da effettuarsi sullo statuto. Bitetti fu abile, come sempre d’altronde, sul piano oratorio, introducendo ai consoci la "riforma" come una cosa già in atto: "in linea di fatto, da anni lo Statuto vigente ha dato autonomia amministrativa alle Sezioni. E però, in linea di diritto, specialmente nelle attuali condizioni di sviluppo di interessi cospicui che si affiancano allo sport, lo Statuto stesso si è dimostrato inadeguato a definire le responsabilità dei dirigenti delle varie Sezioni". Seguì un dibattito e l’indicazione del consiglio per la commissione di "preparare uno Statuto che pur assicurando alle Sezioni, in qualsiasi forma prevista dal codice civile e di commercio, una completa autonomia amministrativa legale, come richiesta dalla Lega e anche da alcune Sezioni, salvi il patrimonio spirituale della gloriosa Società, veterana dello sport nazionale, affinché i soci di tutte le Sezioni si sentano sempre uniti da un unico vincolo nel nome della Società Sportiva Lazio". Questa importantissima seduta, svolta in piena estate nel 1961, si chiuse con la nomina di una commissione statutaria formata dagli avvocati Pasquale Petrolillo (presidente) e Fortunato Precone, entrambi in rappresentanza della sezione calcio, dal prof. Aldo Maffei (escursionismo), dall’ing. Mario Penza (nuoto) e dal dott. Tullio Fazi, il nuovo presidente del Circolo. Come si potrà notare, la scelta stessa delle discipline conferma l’idea che Bitetti aveva della Lazio: calcio, escursionismo, nuoto e il Circolo, da lui stesso fondato nel 1920 assieme a Ballerini, quando avevano ottenuto la golena sul Tevere per edificare lo chalet sociale. Inizialmente prevista per il 15 ottobre del 1961, la conclusione dei lavori della commissione fu rimandata al 27 novembre, quando il consiglio generale tenne un’altra affollatissima seduta. L’odg prevedeva l’approvazione dopo discussione del nuovo statuto e l’elezione delle cariche sociali.
Una riunione che si aprì con la protesta di Fazi, che obiettò sulla "incostituzionalità della Sezione Circolo" oltre a quella canottaggio, in quanto essa non svolgeva attività agonistica e non risultava affiliabile ad alcuna federazione sportiva. Fazi ricevette l’appoggio di Nostini e la cosa fu rimandata al parere dei probiviri. In questa precisa occasione, emerse dal dibattito un attacco deciso del fronte anti-bitettiano, capeggiato da Rodolfo Bevilacqua della sezione calcio e da Fazi, che chiesero le dimissioni immediate del presidente. In pratica, al cospetto di un uditorio attento quanto angosciato, da una parte si sdrammatizzava (Bitetti) e dall’altra si tingeva una situazione fosca (Fazi). Su proposta di Bevilacqua e relativa votazione, l’odg venne invertito: un chiaro segnale che il consiglio era contrario a Bitetti. Nella votazione a scrutinio segreto, Siliato riuscì così a battere nettamente Bitetti per 25 voti a 5, mentre per la vicepresidenza risultarono eletti Nostini e Fazi. Il settantacinquenne Bitetti, nel giorno della sua sconfitta più cocente, ricevette il ringraziamento formale dei consoci per le tante energie spese a favore della causa laziale; si prese la decisione di donargli una medaglia d’oro, che poi risulterà piuttosto piccola. In allegato nei verbali c’è la relazione della commissione per la riforma dello statuto, che quel giorno comunque non fu approvato, ma considerato "un progetto di statuto". Il nocciolo della relazione stava nella frase: "... non è rimasta alla Commissione altra fattibilità che quella di concepire e proporre la costituzione di una Associazione tra le singole Società Lazio per la difesa degli interessi comuni e dei comuni ideali col rispetto della sovranità propria dei singoli associati". Nella sostanza, vi ho appena descritto l’attimo del concepimento della Lazio odierna.
