Capanno di Pippanera
► ER TEVERE DE FIUME
► Il barcone di Toto Bigio
► Una strana storia dove la Lazio c'entra ben poco ma LazioWiki ce la fa entrare: Luigi Del Bigio
Il "Capanno di Pippanera" era un luogo di ritrovo di fiumaroli posto sulla riva destra del Tevere proprio sotto Ponte Margherita. Il capanno, fatto di vimini, canne e rampicanti, non aveva nulla a che fare con gli aristocratici circoli natatori e remieri che popolavano le sponde del Tevere frequentati dall'aristocrazia e dall'alta borghersia. Sono leggendarie le rivalità che contrapponevano i rematori ai rudi fiumaroli tiberini. Era un misero recinto dove studenti e lavoratori potevano spogliarsi prima di fare una nuotata nel fiume. Il capanno era frequentato, tra i tanti, da Luigi Bigiarelli, sottufficiale dei Bersaglieri, reduce dalla sventurata spedizione italiana sulle alture del Tigrai, che abitava in Vicolo degli osti, 15, dietro Piazza Navona. Al capanno conobbe alcuni giovani sportivi con i quali fondò la Lazio il 9 gennaio 1900.
Sull'argine vi era un muro con una fenditura che divenne una sorta di cassetta delle poste dove i giovani popolani lasciavano avvisi per gli amici. Il capanno era frequentato soprattutto d'inverno e, dopo il nuoto e il podismo, lo "sport" preferito dai ragazzi era una gara volta a rompere a sassate il maggior numero di lampioni. Nella stagione estiva il gruppo si trasferiva al prospiciente Bagno Talacchi che si sviluppava per circa 200 metri dal Ponte Margherita verso valle ed aveva attrezzature balneari più confortevoli e funzionali. Il nome "Pippa Nera" fu dato al capanno in funzione icastica e popolana per sottolinearne l'estrema modestia delle attrezzature e derivava dall'essere stato sede, nel 1897 o 1898, di una libera associazione di nuotatori, priva di statuto e che fu chiamata Nera, probabilmente dal nome di uno degli affluenti del Tevere. Essa faceva capo al gestore dell'area golenale situata proprio sotto Ponte Margherita in cui vi era una baracca e una sorta di barcone. Di questo gestore non si conosce il nome ma era chiamato da tutti "Gamba di Legno" e i frequentatori erano conosciuti come "La tribù della Pippa Nera". Del resto l'uso di dare i nomi di affluenti del Tevere alle società natatorie era consueto. Infatti già dal 1872 esisteva la Società Ginnastica dei Canottieri del Tevere e dal 1892 l'Aniene. In ordine d'importanza "fluviale" restava il Nera e tale nome fu quindi adottato. Era il 1897. Successivamente, tra il 1898 e il 1899, un'altra società natatoria, l'Urbe e Farfa, prese la denominazione da un altro affluente del Tevere. Dalla sinergia di molti dei frequentatori di queste società fiumarole e dei Liberi Nantes nascerà la S.P. Lazio il 9 gennaio 1900.
Una altra ipotesi sul nome affibiato al barcone- capanna ce la fornisce Olindo Bitetti pubblicando nel 1948 gli inediti Diari di Luigi Bigiarelli in un articolo sul Corriere dello Sport dal titolo "La Società Podistica Lazio nacque dall'amore " che e' stato inserito nella nostra pubblicazione "Lectio Facilior" .
Tra gli appunti Luigi Bigiarelli , il 3 novembre, scrive "Pagate L. 15 a Nino (Talacchi n.d.r.) per l'affitto del galleggiantino del mese di ottobre ." Commenta Olindo Bitetti "Era il galleggiantino dei <<Liberi Nantes>> che per i suoi colori bianco e nero della Società , dai fiumaroli era stato chiamato <<la pipa nera>>".
Ovvio si tratta di una suggestione che, se trovasse conferma, andrebbe ancora una volta, a rimarcare la profonda radice fiumarola e romanesca della Società Podistica Lazio.
LazioWiki crede di fare cosa gradita a tutti i sostenitori biancocelesti, a chi è interessato alla nascita della Lazio e agli storici dello sport, pubblicando una fotografia, risalente al 1905, presa da un aerostato. In essa si vede Piazza della Libertà come la vedevano i nostri padri Fondatori e i pionieri della nostra Società Podistica. Spoglia, senza le attuali aiuole, priva del monumento oggi presente e della casina rimasta (Sede della Fondazione G. Sandri) che un tempo era un manufatto di servizio della Ferrovia Roma-Viterbo. Poi è visibile Ponte Regina Margherita inaugurato nel 1891 e privo di traffico. Infine, e secondo LazioWiki è l'elemento più importante, sul fiume, appena a valle del ponte sulla riva destra, dalla parte dei Prati, è nettamente distinguibile il barcone del Pippa Nera, laddove nacque la Lazio. Esso ha la prua rivolta a monte e una copertura al centro. Vicino si intravedono una spiaggetta e una ripida scaletta che portava sulla sovrastante piazza. Probabilmente questo barcone non era altro che il traghetto che da decenni faceva servizio tra le due sponde del Tevere collegando la zona di Ripetta con le aree a canneto della riva destra, laddove vi erano numerose e frequentate trattorie. Questo barcone era legato a una lunga fune e veniva governato con una pertica.
