Olimpicus - Aurora

Da LazioWiki.

"Er Poncho": Alberto Mesones
"Er Puntale": Luigi Bigiarelli - "Fondatore Primo"
"Piombo": Arturo Balestrieri - "Fondatore Secondo"
"Er Pizzarda": Tito Masini

OlimpicusEagle.jpg RUBRICA LETTERARIA "I racconti di Olimpia" di Olimpicus per LazioWiki



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AURORA

INTRODUZIONE

Siamo in un futuro imprecisato distante centinaia di anni da oggi. Una specie aliena, gli Agles, ha preso possesso del pianeta Terra. Gli esseri umani, gli Homes, sono stati sottoposti a un regime di tutela speciale. Un welfare che, dopo aver bonificato il pianeta, semidistrutto nella sua biosfera, e selezionato la specie, ridotta a centoventicinquemila unità concentrate in centri di produzione, cittadelle scientifiche-museali e aree ecologiche, ha posto attenzione a una sociabilità il più possibile controllata. Un gruppo di scienziati e storici studia i caratteri ritenuti decisivi nello sviluppo delle civiltà del passato. Tra questi aspetti, oggetto di analisi è il fenomeno del tifo calcistico, che molto ha stupito gli Agles. Nel centro museale di Terminus-M, l’antica Roma, mediante una tecnologia che consente di ricreare un essere umano partendo da un campione del suo dna, lo storico Gal-ard interroga Alberto Mesones, individuato nei documenti come uno dei fondatori della Società Sportiva Lazio. Se lo screening risulterà soddisfacente, il soggetto sarà stabilizzato e inserito in un centro per rivivificati, e quindi aggregato alla "colonia umana". La mission di Gal-ard consiste nel comprendere i meccanismi che, nei secoli XX e XXI, condussero alla divisione della popolazione di Terminus-M in due fazioni che si odiavano con tutto il cuore: i "romanisti" e i "laziali".

La neolingua usata è l’Hyper-English. Gli Agles, che tra loro comunicano telepaticamente, la parlano ricorrendo a un trasmutatore dai toni metallici. Il "revived" Alberto Mesones, denominato RV12SM-701 (il codice alfa-numerico lo identifica come riesumato dalla dodicesima era in un determinato quadrante geografico per una specifica ragione), racconta, nel suo inglese appreso nell’antica regione del Sud Africa, le vicende della nascita della "Lazio". Per gradi, svela alcuni dei misteri rimasti inattaccabili: l’origine del nome, dei colori e del simbolo dell’aquila. Gal-ard registra i ricordi di Mesones, intervenendo di tanto in tanto col fine di stimolarlo e chiedere spiegazioni su punti a lui poco comprensibili. L’intervista procede in varie sedute, nell’intervallo delle quali si tenta di rendere largamente accessibili i banchi di memoria di Mesones tramite il programma di recupero Mnemositron. Il racconto di Mesones, che tende a divagare nella misura in cui la sua mente è stata alterata dai processi chimici del reviving, tradisce un crescente senso di irritazione per il sopruso di cui si sente vittima. Ciononostante, esso ripercorre fedelmente i primi anni di vita della Società Podistica Lazio. Sullo sfondo delle vicende pittoresche e ingenue dei giovani pionieri, si colora via via un affresco della Roma sportiva Belle époque. Molti sono gli eventi, i luoghi e i personaggi che sfilano; in qualche caso, una nota aiuta a mettere a fuoco.

* * * * *


ERA GALATTICA STANDARD 100,261. DATE: 09-10: PRIMA SESSIONE

PARLA PONCHO

– Sei pronto, RV12SM-701? Bene, non essere nervoso.

– Non sono nervoso, sono preoccupato. Ho il diritto di esserlo, è una questione molto importante per me.

– Certo. Inizia, semplicemente. Vorrei che descrivessi il Fondatore Primo.

– Per favore.

– Sì, certo, RV12SM-701. Prendo nota della correzione. Per favore.