La formula escogitata dalla commissione presieduta da Petrolillo mantenne il nome "S. S. Lazio", condiviso dalla famiglia biancazzurra quasi fosse un retaggio di sangue. Rompendo il vincolo della solidarietà passiva economica che comportava l’ingiustizia (o almeno come tale veniva percepita) di un debito spalmato fra tutti indistintamente. Petrolillo, da bravo giurista, avvertì l’uditorio dell’analogia della situazione della Associazione delle S. S. Lazio con altri modelli esistenti nel mondo del lavoro; non specificò quali, ma si può immaginare si riferisse alle consorterie di mestiere e, per estensione, ai sindacati di categoria. Petrolillo affermò, a mo’ di chiusa, che la trasformazione alla quale si andava incontro rientrava nella "grande battaglia per la riforma degli ordinamenti sportivi in Italia". L’articolo 1 [ALLEGATO 6] stabilì gli scopi dell’associazione e confermò sia i colori – "il bianco e l’azzurro" – sia il motto, nonché l’apoliticità dell’Ente Morale e il suo secolarismo di fondo. Due caratteri, questi ultimi, che costituiscono, a mio avviso, il legame più profondo tra quella Sportiva Lazio e la Podistica, oltre all’intento di praticare lo sport con uno spirito conforme alle tradizioni societarie. Non direi uno spirito integralmente olimpico, dal momento che il lato professionistico non era contemplato, all’epoca, nelle edizioni dei Giochi Olimpici estivi e invernali, e in quella Lazio c’erano soci atleti professionisti a tempo pieno. Ma riprendiamo il racconto: nella seduta del consiglio generale del 22 dicembre 1961, la prima con Siliato di nuovo presidente della Polisportiva, convocata di fretta per via che la Società Generale Immobiliare stava per rendere esecutivo lo sfratto della sede di via Frattina, parteciparono cinque membri della sezione calcio. Un evento che non accadeva da anni. Essi ricordarono ai presenti un’ulteriore urgenza: occorreva approvare lo statuto in modo che la Sezione Calcio potesse redigere un suo statuto da passare alla FIGC, che da tempo lo stava esigendo. Tuttavia, i rappresentanti del calcio non furono soddisfatti nella loro richiesta, poiché passò la proposta di attendere l’esame di tutte le sezioni prima di approvare lo statuto in maniera definitiva.
Iniziò, allora, una animata discussione sui singoli articoli che si fermò all’articolo 1, letto ad alta voce da Nostini. Nella riunione del 10 gennaio 1962, la prima alla quale partecipò come nuovo segretario generale Aldo Maffei, l’unico punto all’odg risultò quello della lettura di tutti gli articoli e dell’approvazione dello statuto. Un dibattito acceso si innescò sulla questione del titolo "Lazio", da mettersi prima o dopo il nome di un’eventuale azienda finanziatrice (il nome "sponsor" ancora non era entrato in uso). Siliato recise il nodo d’autorità decidendo di non inserire affatto la cosa nell’articolo 2: ogni costituenda Società avrebbe dovuto agire in perfetta libertà e senza sottostare a vincoli statutari. Durante il dibattito sugli articoli si operarono tante piccole variazioni, più di forma che di sostanza. Vivaci discussioni si accesero su alcuni specifici articoli, ad esempio il sesto concernente il diritto di veto. Petrolillo smussò bene i contrasti, spiegando ogni situazione secondo i parametri giuridici a lui ben noti. Nella successiva riunione del consiglio generale, tenuta il 22 novembre 1962 nella nuova sede sociale di via IV Fontane 20, il tema dello statuto tornò in discussione al punto 4 dell’odg. Per la sezione calcio, con la prima squadra ancora militante in Serie B, questa volta si presentarono Roberto Antonelli e Angelo Miceli, più il solito Petrolillo. Da circa due mesi, alla presidenza del calcio stava il produttore cinematografico Ernesto Brivio, personaggio ambiguo e prossimo alla bancarotta fraudolenta, che guidava una barchetta sommersa da mezzo miliardo di lire di debiti. Per cui appariva a tutti evidente come il distacco amministrativo non fosse più procrastinabile. La mia impressione è che, senza la stampella della S.S. Lazio Generale, davanti ai tanti errori commessi in serie da una gestione amministrativa a dir poco dilettantesca, in quei primi anni ’60 di boom economico la storia della Lazio Calcio avrebbe potuto paradossalmente incontrare la parola fine. Forse mettendo il punto anche alla meravigliosa avventura della Lazio stessa.