Il proprietario era chiamato "Toto er bigio", detto "Bucalone", e costui gestì questo trasporto fluviale fino al 1879, quando, con l'inaugurazione del ponte-passerella in ferro di Ripetta, il collegamento divenne inutile. E' probabile che, una volta dismesso, il barcone possa essere stato acquisito e destinato a disagiata sede della "Società Nera". Di questo barcone che attraversava più volte il Tevere ne parla anche G.G. Belli nel sonetto "Er diluvio univerzale". Una foto di questo barcone da traghetto è in possesso di LazioWiki che lo mette a disposizione dei lettori. Si fa presente che l'imbarcazione mutò nel tempo molte volte il suo aspetto. Ecco come lo scrittore e storico dello sport Marco Impiglia nel suo "Le origini sportive del Tevere e la Società Podistica Lazio" tratta di tale struttura:
Marciare, correre e nuotare, ecco cosa volevano fare i primi laziali. E non è sbagliato affermare che la Podistica nacque all'insegna di queste attività: gli unici sport praticati nel suo anno inaugurale di vita. Orazio, in una delle satire, parlò di traversate del Tevere in piena nella stagione fredda. Luigi Bigiarelli, non molto prima di fondare il sodalizio, aveva partecipato ad Anguillara al IV Cimento Invernale del 1899 organizzato dai rari nantes, dichiarandosi esponente della "Gioventù Cristiana", associazione per la quale aveva anche vinto, in maggio, il campionato regionale di corsa veloce. Bigiarelli non fondò una "Società Laziale di Nuoto" perché, nel gennaio del 1900, la sua testa era completamente assorbita dal podismo. Si era accorto, poi, che nel nuoto non riusciva a sopravanzare i migliori campioni tiberini; e questo lo aveva ancora più convinto a darsi anima e corpo alla marcia. Alla fine del 1899, egli apparteneva alla "Cristiana" e ad un altro sodalizio: la "Nera". Ed è qui, scavando nelle vicissitudini della Società "Nera", che si possono mettere a nudo le radici della S. P. Lazio. La "Nera" fu una delle prime forme di associazione di patiti del Tevere distinte dai canottieri. Sorse sul finire del secolo. I suoi appartenenti erano quasi tutti minorenni, e non aveva uno statuto che la regolarizzasse. Ebbe la sua culla in un barcone male in arnese, pomposamente chiamato "lancia da mare", poiché la leggenda voleva fosse una ex lancia pontificia. Il battello aveva una baracchetta al centro e possedeva un nome, "Pippa Nera", che gli era stato affibbiato dal proprietario "Gamba-di-legno". Nulla si sa sull'identità del personaggio. Fu lui, comunque, a rendere disponibile per i fiumaroli quella specie di Arca di Noè in sedicesimo, che venne attraccata ad un pilone a valle di ponte Margherita, dalla parte dei Prati; così piazzata, rimaneva giusto di fronte ai Bagni Talacchi, che si stendevano per 200 metri lungo la banchina dal ponte al nuovo porto fluviale. I frequentatori del barcone, facilmente raggiungibile da piazza della Libertà tramite delle scalette, si fecero presto conoscere come la "tribù della Pippanera".
I dati storici, pertanto, coincidono con quelli iconografici. Di seguito l'immagine, e un suo particolare ingrandito, reperita da LazioWiki.
"ER TEVERE DE FIUME"
I fiumaroli esistevano già quando, ai primissimi del 1870, i fondatori del "Tevere" - la più antica società romana di canottaggio - scesero a fendere coi remi il seno al padre Tebro; ed esistevano anche prima, quando cioè alcuni soci della Società Ginnastica Serny, in gita per fiume con le loro maglie rosse, vennero scambiati per ribelli garibaldini e presi a schioppettate dalle sentinelle pontificie ai Sassi di S. Giuliano o a Ponte Sisto (secondo un'altra versione). I primi fiumaroli crediamo siano stati i gemelli di Rea Silvia e certo dai cespugli donde partirono i vagiti dei fondatori di Roma, un richiamo atavico ne spinge sin da allora i lontani figli a cercare asilo di serenità e refrigerio sulle brevi sponde e nelle acque sacre. Non ai bagni del Tevere dovette perciò alludere Marziale quando scriveva che "Balnea, vina, venus corrumpunt corpora nostra"; né riteniamo avesse serio fondamento la credenza che il Tevere fosse "equis salubris sed hominibus noxius" ché, anzi, era comune opinione che le sue acque fossero altamente salutari specie ai malati di fegato. Se anche perciò la superstizione e, più ancora, la... sleale concorrenza dei numerosissimi "balnea" con tutte le decantate loro attrattive, poterono per qualche tempo distrarre dal fiume la gioventù romana, certo la rovina delle monumentali Terme ricondusse gli abitanti dell'Urbe alle spiagge e al corso del Tevere. Pare, piuttosto, che, nonostante il passare del tempo, perdurasse qualche cattiva abitudine contratta appunto nei secoli precedenti, tanto che a un certo momento le autorità si videro costrette ad intervenire energicamente con editti e bandi per impedire la "poca honestà" di andare a fare il bagno nudi. Ecco, ad esempio, come agli albori del '700, il Vice-gerente passava ai cittadini di Roma l'ordine datogli "a bocca" da S. Santità: "Comandiamo a tutti di qualsivoglia stato e condizione che di giorno (e la notte?) non vadino a fiume nudi né per bagnarsi, né per notare, né per qualsiasi altra causa (?) senza le mutande, con le quali andandovi, si guardino dal fare atti o dir parole contro l'onestà e la modestia".
Si noti poi che la mai abbastanza deplorata usanza di bagnarsi senza le mutande non doveva essere prerogativa delle acque del Tevere perché gli editti contemplano pure le "conche, vasche e il lago che si suol fare a Piazza Navona e la fontana di S. Pietro Montorio"; in questi luoghi, tuttavia, il divieto era esteso alla notte. Alle donne, infine, per quanto protette da mutande (e mutande femminili dell'epoca!), era proibito di bagnarsi ovunque, con l'aggravante che, invece dei tre tratti di corda o dei cento scudi previsti per i trasgressori maschi, all'altro sesso era minacciata la "frusta da darseli in pubblico". E non è specificato se con o senza mutande. Nonostante questa severità, il rappresentante della squadra del buon costume del tempo non poteva cogliere sul posto il trasgressore appostandosi - come più tardi il Pizzardone - dietro le spallette dei Ponti o rincorrendolo per le banchine, con grande sollazzo degli spettatori; e ciò perché le rive del fiume erano allora "sacre" e, come tali, al pari delle Chiese e dei Monasteri, godevano del diritto d'asilo. Si vede però che le acque del nostro fiume sono particolarmente invitanti a bagnarsi in costume adamitico perché l'usanza che, salvo sospetti casi sporadici, sembrava abbandonata, tornò di moda in forma, diremo così, epidemica, una ventina d'anni fa ai Polverini dove il Sindaco della Tribù della Tintarella - il pittore e dicitore di versi romaneschi Aristide Capanna - e il suo Pro Sindaco Passerini la elevarono addirittura a legge, comminando severe pene per i contravventori; ma la più pronta e stretta sorveglianza dei fuori-bordo governatoriali rintuzzò ogni velleità naturista.