– La prima volta che ebbi un discorso serio con Giggi il Puntale fu nel 1898 all’Anglo-American Bar, poi Faraglia. Stava d’angolo tra corso Umberto e via dei Montecatini, non lontano dal Colosseo che, se ho capito bene dalla mappa che mi hai mostrato, ancora sta in piedi. Sai cos’erano i bar e i caffé, no? Immagino che tu lo sappia. Erano luoghi dove potevi sedere a un tavolo all’aperto nella bella stagione o al chiuso col freddo, e passavi il tempo con gli amici bevendo aperitivi costosetti. I caffè erano diversi dalle osterie e fiaschetterie, dalle bettole e anche dai "restaurants", perché ci si poteva accomodare a ogni ora e la clientela apparteneva al ceto superiore. Il Puntale, quando ancora non lo chiamavamo così per la verità, Luigi Bigiarelli insomma, frequentava l’Anglo-American perché vi si incontrava bella gente. C’erano i lawyers e i press-men che uscivano dalla Pretura e dalle sedi di giornali lì vicino: la Tribuna, il Giornale d’Italia e il Popolo Romano; e, soprattutto, signore e signorine, sempre accompagnate da madri, zie, fratelli, mariti e fidanzati, beninteso.

Giggi era per l’appunto fidanzato con Lilli, la figlia di un tizio di una società belga che faceva affari in città. Ricordo bene quella domenica a mezzodì, doveva essere maggio o il principio di giugno. Dopo averlo intravisto al fiume nuotare assieme ai soliti amici, bighellonavo nella "piscina" del Corso con una frittella unta tra le mani, quando ecco che mi si para dinanzi, seduto in compagnia. Io avevo sedici anni ma ero già un bel fustacchiotto, di quelli che le ragazze guardavano con malizia. Giggi aveva trovato un tavolo sotto il grande lampadario quadrangolare in ferro battuto, la meraviglia del Faraglia. Difficile non notarlo, azzimato come al solito, sorgente di una scia di profumo che, come un laccio invisibile gettato con precisione da Buffalo Bill, era giunta ad avvolgere la mia frittella di strada.

– Cos’è una "frittella di strada"? Descrivila, per favore.

– Roba buona e poco costosa, inventata dal popolo per il popolo e che si gustava calda a passeggio. A Trastevere e alla Rotonda, al Corso o al Pantheon, di venditori di frittelle ce n’erano in ogni dove. La gente s’accalcava attorno alla friggitoria di sua scelta, che si riconosceva da lontano per il fumo denso e grasso che saliva. Quando riuscivi a bucare il crocchio fitto, vedevi la padellona di ferro con l’olio che sfriccicava e schioppettava che era un piacere, e accanto la cuccuma di coccio per la pasta lievita, tutta bolle, preparata al mattino presto con la farina di grano. Il tizio, o la tizia, quasi sempre con panni scuri addosso, raccoglieva una manciata di pastella, una mezza libbra, faceva il buco col pollice, adagiava nella padella e, in pochi secondi, la frittella era gonfia e pronta da servire. Mi sembra ancora di avere nelle nari il profumo di quelle golose ciambelle panciute, che poi non ho più mangiato vivendo con i dannati inglesi e boeri. Ti basta?

– Ti ringrazio. Credo che il mio collega Syo-dar, che s’intereressa alla storia del cibo nell’area del Mediterraneo, potrà indagare in merito. Continua, per favore.