Nella seduta del 22.11.1962, la discussione sullo statuto della "progettata associazione" vide protagonisti il professor Maffei e l’avvocato Petrolillo. Il vecchio segretario paventò una "inconsistenza del vincolo" che, a suo giudizio, avrebbe dato il colpo finale alla polisportiva, preda di pericolose "tendenze centrifughe". Petrolillo espose con lucidità e chiarezza di parole le tre ragioni del distacco inevitabile del calcio: 1) l’esortazione pressante della FIGC a diventare S.p.A.; 2) le ragioni economiche; 3) le ragioni giuridiche, "per evitare interferenze di obbligazioni eventuali tra le sezioni"ìì. La discussione sulle modifiche allo statuto venne rimandata al 10 dicembre, quando la riunione iniziò con l’annuncio della Sezione Calcio di avere accettato l’invito della Casa Madre a trasferirsi al Palazzo del Drago in via IV Fontane; azione che avrebbe istigato il problema della divisione dei locali tra la Sezione Calcio e la Presidenza Generale con le sue dodici sezioni dipendenti, ognuna bisognosa di una scrivania con sedie, archivio e linea telefonica, seppure centralizzata. Si discusse, alla presenza di Ugo Novaro della sezione canottaggio, di come intitolare la sede nautica: se "Circolo dell’Associazione S. S. Lazio" o altro. Novaro – persona poco malleabile, tipo di imprenditore con molto pelo sullo stomaco e che amava il gioco d’azzardo – non apparve interessato a mantenere intatta la "lazialità" del Circolo, che considerava un soggetto perfettamente autosufficiente da quel punto di vista. Circolo che la sera si trasformava in un casinò sull’acqua, con tanto di gioco della roulette e lo chemin-de-fer. Si approvarono importanti modifiche riguardanti gli articoli 1 e 2. L’articolo 1 mutò nella sua parte iniziale: "L’Associazione Sportiva Lazio viene costituita dai singoli Sodalizi sportivi denominati "Società Sportiva Lazio", autonomi e indipendenti fra di loro e verso l’Associazione stessa. Ogni Sodalizio associato ha il diritto e il dovere di adottare il nome "Lazio" nella sua ragione sociale e nella denominazione sportiva, diritto che perderebbe qualora, per qualsiasi ragione, non facesse più parte dell’Associazione". L’accenno al "diritto e dovere" di mantenere il titolo "Lazio" nella ragione sociale avrebbe dovuto, secondo l’opinione corrente, rinsaldare il senso di unità. Da qui partì l’invito di Maffei, una circolare spedita alle sezioni il 29 dicembre 1962, ad approvare lo statuto entro il 31 gennaio 1963, e quindi organizzarsi in società autonome "che potranno anche essere società di fatto".