Ai tempi di Gregorio XVI non solo era ancora viva l'usanza di bagnarsi nel Tevere, ma esistevano pure le capanne e precisamente tre se ne contavano: alla Renella, presso S. Anna de' Bresciani e di fronte al Porto di Ripetta; ma solo per queste ultime era dovuta "una lieve retribuzione da soddisfarsi ai proprietari". Lì presso, prima ancora del 1870, un certo Toto Bigio, assillato dal problema della casa (a quanto pare sempre di difficile soluzione), aveva eletto domicilio prendendo stanza in una rozza barca ove visse a lungo e poi morì. Agli inizi del secolo rimontano quelle di Nino Talacchi, come quelle di Domenico Tulli discendente da Ciceruacchio e capostipite della dinastia omonima che, prima di trasferirsi a Ponte Umberto, ebbe i suoi stabilimenti all'"Acqua Fresca" (di fronte al Ministero della Marina, non ancora costruito a quel tempo). A Ponte Molle vi erano quelle gestite da Zi' Paolo e Zi' Ambrogio della stirpe dei Docci; ai Polverini quelle di "Carabusone" (l'ex carabiniere Annibale Batticalli), affiancate alle altre di "Silvano er lampionaro" e, in epoca più recente, quelle "der Panza" (al secolo Pietro Rossi) sulla riva opposta. Ed esistevano anche fiumaroli famosi tra cui un tale Domenico Ricci, detto Memmo, che passava per il più forte nuotatore dei suoi tempi e si vantava di aver traversato a nuoto il Niagara.
A prescindere dalla priorità delle origini, certo si è che una diversa psicologia distingue il canottiere dal fiumarolo: il canottiere rimane tale sia a fiume che a mare o al lago; il fiumarolo a Ostia o a Castello diventa un comune bagnante; il canottiere ha molte esigenze per sé e la sua barca; il fiumarolo ha solo bisogno di uno straccetto attorno ai fianchi e poi di sole e di acqua. Acqua; e non importa se limpida come quando "er fiume sta che je se vede er fonno", o torbida che trascini tronchi e magari carogne d'animali, come quando "er fiume cresce che Ripetta è un mare", diceva il Belli. Occorre, infine, che il canottiere sappia vogare; sarà magari un "cioccolattaro", ma il remo in mano bisogna pure che lo sappia tenere: il fiumarolo, a rigore, può anche non reggersi a galla e se vuole staccarsi dal passone che lo ha sorretto in lunghi semicupi, può affidarsi a una cucuzza: oggi non se ne vedono più per fiume ché la motorizzazione le ha sostituite con le camere d'aria delle automobili, ma allora il principiante con "due bajocchi" ne poteva affittare una dal capannaro, lasciando in pegno una scarpa; e se non aveva i due bajocchi se ne stava a panza a l'aria sur porverino rivoltandosi dall'altra parte quand'era ben cotto, come S. Lorenzo sulla graticola; salvo a buttasse quando non ne poteva più dalla callaccia, ma non andava più in là de indove ce se tocca perché la cronaca del Messaggero ogni giorno d'estate parlava di qualche imprudente sparito nei gorghi dell'Albero Bello.
La prima forma di associazione di patiti del Tevere, distinta dai canottieri, ebbe la sua culla, sullo scorcio del secolo scorso, in un barcone male in arnese pomposamente chiamato lancia da mare e che la leggenda voleva fosse già appartenuto a un Papa; questa specie di Arca di Noè in 48° era attraccata a un pilone del Ponte Margherita dalla parte di Prati e i suoi pochi frequentatori costituivano la Società Nera (che - come la Società di Canottaggio "Aniene" - dal nome di un affluente del Tevere), ma venne da tutti conosciuta soltanto come "La Pippa Nera". L'esiguo manipolo di questi pionieri era capeggiato da Giggi Bigiarelli (detto "er puntale"): erano con lui Nelli, Grifoni, Balestrieri, Venarucci, Aloisi (detto "Onta"), il lungo Tito Masini (detto "Pizzarda"), Alberto Mesones (detto "il Poncio") e suo fratello Ignazio, divenuto più tardi tristemente celebre per l'uccisione della moglie Bice Simonetti. Attorno alla "Pippa Nera", come alla "Società Romana di Nuoto" e alla "Rari Nantes", si raccolsero i primi appassionati fiumaroli, molti dei quali gustose macchiette di cui si è perduto lo stampo. I fondatori della "Rari Nantes" furono: Achille Santoni, vero apostolo del nuoto, l'Ing. Sebastiani, Attilio Tomassini, Giuseppe Campiotti, Galileo Massa, Enrico Gualdi, Arturo Noci, Enrico Venier e pochi altri fra cui quell'Oreste Martini che, a seguito di una polemica giornalistica, traversò a cavallo il Tevere per dimostrare che i cavalli sanno nuotare anche in acqua corrente.