Muy bien! E allora, torno al Puntale. Giggi era più grande di me di sei anni, cosa che faceva una bella differenza sotto molti punti di vista. Snello come una Jacaranda [1] e alto nella norma, poco meno di un metro e settanta, il volto fine e pallido, le mani affusolate e sovente guantate Poncho si guarda perplesso le dita compresse nei guantini a moffola], gli occhi azzurri melanconici, un po’ a mezzasta, che gli donavano quell’aria annoiata che non dispiace alle femmine. Portava dei baffi naturali e nascondeva la pelata incipiente con cappelli a bombetta se vestito in borghese, oppure con le berrette di stoffa che andavano tra gli sportivi, la sua preferita era bianca. Una specie di dandy in do minore, che non teneva baiocchi a sufficienza per girare col tiro a quattro come il conte Tacchia, o esibirsi da spadaccino alla "Ignis". [2] O almeno, uno che si atteggiava a uomo di mondo, alleggerito dal fatto di non aver bisogno di lavorare per campare. "Possidente terriero", si firmava sui registri, e con quel tocco di ragazza bionda seduta accanto ci aveva tutte le ragioni. Era anche un uomo mite. Mai l’ho visto farsi coinvolgere in una zuffa o tirare fuori dai pantaloni la "molletta", il coltello a serramanico avvolto con lo spago che, per un periodo della gioventù, mi fu compagno fedele. E certo non aveva frequentato la Cicciata alla Palombella [3]

– Molto bene, RV12SM-701. L’Enciclopedia ha già dato tutte le informazioni riguardanti i bar-caffé, ma ho poco su Buffalo Bill. Mi sai dire di più, per favore? L’hai conosciuto? Era un commediante americano, vero?

Io conoscerlo? Buffalo Bill un commediante? Chiamalo così, Bobo, se ti fa piacere. In realtà, era un gringo hijo de puta che aveva fatto lo sterminatore di bufali nelle grandi pianure americane, pagato a pezzi d’oro per aprire la strada alle ferrovie del Pacifico. Quindi era diventato un impresario e un attore, e se vuoi anche uno stunt-man, avanti che la professione sorgesse. Non l’ho conosciuto personalmente, tuttavia l’ho veduto in azione, il colonnello Cody. Accadde quando mio padre ci portò, a me e a mio fratello Luis Ignacio, a uno spettacolo del suo circo itinerante, il Wild West Show. S’era accampato sui prati di piazza d’Armi, in tournée in Europa; mi sembra fosse sceso da Milano o salito da Napoli. Io avevo otto anni e per me fu un avvenimento emozionante, di quelli che non scordi più: sparatorie e finti inseguimenti a volontà, danze indiane in circolo attorno al fuoco e perfino un assalto a una carovana di coloni bianchi da parte dei pellirosse scatenati. C’era una giovane femmina, bruna, alta e fiera, che sparava con un winchester dorato e aveva la mira di un demonio. I selvaggi cavalcavano i broncos pezzati senza sella e quasi senza finimenti, mostrando acrobazie impensabili. Fui così entusiasmato che, nei giorni successivi, era febbraio inoltrato e pioveva a dirotto, girovagai in incognito tra le tende di quei mattacchioni, desideroso di scoprire di più sui nativi americani dei quali avevo udito cose pazzesche. Ma uno di loro, un gigante col capo irto di penne e tutto ricoperto di pitture sul corpo seminudo, mi pescò a sbirciare e, con un grido che era un ruggito, mi fece scappare a gambe levate. Dopo, dai giornali, seppi che si chiamava Nube Tonante. Non so se esiste ancora il Caffè Greco a via dei Condotti, ma lì stava inchiodato in un angolo il quadretto della sua foto col colonnello e un altro capo indiano in visita. Senti, ho caldo. Perché è tutto così buio nella stanza? Siamo poi in una stanza d’ospedale? O è un laboratorio? Non vedo le mie mani, non sento il mio corpo. Ma ho ancora un corpo?

– Stai andando bene, RV12SM-701. Tranquillo. Non ti deconcentrare, ingoia un altro sorso della bevanda dalla cannuccia che hai vicino alla bocca. Ti aiuterà a mantenere alto il livello di energia che serve per la stabilizzazione. Ovviamente hai un viso, un naso, le orecchie al posto giusto e un corpo di carne, ossa e sangue, che però non è completo nelle sue funzioni. Un bel corpo, tra l’altro: quello dei tuoi vent’anni. Se avverti disturbi di teicopsia, lampi iridescenti e filamenti brillanti che si dipartono dal centro della visuale, dimmelo subito. Ho notato che il ritmo cardiaco è aumentato.