15 luglio 1963: nasce la Associazione delle Società Sportive “Lazio”
Quel che accadde nei primi mesi del 1963 non rispose esattamente alle aspettative della Lazio Calcio. Le sezioni indissero assemblee, nelle quali approvarono il testo dello statuto della costituenda ASSL e si diedero un proprio statuto associativo – non tutte però –, divenendo, come specificato da Maffei, società di fatto. Dico non tutte perché cinque anni dopo, nell’aprile del 1968, dal primo numero della rivista "Forza Lazio" si evince che solo otto sezioni sarebbero rimaste in vita: calcio, nuoto, ciclismo, rugby, canottaggio, baseball, pallacanestro ed escursionismo; e fra tutti i presidenti solamente il presidente della S.S. Lazio Escursionismo, il professor Maffei, avrebbe insistito a definire la sua una "sezione", auspicando il ricongiungimento delle altre realtà alla "Casa Madre". La riconversione giuridica della Lazio fu, dunque, imperfetta, nel senso che causò la morte di alcune sue figlie, segnatamente il pattinaggio, il tiro al piattello, l’atletica leggera e la pallavolo. La prima a portare a compimento l’iter, ma solo in apparenza come vedremo, fu il Circolo, con la sua sezione canottaggio e tennis. Il 5 febbraio 1963, alla presenza del notaio Pietro Fea, si costituì in Associazione Sportiva "Circolo Canottieri e Tennis Lazio"". Il suo statuto si compose di trentacinque articoli, attagliandosi nell’incipit allo spirito della Lazio balleriniana: lo sport come "mezzo di educazione fisica e morale". Ma già nel prosieguo, con l’indicazione della "estraneità ad ogni manifestazione di carattere e fine politico", il Circolo si distaccava in parte dal pensiero del suo fondatore, cassando l’accenno alla religione, forse per non turbare quel monsignore che aveva santificato l’inaugurazione della magnifica piscina sociale, cuore della vita del circolo nella bella stagione. I colori scelti furono "il bianco e l’azzurro", e anche il distintivo metallico, la bandierina triangolare con la croce Latina e quella di Sant’Andrea, assunse in prima istanza una tonalità turchina e non celeste. Vi posso dire della nascita del Circolo perché ho svolto una ventennale ricerca. Ma per quel che riguarda la tempistica delle altre "s.s.", occorrerebbe una ricerca apposita. La sto svolgendo per il mio volume sulla storia della S.S.L. dal 1926 al 1967 che confido di far uscire nel 2025. Comunque, la sera del 15 luglio 1963, Siliato in quella storica riunione dichiarò sciolta la S.S. Lazio, proponendo Nostini come figura di "liquidatore"; in cassa c’era un residuo di 796.000 lire. Dieci sezioni aderirono formalmente alla novella associazione, così enumerate nel verbale: Calcio, Ciclismo, Canottaggio, Escursionismo, Pallacanestro, Pallavolo, Baseball, Hockey e Pattinaggio, Rugby, Nuoto.
Toccò quindi a Petrolillo – che era membro del Lions Club di Roma e diverrà, negli anni ’80, presidente della Federazione Italiana Avvocati Procuratori –, stilare l’atto di scioglimento, subito approvato. Quindi il legale lesse, con voce solenne e nel silenzio generale, l’atto di costituzione della A.S.S.L. [ALLEGATO 7] Tutti firmarono i fogli, ma l’avvocato Giuseppe Mario Romano, per conto del CCTL, siglò "con riserva", giacché non era ancora stata indetta un’assemblea al lungotevere Flaminio 25 per approvare lo statuto di una A.S.S.L. a tutti gli effetti inesistente. Un cavillo legale che, unito a divergenze sulla frequentazione della piscina e sui contributi da devolvere, farà sì che il Circolo sarà l’ultima sezione ad aderire ufficialmente alla Lazio. Cosa che avvenne nell’estate del 1965, dopo che in un’assemblea tenuta il 14 giugno lo statuto della A.S.S.L. aveva subito un’ulteriore modifica per venire incontro ai desiderata del Circolo; in precedenza, lo statuto era stato approvato in una riunione del consiglio generale svolta il 2 maggio 1964, e registrato al Tribunale di Roma il 16 luglio dello stesso anno. L’ultima registrazione, quella finale, porta la data del 22 luglio 1965, e su questa base il libello fu stampato e distribuito ai soci, a due anni dalla costituzione della Associazione. In sede notarile, invece, la registrazione della S.S. Lazio sotto la nuova intestazione A.S.S.L. fu fatta all’abbrivio del 1964 nello studio a via Nicotera del notaio Giovanni Gilardoni. È interessante notare come nello statuto stampato nel 1965 la differenza più notevole rispetto al primo progetto di statuto, quello presentato in consiglio il 27 novembre 1961, stia nella cancellazione di una frase presente nell’articolo 1: "È estranea a manifestazioni politiche e religiose". Monito che stava piazzato lì dai tempi dello statuto del 1949, e immagino che l’elezione alla presidenza generale di Giorgio Vaccaro, occorsa nell’ottobre del 1964, influì sulla cosa.