Alla "Romana" - fondata nel 1889 dai tre B (gli On.li Bissolati e Bonomi e il Prof. Bastianelli) - pontificava Cesare Gismani "er dio de l'onna"; er cavajere, come era meglio conosciuto, aveva la specialità di fare er braccetto più polito de fiume e di nuotare con gli stivaletti; accanto a lui, lungo e ossuto come Don Chisciotte, arrancava con le sue gambette corte e grasse, Sancio Pancia, l'anzianotto cav. Gustavo Papi a tempo perso cronista del "Messaggero"; dietro, tra qualche persona seria, ma ringalluzzita per l'occasione - come i professori Postemscki e Nuvoli, il benefico e poi senatore avv. Carlo Scotti, i commendatori Pratesi e Mantovani - un codazzo turbolento di giovanottelli e maschietti, i quali davano giornaliere tangibili prove della labilità delle lezioni di civile educazione apprese in famiglia. Nell'attesa che la comitiva rientrasse alla base, Vincenzo Macchini dava, dal trampolino, gratuito spettacolo di tuffi: memorabili quello col caduceo in mano, pétaso in testa e talari ai piedi, che gli valse da Gabriele d'Annunzio l'appellativo di "sublime fiumarolo", e l'altro, non meno perfetto, con la corona d'alloro in mano, immortalati dal collega fiumarolo e fotografo pontificio Felici. Frattanto "Bucale" (al secolo Ettore Martelli) alternava le sue funzioni di bagnino-custode del Galleggiante con quelle di maestro di nuoto e certamente a lui e al suo irriverente e colorito eloquio trasteverino dovette ispirarsi Cesare Pascarella nel dettare i tre noti sonetti intitolati appunto "Er maestro de noto".
Se la "Rari Nantes" produsse campioni di nuoto che ebbero il loro momento di popolarità, come Cencio Altieri Vincenzo Altieri (N.d.R.), Roberto Basilici, Ferdinando Retacchi ed altri, la "Romana" contava fra i suoi assi il pittore Lello Montalboddi, Ernesto Immelen, oggi pensoso proprietario della libreria antiquaria Nardecchia, Vincenzo Bronner, più volte campione del Tevere, Carletto Serventi, passato poi agli allori della equitazione. Il vero vivaio però dei fiumaroli erano le "Capanne de Nino" piantate prima a valle e poi a monte di Ponte Margherita; lo stabilimento balneare Talacchi fu per molti anni una autentica istituzione della Roma di mezzo secolo fa e, per quanto interessante, troppo lungo sarebbe passare in rassegna gli habitués di questo ambiente caratteristico; tuttavia non si può avere un'idea della vita che per qualche ora del giorno si conduceva all'ombra e al fresco di quelle gialle stuoie o al sole sull'antistante piatta-forma, senza rievocare almeno le figure più tipiche di quel mondo originalissimo. Emergevano fra tutti lo stesso titolare dello stabilimento, l'apollineo Nino Talacchi, figlio del "Dragone", sempre affaccendato dinanzi al comò che serviva da cassa presso l'ingresso, ma sempre pronto a tutte le buriane; e poi "Lallo" Ruggeri, atleta veramente eccezionale, che solo qualche veterano ricorda ancora, quando, ritto sul parapetto del Ponte Margherita, prendeva lo slancio per tuffarsi a "Caposotto" nel fiume, tenendo le braccia conserte sull'ampio torace che si compiaceva gonfiare in modo spettacoloso. È, invece, ancor viva l'eco della rinomanza acquistata ai suoi bei tempi da Augusto Pompa-Pacchi, detto "Testa lucente".
Era Pompa, con l'aiutante "Gran Pedalino" (alias Vittorio Espositi) (in realtà Vittorio Spositi N.d.R.), il capo riconosciuto e accettato della "Tribù dei pelle rossa" e i suoi fedeli accoliti, impiastricciati di creta e incoronati di verdi erbacce, dopo aver celebrato ai "Polverini" i sacri riti - a base di commende e toppate (ubriacature N.d.R.), cori orripilanti e danze fantasiose - proteggevano dai profani il "sonno del Gran Sacerdote", mentre "veniva giù pe' curente facenno er morto". Né va dimenticato l'ing. Vassalli, animatore geniale della incoronazione di "Tricheco" (al secolo Filippini-Lera) a Imperatore dell'Isola di Ladispoli: una isoletta affiorata e poi sparita a valle del costruendo "Ponte de coccio" (per gli stranieri Ponte del Risorgimento) poco più giù dell'altra, sorta più tardi e pure inghiottita da un'alluvione, detta "der zibibbo" od anche "de li cornuti" per essere stata prescelta a nido di estemporanee espansioni crepuscolari da qualche irregolare coppietta del tempo. Alla incoronazione di Tricheco, oltre il solito corteo di battane infiorate e ragazzini camuffati da indiani, partecipavano le 21 concubine dell'Imperatore rappresentate da altrettanti maschietti indecentemente truccati da procaci odalische; maschietti, perché di bagnanti femminili allora non si vedeva neppur l'ombra per fiume e solo qualche straniera o qualche peripatetica si azzardava di prendere il bagno oltre Ponte Molle, nell'interno delle Capanne loro riservate e alle quali guai a solo avvicinarsi, che il Pizzardone arrostito lì sulla sponda anche lui a rispettosa distanza dall’Harem, vi invitava bruscamente a prendere il largo.