– Non ho la tempesta negli occhi, maldito tirador de barbujas! Il corpo di cui parli non lo vedo, e la mistura sintetica fa schifo! Perché indosso una tuta attillata e ho questi guantini che si appiccicano alla pelle? Vorrei poter valutare almeno il mio viso. Al diavolo la stabilizzazione, me la dovete e basta! Il mio corazon batte pure se non l’avverto, e lo so che sto dicendo più di quello che sarebbe necessario per l’upgrade. Ma se continui a sgranare nuove domande su ogni pippa che transita per la tua zucca da spaventapasseri, specie di totem saccente, non giungerò mai alla fine! Mi stancherò e, forse, la prossima volta non ricorderò il mio nome di battesimo. Invece, adesso, mi sento come l’attore protagonista di un film. Uno, per l’appunto, fatto di celluloide infiammabile e senza un vero corpo. Sai, i film muti e in bianco e nero, col pianista in un angolo a strimpellare, che vedevo al Moderno in piazza Esedra e al Metropolitan al Corso, prima di partire per il centro dell’Africa. Ecco: c’è il ciak del director, ed io che ripasso per la terza volta davanti al Faraglia. Mi accorgo che Giggi è da solo, immerso nella lettura di un giornale. Allora cambio rotta e mi presento. Lui mi accoglie con un sorriso educato, che scopre i denti piccoli giallo avorio. L’avvicinai, quel giorno, perché m’era venuta l’idea di fondare una società di nuoto, la "Urbe et Farfa": il nome antico della città e quello di un fiumicello della Sabina, che poteva benissimo funzionare da amichetto del Tevere. Giggi fu sorpreso, mi squadrò dal basso in alto soppesandomi per bene, chiese che età avessi e sgranò gli occhi, sollevando l’eterno mezzo sipario. "Hai giusto gli anni per sbrigare legalmente la cosa" disse svelto "Ma io sono già impegnato con una società sportiva, mi spiace". Fu così che iniziò tutto. Per me, almeno. Quando possedevo un vero corpo che mi portava a spasso, e non il fantasma di un corpo.

– Perché affermi che cominciò tutto in quel frangente? La fondazione della "Lazio" avvenne più di un anno solare dopo, a dare retta alle Cronicles nell’olo-data-base.

– Il processo di fondazione, secondo me, partì lì per un motivo semplice: fu, quella, la prima volta che vidi il Puntale in compagnia della Lilly. Meno di un anno dopo, vale a dire al termine di parecchi mesi di corte che stordirono il mio amico innamorato, la ragazza se ne tornò a Bruxelles. Giggi cadde preda di un esaurimento nervoso che lo tramutò in una persona affatto diversa dal dandy godereccio che era stato. Tra l’altro, non credo fosse arrivato, con la bionda, all’altezza del conte Fiume. [4] Considera che lui aveva alle spalle la tragedia dell’Etiopia, ufficiale bersagliere scampato al massacro del Tigrai, addirittura imprigionato dai negri. Come mi confidò una sera, l’amore per quella chica gli aveva funzionato da lenimento psicologico: la promessa di un futuro da padre di famiglia con la donna dei suoi sogni. Invece, la decisione dell’amata l’inabissò in uno stato di prostrazione tale da indurlo ad accarezzare propositi di farla finita con la vita. Quel giovane uomo, che soffriva di malesseri depressivi alternati a periodi di iper-attività, all’improvviso non ebbe più una meta da raggiungere, fu svuotato dentro. Allora, per sfuggire alla discesa nel maelström, decise di spingere l’acceleratore dello sport. E qui inizia la bella storia del Fondatore Primo, come lo chiami tu. Giggi già praticava il nuoto, quindi scoprì di andare forte nel podismo, ossia la corsa veloce e la marcia a piedi, quella in cui si distinguevano i bersaglieri e che non era del tutto nuova per lui. Non volle dedicarsi al velocipedismo, l’altra moda del momento, con la scusa che aveva visto un tizio travolgere una donna e il suo bambino a via Nazionale e quasi accopparli. Il mio amico era sensibile, sai, non un becerro con gli occhi come lampadine fulminate come te.