Tornando all’assemblea costitutiva del 15 luglio ‘63, in conclusione di seduta Siliato venne acclamato alla presidenza, Casoni e Nostini i suoi vice, Maffei segretario. Per quel che riguarda la SS Lazio Calcio, ciò che accadde, in quell’estate di sessanta anni fa, fu il tentativo di far decollare una Lazio Società per Azioni che avesse come piattaforma un entusiastico sostegno popolare, sul modello appunto del Real Madrid: la polisportiva praticante il football più forte al mondo. L’iter fu parecchio arzigogolato e accidentato, ma mi proverò qui a riassumerlo, chiedendo venia per eventuali imprecisioni e lacune che, ve lo assicuro, nel libro, non ci saranno più. Un mese avanti l’avvento ufficiale della A.S.S.L., cioè il martedì sera del 18 giugno 1963, l’assemblea dei soci della Sezione Calcio si riunì sotto la presidenza di Leonardo Siliato, seduto alla scrivania con al fianco i dimissionari vicepresidenti e commissari Massimo Giovannini e Angelo Miceli. Il consigliere Giorgio Chiaron Casoni presentò all’uditorio il suo progetto di costituire una "società finanziaria" e l’assemblea approvò la cosa, demandandola ad una commissione formata dallo stesso Casoni e dagli avvocati Petrolillo e Manna, più il segretario prof. Castana. La mattina dopo, sui giornali comparve la notizia del lancio di una sottoscrizione pubblica da 10.000 lire a cedola, così da sostenere la nascente "Lazio S. p. A". La data di chiusura della campagna venne fissata al 28 giugno. Si poteva divenire azionisti sottoscrivendo presso le sedi dei Circoli Biancazzurri, a viale Rossini (sede della sezione calcio) o a via IV Fontane (la polisportiva).
Tra gli obiettivi della manovra c’era quello di azzerare i 120 milioni di crediti vantati da alcuni consiglieri della Lazio Calcio. In effetti, l’azionariato raccolse 7 milioni. Non è dato sapere in quanti sottoscrissero, ma credo relativamente in pochi, considerato che la città contava oltre due milioni di abitanti. Santiago Bernabeu a Madrid, in una città meno popolosa, aveva ricevuto 50.000 sottoscrizioni di soci piccoli e medi per la sua S.p.A. Nella fattispecie, l’iniziativa non incontrò il favore dei grandi sottoscrittori. E questo nonostante l’impegno di Siliato e di Ercoli. Il primo parlò con decine di "industriali" e il secondo coinvolse nell’avventura l’amico architetto Ferdinando De Sando. Il lunedì 24 giugno del 1963, il direttivo della "sezione calcio", sulla scorta dell’articolo 20 del suo statuto, che quindi esisteva, si riunì e deliberò di indire un’assemblea ordinaria e straordinaria per il 10 luglio, da tenersi presso il Cral della Presidenza della Repubblica, ovvero nei locali del Piccolo Teatro in via Piacenza 1. Due giorni dopo, il 26, Siliato convocò i maggiorenti della sezione e stabilì che la nuova denominazione della Lazio Calcio sarebbe stata quella di "Società Finanziaria e non di S.p.A.".