Ventuno impudiche concubine, guidate da Giggi Serventi nelle vesti, pochissime in verità, di favorita del Sultano, al quale un angelo (Lello Montalboddi) con tanto di ali bianche appiccate, non si sa poi perché, alle spalle di un vecchio frak, venendo giù a volo dal pilone del Ponte, portava gli auguri del suo potente Iddio. Ben noti alle prime generazioni dei fiumaroli furono pure l'indimenticabile Felice Tonetti e i giganteschi fratelli Castellani: Bruto (il famoso "Ursus" del primo "Quo vadis?") e Achilletto (chiamato così perché alto due metri); e Corrado Venturini, che faceva venire la pelle d'oca ai passanti quando se ne andava "in verticale" sui muraglioni o sul parapetto di Ponte Margherita; e "Romeo la pezza", padre dei fratelli Tofini, che seguirono degnamente l'esempio paterno; e Alberto Schiavi (più noto come "Tigellino"), nuotatore formidabile anche lui, che, al pari der Ciriola, nelle parate sfoggiava sulla maglia una collezione di medaglie al valore per aver ripescato non si sa quanti candidati al suicidio o inesperti bagnanti. Ma non è a credere che "Tigellino" o il "Ciriola" avessero la privativa di questi atti di valore: essi non sono che i degni eredi delle gesta veramente epiche di un Cesare Ronconi che nel 1881, ancora giovinetto, iniziò la serie dei suoi vantati 400 salvataggi, e di Massimo Cupellini - decorato con più di 20 medaglie e più di 100 salvataggi all'attivo, compreso l'ultimo compiuto a 78 anni - che era stato compagno di banco, alle elementari di S. Salvatore in Lauro, del futuro Pio XII.
Da questa scuola di eroismo sportivo il capitano dei bersaglieri Decio Pontecorvo, romano e fiumarolo autentico, trasse il primo e più numeroso nucleo di quei "Caimani del Piave" che nella guerra 1915-18 si coprirono di gloria leggendaria. A proposito di salvataggi bisogna sapere che in una certa epoca la Società degli Asfittici aveva stanziato un premio di dieci lire (allora non disprezzabili) a favore di chi traeva in salvo qualcuno in procinto di annegare; per qualche tempo la cosa andò liscia, poi la eccessiva frequenza dei salvataggi mise in pericolo il bilancio della Società che elevò sospetti sull'autenticità di tanti atti di valore. Pare risultasse, infatti, che pericolante e salvatore si mettessero d'accordo per eseguire realisticamente la scena e poi dividersi "'no scudo per omo". Il rimedio all'inghippo fu subito trovato: si stabilì che il premio venisse concesso soltanto nel caso che l'aspirante affogato andasse davvero a finire a S. Bartolomeo (dove era la Morgue); le finanze della Società rifiorirono immediatamente, ma vennero meno le sue finalità statutarie; chiuse perciò i battenti e sola ricompensa agli eroi rimase la medaglietta. Fiumarolo per la pelle fu anche Armando Sannibale (detto "Scambiano") che, buttandosi da Ponte Felice, presso Magliano Sabino, per primo percorse 100 chilometri a nuoto nel Tevere e che - come si era sempre augurato - il destino volle chiudesse gli occhi in una barca su quel fiume che era stato la più grande passione della sua vita.
La stagione fiumarola andava dalla metà di maggio ("quanno so bbone le cerase è bbono puro fiume", si diceva) alle prime piogge dopo Ferragosto quando cominciavano melanconicamente a smantellarsi le Capanne; ma la chiusura ufficiale veniva celebrata per la festa della Madonna: il programma comprendeva qualche gara di nuoto popolare o riservata ai cucuzzari, qualche esibizione di tuffi, anche umoristici e, per ultimo, l'attesa caccia all'anitra. La povera bestiola, lanciata con le ali mozzate, nel mezzo di uno stuolo di bagnanti inferociti, diventava proprietà di quello che riusciva ad acciuffarla, e non è facile immaginare la scena selvaggia che ne veniva fuori. Spesso, a render più idilliaca la pace di quelle ore beate, si organizzavano cori solenni: celebri quelli intonati dall'ancor oggi vegeto Enrico Durantini, come il "Pellegrino che venghi da fori co' le scarpe rotte ai piè" oppure "È pesce e nun è pesce..." con quel che segue non adatto a signorine per bene. Non era però difficile che qualche insonnolito dissidente interrompesse attaccando il "Canto de la mosca" non meno famoso e non più castigato.
Ma oltre alla vera e propria passione per il fiume e al desiderio di libertà e spensieratezza che vi si godeva, legava i frequentatori di questo piccolo mondo il linguaggio particolare, le tradizionali usanze, le feste, i riti, l'ammirazione per i suoi uomini più in vista, fossero essi campioni di nuoto o di atletica o soltanto mattacchioni originali e, magari, virtuosi della "pernacchia". È ancor viva l'usanza del bagno invernale, ma dei cimenti indumentali nei quali si sbizzarriva la fantasia dei concorrenti che, in completa tenuta di ciclisti entravano in acqua montati sulla bicicletta, o che si tuffavano vestiti da donna, con tanto di cappellone e ombrellino, ovvero da preti, o col palamidone alla Giolitti, o in frak, chi serba ricordo? E che impressione farebbe oggi veder scendere per corrente una tavola apparecchiata e attorno famelici bagnanti che nuotando ingurgitano succulenti spaghetti e fiaschi di Frascati? Ma tutto questo è ormai dimenticato, ché, purtroppo, la vera vita di fiume oggi si può dire finita.
Tullio Torriani - 1952 -
Il barcone di Toto Bigio
LazioWiki ha acquistato una stampa originale, risalente al 1878, che rappresenta dei cittadini che si imbarcano sul barcone che, anteriormente alla costruzione del Ponte di Ripetta del 1879, permetteva di collegare le due rive del Tevere. Esso era trattenuto da una fune trasversale che impediva al natante di essere trascinato a valle dalla corrente. La tariffa era popolare e ammontava a mezzo bajocco. Di questo traghetto ne parla anche il Belli in una sua composizione dal titolo "Er diluvio univerzale":
Iddio disse a Nnovè: "Ssenti, Patriarca:
Tu cco li fijji tui pijja l’accetta,
E ssur diseggno mio frabbica un’arca
Tant’arta, tanto longa, e ttanto stretta.
Poi fa’ un tettino, e ccròpisce la bbarca
Com’e cquella der Porto de Ripetta;
E ccom’ hai incatramato la bbarchetta,
Curri p’ er monno, acchiappa bbestie, e imbarca.
Vierà allora un diluvio univerzale,
C’appett’a a llui la cascata de Tivoli
Parerà una pissciata d’urinale.