Il nuoto a fiume era una routine che a Roma fino a poco prima poteva solo essere stato il divertimento estivo dei più audaci, ma poi aveva preso il largo. C’erano un paio di società fiumarole rispettate, la Rari Nantes e la Romana di Nuoto, tutte e due dai colori biancazzurri, che attiravano nei "gallinari", ossia i recinti di canne nell’acqua bassa, i volenterosi di apprendere l’arte. Si insegnava pure ai minorenni dei ricreatori pubblici, grazie a corsi in convenzione con la Federazione ginnastica, che assegnava al nuoto una funzione igienica e sociale. Questo avveniva ai ponti nuovi sul fiume, al Ferro di Cavallo e quasi dirimpetto a piazza del Popolo, cioè ai confini della città che avanzava verso nord. Lì aveva la sua sede, in uno chalet col cortile alla Passeggiata di Ripetta, il Circolo dei Canottieri del Tevere. Tipi benestanti, per lo più professionisti e bottegai d’alto profilo, che scendevano in acqua sugli skiff, agili imbarcazioni di fattura moderna acquistate a Parigi. Saccenti come te, Bobo. Ma anche il canottaggio non piaceva un granché al Gigio. Lui voleva muovere le gambe e le braccia in una maniera spasmodica che non gli lasciasse il tempo di pensare ai guai suoi, così da sconfiggere l’angoscia che gli gravava sul cuore ferito: "il male di vivere", come diceva quel poeta italiano di cui ora mi sfugge il nome.

Nell’estate del 1898, ce la mise tutta per diventare un asso nel nuoto. Vista la piega, lo indirizzai ad allenarsi in coppia con Luis Ignacio, bravo sia nell’allargata che nel braccetto e nella notata dritta. [5] Era il tempo in cui sui giornali, ad esempio la Gazzetta dello Sport che si vendeva alla galleria Colonna e che Giggi leggeva sempre, si magnificavano i record stabiliti nelle gare ospitate nelle capitali. A Londra e a Parigi specialmente, i direttori mettevano in palio premi favolosi in franchi e sterline-oro, destinati a chi avesse battuto il primato della traversata della Manica. Che non era uno scherzo, un paio dei miei amici ci hanno pure provato: più di venti ore nell’acqua fredda per coprire il tratto dal porticciolo di Calais, in Normandia, alle bianche scogliere di Dover, nel Kent. A Roma non si nuotava di regola in mare, forse solo qualcosa alla marina di Anzio col solleone, tanto per stupire i bagnanti. Piuttosto, si preferiva fare le gare ai laghi di Albano, Bracciano, Nemi e Bolsena, col pranzo finale al restaurant. Oppure meglio al fiume, da ponte Milvio al vecchio porto Fluviale, il traguardo piazzato all’altezza dell’antico obitorio. In quel lungo serpentone di vari chilometri, pure se scendevi a favore di corrente incontravi ostacoli e golene infide, rigiri, risucchi e cambiamenti di velocità e direzione della portata, legna vagante, pescioni grossi che ti solleticavano i piedi e il culo, un insieme di cose che mettevano in difficoltà chiunque, esperti e non. Motivo per cui di annegati, ad ogni stagione, se ne contavano tanti, per non dire degli aspiranti suicidi che si buttavano giù dai ponti. E ciononostante, i giornali reclamizzavano le gare alle quali iscriversi versando una o due lire, e magari ricevere medaglie d’oro e d’argento, coppe e targhe, diplomi e oggetti di valore. Ignacio, una volta, si portò a casa un cronometro da taschino Hausmann. Io fondai con mio fratello l’Urbe et Farfa l’inverno successivo alla chiacchierata al Faraglia col Puntale; prima di quel momento, ci si era visti occasionalmente come frequentatori della Società della Pippa Nera, di cui ti dirò a breve.