Una parte del passivo, i crediti reclamati, sarebbero stati tramutati in titoli dopo la liquidazione della S. S. Lazio. Sulla base di questa risoluzione, la "Società Finanziaria Lazio" – questa la dizione riportata all’epoca dai giornali – venne costituita la sera del giovedì 4 luglio 1963 presso lo Studio Notarile di Tito Staderini a piazza della Libertà 4. Lo sappiamo da un comunicato diramato da Siliato nella sua qualità di presidente generale della SSL. Promotori furono lo stesso Siliato, che versò a nome della S.S.L. la cifra di sei milioni, e i tre firmatari Giorgio Casoni, Dino Canestri e ing. Ferdinando De Sando, che cumulativamente versarono un milione. Totale sette milioni di lire: la somma appena entrata nelle casse sociali dalla campagna d’azionariato. C’è da sottolineare la circostanza che siano stati Casoni e Canestri, due dei gerenti la sezione calcio nel 1944-45, a mettere la loro firma sul documento. Il 10 luglio, la Lazio Calcio si riunì in assemblea ordinaria e straordinaria con sentimenti contrastanti: era vero che si era tornati in Serie A, ma si era anche bloccati da un deficit che aveva scavallato i 900 milioni. E a tale cifra si sarebbe rimasti ancorati per quattro anni, fino alla nascita, il 27 aprile 1967, di un’altra società anonima in possesso di ben altri mezzi: la S.S. Lazio S.p.A. guidata da Umberto Lenzini. Nell’articolo pubblicato l’11 luglio dal Corriere dello Sport, Casoni è citato come "il Presidente della S.p.A.", ma il documento legale relativo non ce l’abbiamo. Tutta la vicenda presenta analogie con la SAECS, la società anonima sorta nel 1923 per gestire il "Campo Sportivo Lazio". Quest’ultima assemblea della Sezione Calcio del 10 luglio 1963 fu pure presieduta da Siliato, con al fianco il fido Maffei. Si discusse sulla situazione precaria del direttivo, che sarebbe rimasto dimissionario fino all’assemblea successiva svolta alla fine di settembre e alla salita alla presidenza di Angelo Miceli, occorsa a dicembre. Si parlò molto delle modalità di "intervento della Finanziaria" nei confronti della "sezione calcio". Giorgio Casoni firmò seduta stante un assegno da 60 milioni, promettendone altri 40 in un breve lasso di tempo.
Le “due Lazio” in concorrenza, ovvero lo strano caso dell’aquila bicipite
Il programma della S. S. Lazio Calcio S.p.A. si proponeva di assorbire gradualmente la Associazione delle Società Sportive Lazio, e di riflesso la Lazio Calcio. Ma questa evenienza non si verificò, giacché mancarono a Siliato i milioni di lire necessari. Quando la Finanziaria si riunì il 9 settembre 1963 a Palazzo del Drago, il suo destino era già segnato: soltanto Siliato aveva fatto seguito alle promesse, versando di suo 26 milioni utili alla campagna di rafforzamento della prima squadra di football; insieme a lui, avevano dato qualcosa Casoni e pochi altri anziani dirigenti. Andrea Ercoli dei sessanta milioni promessi in cordata ne aveva messi sul banco appena cinque. Ercoli nelle sue memorie glissa su questi avvenimenti, limitandosi a riassumere con un: "la Società la seguii soltanto dall’esterno per alcuni anni, precisamente fino all’ottobre del 1964, quando alcuni amici mi invitarono a tornare in un nuovo consiglio la cui presidenza fu affidata a Giorgio Vaccaro". Seguendo l’esempio di Ercoli, pure De Sando si defilò, e con lui Alecce, altro personaggio indicato come una delle colonne sicure della Finanziaria. Quel che in sintesi accadde fu che le aspettative messe in cantiere nella seduta del 10 luglio – ossia il subentro della società per azioni alla dirigenza della Lazio Calcio al termine della stagione 1963-64 – furono disattese. Miceli e Giovannini, una volta registrato il fallimento dell’azionariato, insufficiente a reperire i fondi per affrontare la Serie A, continuarono a prendere decisioni senza consultare il gruppo guidato da Siliato e Casoni, e senza concedere nulla sul versante del potere esecutivo. Il 29 settembre, il direttivo della S. S. Lazio Calcio (sovente sui giornali ancora chiamata "sezione calcio") si riunì per eleggere Miceli commissario straordinario, evitando di consultare il gruppo della società per azioni. E lo fece nella sede di viale Rossini, rinunciando al trasferimento in via IV Fontane già in precedenza approvato durante un’assemblea societaria. Con Miceli alla presidenza (dal 12 dicembre 1963), detta riunificazione delle sedi non si verificò mai: un vero atto di guerra che ristabilì le distanze incommensurabili tra la Polisportiva e la sua parte calcistica.