Cuanno poi vederai l’arco-bbaleno,
Cuell’è er tempo, Novè, cche tte la sscivoli,
Scopi la fanga, e ssemini er terreno".
La stampa ci permette di cogliere l’aspetto del barcone (anticamente una lancia papalina) e il personaggio storico di Toto Bigio, rappresentato a bordo con una pertica in mano e posizionato nei pressi della fune che collegava l’imbarcazione alla corda-guida tesa trasversalmente tra le due rive. L’opera, una xilografia su legno di testa prodotta dalla tipografia Centenari di Roma, fu eseguita dal notissimo incisore Dante Paolacci. Egli, discendente da un’antica famiglia vetrallese, figlio di un magistrato che per i propri ideali risorgimentali fu anche incarcerato sotto lo Stato Pontificio, nacque a Civitavecchia il 6 luglio 1849. Studiò pittura a Roma presso l’Accademia di San Luca con Alfonso Chierici (Reggio Emilia 1816 – Roma 1873) e Francesco Podesti (Ancona 1800 - 1895). Pittore e fotografo sin da quando la fotografia era agli albori e artista rinomato, fu tra i maggiori illustratori della sua epoca. E’ importante ricordare l’incontro e il sodalizio con il gruppo dei XXV della Campagna Romana, di cui fece parte Pascarella che gli scrisse un sonetto sul retro di una sua fotografia e quello con il giovane artista Duilio Cambellotti, molto vicino alla S.P. Lazio e probabile autore del primitivo stemma biancoceleste del 1906.
Purtroppo poco dopo aver compiuto i sessant’anni, Paolocci contrasse una malattia che gli impedì di usare con la consueta destrezza la mano e, progressivamente, dovette abbandonare la matita. Pur vivendo e lavorando a Roma, Paolocci tornava frequentemente a Vetralla, dove ancora oggi si trova la casa avita. Si spense a Roma il 23 giugno 1926.
Toto er Bigio detto Bucalone e la sua barca
ovvero
una strana storia dove la Lazio c'entra ben poco ma LazioWiki ce la fa entrare
Nello Statuto di LazioWiki si sottolinea come tra gli scopi dell’Associazione vi sia anche quello di portare alla luce fatti, persone, situazioni che, pur non essendo legati strettamente al mondo della Società Sportiva Lazio, siano ad essa collegabili e abbiano contribuito a caratterizzare la città di Roma dal punto di vista antropico, culturale, sociale, urbanistico e quanto altro possa ricondursi, a qualsiasi titolo, alla storia dell’Urbe. Questa è la premessa per far comprendere ai nostri lettori i motivi che ci hanno spinto a dipanare i nodi di una vicenda minima, ma per noi malati (ammaliati) di Lazio importantissima, dell’antico barcone che, ancorato sulla riva destra del Tevere proprio sotto Piazza della Libertà, accolse, allo spirare del XIX secolo, un ristretto gruppo di fiumaroli, nuotatori e sportivi che il 9 gennaio 1900 decisero di costituire la Podistica Lazio.
Di questo natante LazioWiki e altri storici dello sport hanno a lungo trattato e si è appurato che esso fu lì posizionato da un certo non ancora identificato "Gamba di Legno" che, avendo forse intuito il ruolo sempre più incisivo che lo sport avrebbe assunto in città, destinò questa imbarcazione a sede di un circolo sportivo fluviale dal nome bizzarro di "Pippanera". L’origine di questo nome è discussa: c’è chi dice sia riferibile al fiume Nera, affluente del Tevere, chi lo fa nascere dalla pipa sempre accesa, e quindi annerita, di Gamba di Legno e altri che, beffardi sostenitori di altre sponde sportive dai colori comunali, ne suggeriscono ben più icastiche scaturigini popolaresche e dialettali. Ciò che è certo è che il Pippanera, location invero modesta se non fatiscente, permetteva, in cambio di pochi spiccioli, di ospitare coloro che intendevano fare una nuotata "a fiume" o semplicemente prendere la "tintarella". La sua vocazione democratica, oggi si direbbe nazional-popolare, è manifesta se confrontata agli aristocratici ed esclusivi circoli fluviali di allora che rispondevano ai nomi altisonanti di Canottieri Aniene, Circolo della Caccia, Reale Circolo Canottieri Tevere Remo ed altri di identico blasone. I giovani protolaziali, studenti della piccola borghesia e pertanto quasi costantemente privi di denaro, divennero assidui frequentatori di quella barca, raggiungibile facilmente tramite una comoda scaletta che scendeva dalla piazza sovrastante.
LazioWiki, i cui redattori sono assai curiosi di conoscere tutto lo scibile biancoceleste per poi condividerlo con i lettori, ha voluto saperne di più su questo barcone, e non solo di esso come vedrete, e si è messa all’opera. Ecco cosa ha potuto appurare. Di un traghetto a fune che faceva servizio tra le due sponde del Tevere all’altezza del Porto di Ripetta si era già a conoscenza. Ne tratta Stendhal nelle sue "Promenades dans Rome" del 1827 e il Gregorovius nel suo "Notizie storiche sul fiume Tevere" del 1876] nonché il Belli nel suo componimento "Er diluvio univerzale". Cesare Pascarella ne fa un ritratto fresco e divertente, nel suo "Le capanne di Ripetta" che ci piace qui di seguito riportare:
"Il barcarolo che mi traghettava ieri all'altra sponda del Tevere, dove, sotto ai begli alberi fronzuti, sorgono dall'acqua bionda le stuoie gialle dello stabilimento dei bagni, mi diceva con molta serietà: — Caro lei, troppi stabilimenti! Troppi! Napoli, Livorno, Civitavecchia, Vicarello! Ar giorno d'oggi ce so' più stabilimenti che bagnanti: se capisce che l'affari vanno male. Il Caronte che per due soldi trasporta le anime e i corpi dall'una all'altra riva tiberina e viceversa, è un vero lupo di fiume: magro, ma robusto, con la barba bianca e lanosa che gli onora la faccia abbrunita dal sole, siede gravemente sulla poppa di una sua barca, chiamata l'arca di Noè, e non abbandona il suo posto se non per raccogliere dignitosamente nella berretta il prezzo del breve viaggio fluviatile. Ordinariamente non è molto verboso. Le gravi responsabilità della navigazione non gli permettono di perdersi in chiacchiere; tuttavia se i "passeggeri" son pochi e di sua conoscenza, mentre egli maneggia il vecchio timone, che sa le tempeste e ad ogni scossa miagola come un gatto soriano, parla volentieri.