Nel Farfa entrarono i miei grandi amici Corrado e Filiberto Corelli, figli d’un pittore e residenti ai Prati, il rari nantes Ugo Monarchi, studente al Da Vinci e che abitava a piazza della Libertà, mi pare che la sua famiglia ci avesse un caffé in via Umbria, più altri che d’estate si riunivano sotto il nome "Tribù della Tintarella". Ricordo che la sede farfense la ponemmo in una cantina a piazza dell’Albero Bello, uno slargo a ridosso del fiume poco sopra piazza del Popolo, al quale si accedeva scendendo dieci gradini di pietra. L’arredamento ce l’inventammo con mobili e sedie mezze sfondate, rubate dai solai delle nostre case; l’unico lusso era una guida di stoffa rossa che fregammo dall’androne del palazzo dove abitava la mia famiglia. Mio padre Manuel era un avvocato con vari incarichi diplomatici, tra i quali spiccava quello di console del Perù presso la Santa Sede. Non che fossimo cattolici praticanti, io e Ignacio, tutt’altro: con i preti si combinavano solo affari. Neanche Giggi era un fedele che andava in chiesa a battersi il petto la domenica e le feste comandate, e se credeva in Dio era un essere luminoso con la stella a cinque punte in fronte che aveva a che fare con la massoneria e la Patria. Epperò, per motivi suoi di convenienza e amicizie, s’era tesserato alla "Cristiana", la società degli americani di culto evangelico che aveva la palestra in via della Consulta, vicino al Quirinale.

– Sei assolutamente sicuro che la "Lazio" non fu la prima società del Fondatore Primo?

Yessir, sicurissimo. Sicherlich! Prese la tessera di almeno un altro paio di club sportivi, avanti di fondare la Podistica. Per poche ore soltanto, fu socio della Romana di Nuoto del cavalier Cesare Gismani, altro sodalizio dove si preferiva la stella alla croce e che aveva la sede al lungotevere in Augusta. La ACDG, invece, era un prodotto della Young Men Christian Association, istituzione popolare nel mondo di lingua inglese e razza bianca. C’è di bello che quelli dell’YMCA, che seguivano il rito scozzese, mettevano a disposizione spazi e attrezzature per la ginnastica di primordine, e non chiedevano molto se non che ti ficcassi nelle tasche i giornaletti che spargevano nelle loro sedi tappezzate di ritratti di personaggi degli Stati Uniti d’America. A Roma, in quei giorni, alla Consulta si poteva ammirare la meglio gioventù infervorata per lo sport. Quella con i bicipiti che esplodevano dalle canotte a righe e che, col bel tempo, si esercitava sul marciapiede all’ingresso della Cristiana. Tra loro la chiamavano "la società del triangolo", per via dello stemma col triangolo rosso in campo bianco e blu: i colori della "flag", hai capito?

– Sono edotto sugli USA, la potenza militare ed economica egemone dei secoli XX e XXI. Continua, per favore.

Seguro, tu sai tante cose, Bobo. Beh, per farla corta, la prima soddisfazione il Puntale se la levò non grazie al nuoto ma a delle feste sportive allestite da chi governava. Le ambientarono a Villa Pamphili, per l’esattezza il nuoto giù al laghetto del Giglio, dirimpetto a via di Donna Olimpia, e il resto sul pratone soprastante il casino del Bel Respiro. Quella parte della villa, all’epoca chiusa al pubblico, venne concessa dal principe Alfonso Doria Pamphili Landi, famoso cazador de zorros. Se non sbaglio, si stava alla metà di maggio del ‘99. C’era come ospite la regina consorte Margherita di Savoia, spettatrice in tribuna con le sue dame di compagnia, fiore in mezzo ai fiori, e Giggi sbaragliò la concorrenza nel Campionato del Lazio di velocità sui centoventi metri piani. Ho ancora negli occhi la sua gioia, agile di membra e splendido nella maglietta bianca attillata a girocollo della Cristiana, mentre sventolava sotto il naso degli amici venuti a sostenerlo la medaglia vermeille. Quel tondino d’argento dorato rivelava agli sguardi un decoro strano: il disegno a sbalzo d’un giovinetto a torso nudo che camminava tra spighe di grano, con un’aquila alla base. Forse un presagio... a questo genere di cose ci ho sempre creduto.