Il nodo che separava le due fazioni in lite era costituito dalla richiesta del gruppo dei consiglieri della S. S. Lazio Calcio di tramutare in azioni esigibili i circa 200 milioni di crediti da essi vantati. Siliato e Casoni rispondevano che non si poteva fare, altrimenti, in tema di "rimborsi", si sarebbero dovuto prendere in esame anche le somme che avevano versato i pregressi consiglieri. In realtà, grazie soprattutto ai sostanziosi e bene reclamizzati esborsi di Miceli, il valore della rosa dei giocatori biancazzurri nella stagione 1963-64 era aumentato rispetto alla stagione precedente. Quindi, era come se Siliato e Casoni pretendessero di comprarsi la Lazio ai prezzi vecchi: una perequazione davvero ardua da stabilire. A fine gennaio del 1964, Renzo Nostini, nel frattempo nominato presidente della Finanziaria in luogo dell’amico Giorgio Casoni, spedì un po’ a tutti l’invito a presenziare a una festa di compleanno della Polisportiva organizzata dalla S. S. Lazio Calcio S.p.A. al Teatro Eliseo in via Nazionale. Convennero in molti, ma non gli esponenti della S. S. Lazio Calcio. [ALLEGATO 8] Paradossalmente, mentre le "aquile" lottavano per rimanere in A sotto la guida dell’allenatore argentino Juan Carlos Lorenzo, esistevano due realtà in lite fra loro: una S. S. Lazio Calcio società per azioni e una S. S. Lazio Calcio con statuto proprio, guidata dal palermitano Miceli e che, al contempo, si diceva parte integrante della A.S.S.L. ma non dialogava con i capi di questa, che avevano dato vita alla S.p.A. Situazione a modello bizantino. Nel maggio del ’64, un riavvicinamento tra "le due Lazio" (definizione che è solo mia, i giornali dell’epoca non la avanzarono mai) si ebbe in occasione dell’avvio del "piano Mi-Lor", quando cinquecento "soci azionisti" acquistarono il pacchetto di abbonamenti quadriennali alla tribuna Monte Mario. Ma alla quota traguardo dei tremila abbonamenti sottoscritti non si arrivò mai, per cui anche questo abbocco fra le due fazioni non andò a buon fine.
Come avrete forse intuito, si pretendeva che il collante fosse costituito dalla gente che sborsava soldi per divenire azionista della S. S. Lazio Calcio S.p.A. e usufruire del ventaglio di vantaggi che la S. S. Lazio Calcio offriva in materia di abbonamenti. Davanti a questa assurda divaricazione, è probabile che molti padri di famiglia abbiano esitato a infilare la mano in tasca per prendere il blocchetto degli assegni. Nelle assemblee della Lazio Calcio del 30 settembre e 29 ottobre 1964, tramite la mediazione di Siliato, Ercoli e del generale Vaccaro, che assunse temporaneamente la presidenza, fu introdotto nell’ambiente, in qualità di vicepresidente, Umberto Lenzini. L’uomo "che cià la grana", come subito si vociferò, e che avrebbe risolto il busillis costituendo, di lì a trenta mesi, una nuova società gerente l’ex sezione calcio: la S. S. Lazio S.p.A. In sede notarile, nello studio del lazialissimo Nanni Gilardoni nel quartiere Prati, i fratelli Umberto, Angelo e Aldo Lenzini, azionisti di maggioranza, tuttavia non poterono chiamarla S. S. Lazio Calcio S.p.A., poiché questa già esisteva! Una terza finanziaria, depositaria finale del brand della Polisportiva, sarebbe occorsa nel 1981 su iniziativa di Gian Chiaron Casoni, che in qualche misura rimediò al mezzo pasticcio combinato vent’anni prima in buona fede dal babbo Giorgio. Ma questa è un’altra storia, che si collega più da vicino anche alla S. S. Lazio Calcio società per azioni di Chinaglia e poi di Chimenti, dei fratelli Calleri e poi di Bocchi, di Cragnotti e a quella odierna. La creatura informe di Siliato, Casoni e Nostini morì, invece, di consunzione tra il volgere degli anni ’60 e i primi anni ‘70. Quando prima Casoni senior e poi a ruota Siliato scomparvero, mentre Nostini riprese ad interessarsi a tempo pieno della Federazione Scherma, della quale era a capo, rimanendo comunque l’appassionato presidente della S. S. Lazio Nuoto. Rapportato in termini retorici e stilistici, questa storia degli statuti della S. S. Lazio assomiglia tanto a un danzante iperbato. Infatti c’è ritmo, seppure a volte a discapito della mera logica.
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