I suoi discorsi favoriti non mai più lunghi della traversata, sono due: la spiegazione der machinismo de la girella, che scorrendo sulla corda tesa fra le due rive del fiume tiene assicurata la barca; e la descrizione di un viaggio da lui fatto in gioventù per risalire il Tevere da Ripetta a Stimigliano; un viaggio con burrasche, burraschette, riggiri, mulinelli, crescenti, crescentini, murelle, pennelli, mollacce e mollaccioni: roba, Dio ne scampi e liberi tutti, da non ritornare più a casa. È inutile dire che tanto il primo quanto il secondo discorso finiscono sempre con questa giaculatoria: — Caro lei, tutto va bene; ma ar giorno d'oggi ce so' troppi stabbilimenti. Napoli, Livorno, Civitavecchia, Vicarello! Troppi stabbilimenti! Li tempi de 'na vorta so' finiti. Li tempi de 'na vorta! Allora, difatti, quando al cominciar dell'estate non era ancora venuta la moda di fuggirsene sulle rive del Tirreno azzurro e dell'Adriatico verde, l'inaugurazione delle "Capanne" era davvero per la vita romana un avvenimento; ma adesso invece è divenuta la cosa più semplice del mondo. Quando le tende e le stuoie sono distese sui pali ben confitti nell'arena del fiume; quando tutte le sedie sono allineate e la pesante scrivania è al suo posto, si appende sulla porta d'ingresso una tabella su cui sta scritto a lettere di scatola: SI PAGA ANTICIPATO, e la stagione dei bagni fluviali è inaugurata".
Nell’articolo pubblicato su questa stessa pagina di LazioWiki qualche tempo fa e tuttora presente, si spiegava anche la tecnica di attraversamento del fiume, la popolarità del traghettatore chiamato Toto er Bigio, nonché venivano riferiti alcuni dati storici interessanti. Infatti quel traghetto, esaurita la sua funzione di trasporto passeggeri, fu acquisito da Gamba di Legno che lo usò per gli scopi di cui sopra. Ma chi aveva costruito questo barcone? E quando? A chi appartenne? Qui le notizie mancavano, la tradizione orale non ci ha aiutato e i dati filologici erano carenti o addirittura assenti. Archivi, biblioteche, registri, emeroteche, raccolte, sono il pane di LazioWiki da quindici anni. Armati di quaderni, penne e di tanta passione abbiamo fatto le nostre incursioni nei luoghi deputati e qualcosa di completamente inedito è scaturito. Con piacere, sperando sia di vostro interesse, ve lo proponiamo.
Lo sgangherato barcone dove nacque la Lazio in origine era nientemeno una lussuosa lancia pontificia. Costruita intorno al 1705 nei cantieri navali vaticani di Porta Portese, fu usata da Clemente XI, al secolo Giovanni Francesco Albani, per navigare e attraversare il Tevere. Convinto assertore della necessità di favorire il commercio fluviale proveniente dalla Sabina e dall’Umbria, fece riammodernare, su progetto di Alessandro Specchi, il Porto di Ripetta usando i marmi del Colosseo rovinati al suolo a causa del violento sisma che colpì la città nel 1703. La lancia era a fondo piatto, parzialmente cabinata, con comodi sedili e ricca di decorazioni tardo-barocche. In un dipinto settecentesco è rappresentata, agganciata alla fune-guida, che sta attraccando nei pressi del portale d’accesso di Villa Altoviti, situata di fronte al porto. Per favorire l’ingresso e l’uscita dei passeggieri la poppa del natante era quadra e munita di porticina mobile. Morto il pontefice nel 1721, la barca man mano non fu più utilizzata come mezzo di trasporto papale ma venne destinata all’attraversamento del fiume per coloro che intendevano raggiungere le vigne dei Prati di Castello.
L’appalto di questo servizio era molto ambito e nel tempo numerose famiglie benestanti e alcune confraternite se ne contesero la gestione per la quale pagavano un oneroso tributo alla Camera Apostolica. C’è infatti da considerare che fino all’annessione di Roma al Regno d’Italia nel 1870, i ponti che univano le due sponde del fiume erano pochi e per ovviare a questa carenza si erano istituiti, lungo il tratto cittadino, sei attracchi per i traghetti che collegavano le rive. Essi erano quelli Ripetta, dei Fiorentini, di S. Biagio, di S. Eligio, quello tra palazzo Farnese e la Farnesina e quello a Marmorata. Con il passare degli anni e con la costruzione di nuovi ponti, tuttavia, il passaggio via acqua perse di importanza e, nel 1857, la nobile famiglia Mattei di Avezzano, titolare della concessione di Ripetta, addirittura la cedette a terzi per soli 600 scudi. Quel che a noi più interessa è proprio il barcone-traghetto in servizio nell’omonimo porto, perché è quello, come già scritto, che divenne il "nido" dei nostri Fondatori.
A questo punto, come accade sulla scena di un teatro, deve necessariamente fare la sua comparsa il protagonista. Nel nostro caso un personaggio mitico della Roma della seconda metà del XIX secolo: Toto er Bigio (alias Toto Bigio o anche Toto Bigi). Ed è di lui che vogliamo trattare e vi garantiamo che tutto ciò che viene è inedito, come nella migliore tradizione di LazioWiki. Che bisogno c’è, infatti, di raccontare storie e vicende già ampiamente conosciute e spesso pure romanzate? Romano verace, formidabile nuotatore, lottatore in circhi e teatri, fiumarolo e traghettatore, "er bigio" è ricordato in mille libri su Roma. Nulla più. Nessuno ne ha tramandato il vero nome, il carattere, le tappe della sua esistenza, il pensiero. Nemmeno le date di nascita e morte. Il nulla cosmico. E’ proprio per questo che LazioWiki ha voluto indagare, sebbene egli non sia, come abbondantemente ricordato, che molto marginalmente e inconsapevolmente legato alla Lazio ed esclusivamente per aver posseduto quella barchetta che fu più tardi ormeggiata sotto Piazza della Libertà.
Il vero nome di Toto er Bigio era Luigi Del Bigio. Egli nacque a Roma nel 1848 da Francesco e Maria Cascia, romani anch’essi, in Piazza Santa Maria in Trastevere n. 5. Si dedicò a varie attività lavorative tra cui quella di facchino nello scarico delle merci dalle navi che dal mare raggiungevano il porto trasteverino di Ripa Grande. La consuetudine a lavorare sul fiume favorì la sua attitudine al nuoto. Non fu un atleta come oggi si intende, non si cimentò in gare fluviali, ma, dotato di una resistenza fuori del comune, riusciva a percorrere a nuoto lunghi tratti del sacro fiume, soprattutto controcorrente, per raggiungere gli arenili posti a nord della città e dopo un breve riposo riprendeva a nuotare per far ritorno a Trastevere. Alto, muscoloso, dotato di un fisico atletico, era per questo soprannominato Bucalone vale a dire grande baccello, temprato dalle fatiche, intraprese poi la carriera di lottatore e sfidò senza demeritare i più noti professionisti di questo sport. All’età di circa 25 anni riuscì ad ottenere la concessione per condurre il traghetto di Ripetta. L’assenza in zona di un ponte favorì la sua attività che fu da lui svolta con molta professionalità. Con la battuta pronta, irriverente, apparentemente burbero, era il vero caronte del Tevere. Durante la breve traversata, mezzo bajocco a tratta (l’equivalente di circa 10 centesimi di euro di oggi), forniva ai passeggeri informazioni su Roma e le sue bellezze, deliziandoli a richiesta con antiche canzoni popolari. Presto divenne il barcaiolo più apprezzato della città anche perché provvide sempre a dotare di ogni comodità il suo battello costruendo una nuova copertura decorata e munendo la cabina di vetri laterali che riparavano i clienti dalla pioggia o dagli spruzzi del fiume.
Un relativo benessere economico consentì a Luigi di vivere dignitosamente fino al 1879, quando l’inaugurazione del ponte di Ripetta determinò il crollo dei passaggi fluviali costringendolo a portarsi più a nord. Il suo nuovo approdo era situato ad un centinaio di metri dall’attuale ponte Margherita. Questa zona, non essendo ancora urbanizzata l’area di Prati, era poco frequentata e solo la domenica i romani utilizzavano il traghetto per raggiungere la riva destra, paludosa, densa di canneti, ma ricca di trattorie che propinavano cibi molto apprezzati dai gitanti. Per di più Luigi non aveva lì un vero e proprio ormeggio strutturato, come a Ripetta, e questo, insieme ai modestissimi incassi, la solitudine del luogo e la consapevolezza che il progresso sarebbe stato per lui la rovina, determinò in lui un immalinconimento che progressivamente assunse caratteri severi. Cresciuto in un ambiente permeato di aneliti libertari, repubblicani e mazziniani, andò a rafforzare sempre più il suo anticlericalismo e il suo convinto ateismo. Intanto nel febbraio 1886 aveva preso in moglie Chiara Falconi con un matrimonio civile in cui, per l'assenza di qualsiasi invitato o parente, fecero da testimoni due uscieri comunali.
La costruzione del ponte Regina Margherita, inaugurato nel 1891, pose fine inevitabilmente all’attività di Luigi. Cominciò allora a frequentare i circoli più apertamente anticattolici e radicalizzò le sue convinzioni. Del destino della sua barca ne sappiamo poco, ma tristemente abbandonata sotto ponte Margherita la nota Emile Zola nei suoi diari romani nel novembre 1894. Poi fu venduta per pochi soldi al citato Gamba di Legno. La sua robusta struttura, che per ben 180 anni le aveva consentito di attraversare il Tevere, divenne quindi la base di alcuni scalmanati giovani ammaliati dalle speranze che il nuovo secolo prometteva e ammantati da quel puro concetto di "sport per lo sport" che li portò a fondare una Società che ha segnato tutto il XX secolo e prosegue, imperterrita, a seguire gli esemplari ideali fondanti che Luigi Del Bigio non fece in tempo a conoscere. Luigi si avvelenò la sera del 9 luglio 1895 nella sua casa di Trastevere assumendo morfina e arsenico. Soccorso da sua moglie Chiara Falconi, spirò all’ospedale della Consolazione. Nel certificato di morte alla voce "condizione economica", fu scritto "povero". Aveva soltanto 47 anni. I giornali diedero notizia della sua morte ricordandone le doti di nuotatore. Lasciò scritto di voler essere cremato e chiese la partecipazione al suo funerale dei suoi compagni di pensiero anticlericale. Siamo contenti di averlo ricordato.
Testimonianza
Il Porto di Ripetta ha sempre stimolato artisti e letterati ad esprimere le loro considerazioni su questo antico e rimpianto monumento di una Roma che non ha saputo o voluto serbarne il ricordo. Al di là della sua struttura materiale anche i personaggi che abitavano o lavoravano in questo tratto di fiume hanno ispirato racconti e, a volte, leggende che sono divenuti nel tempo patrimonio dell’anima più popolare della città. Il brano che segue è un ricordo del 1946 di un’anonima scrittrice che viveva nei pressi del Porto.
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