Quella vittoria abbastanza clamorosa rialzò la fiducia al Puntale e gli funzionò da scivolo verso la rottura col nuoto, dove veniva regolarmente battuto da tipi abbronzati con un torace il doppio del suo. Alcuni erano burini fatti e rifiniti, tipo i fratelli Crucianelli, e altri "romani de Roma" di prima o settima generazione, ma tutti affamati di gloria. Di mestiere scalpellini, aiuto-tipografi, pittori, contadini, commessi, lampisti delle ferrovie, spazzini, studenti liceali, e c’era pure un "maccaronaro" che gestiva al Pantheon un negozio di pasta fresca, Aurelio Palombini, anche lui della Cristiana e molto amico del Puntale. Ad un dato momento, Giggi da mio fratello era passato ad accompagnarsi negli allenamenti con Leonardo Forlivesi, un ventenne ex promessa della Romana. Ma ai campionati nazionali di nuoto, organizzati nell’estate del 1898 sul lago di Bracciano ad Anguillara dalla Rari Nantes Sabatia, s’era dovuto ritirare, poco abituato alle onde alte sotto il vento di tramontana; un altro po’ e affogava! Il Gigio era sì un nuotatore coraggioso e resistente, uno che non rinunciava ai brevetti invernali e a qualsiasi sfida, ma non era nato pesce. Era del segno zodiacale del leone.

– C’erano già società che si interessavano al podismo a Roma, prima della Lazio? Le Cronicles non sono esaurienti su questo punto...

LA STORIA DELLA CACCIA AL LEOPARDO

– Boh! E che ne so io? Mica le ho lette, le tue Cronicles. Quando lasciai Roma per tentare l’avventura nel Katanga, in cerca d’oro e diamanti e dell’avorio degli elefanti, mi vantavo con belgi, tedeschi e inglesi di avere fatto un bel po’ di "pedestrianism". Tu non lo sai che sono stato uno dei più bravi hunters di professione? Non ci sta nelle tue malditas noticias? Eppure glielo raccontavo, ai due fratelli Corelli. Il mestiere di cacciatore divenne la mia fonte di reddito allorché mi spostai nel Botswana, un protettorato del South Africa, e viaggiavo sui trentacinque. Bella zona quella, perché vi scorreva il Crocodile River e vi abitava in modo stanziale una tribù di simpatici Bantu, tra cui i familiari del mio huntsman, Bamboo. La ditta comprendeva, oltre al sottoscritto e a Bamboo, anche Jan e Friederich, il primo boero e il secondo tedesco della Sauerland: due avventurieri tosti al pari mio. La tribù Tswana di Bamboo aveva il villaggio giusto alla confluenza del Crocodile col Limpopo, uno dei grandi fiumi dell’Africa australe che arrivavano di traverso dal Mozambico portoghese; i negri lo chiamavano "Matoppo".

Dovevamo, ad ogni luna nuova, riportare al villaggio un certo numero di pelli di "nkwe", il leopardo. Tra gli Tswana erano in diversi i cacciatori che si chiamavano con quel nome, per indicare il coraggio. Laggiù, sui promontori a nord del Bechuanaland, la natura era splendida e selvaggia, le colline ricoperte di bush, la boscaglia che dava da mangiare agli erbivori, quindi un posto perfetto per fare le poste ai leopardi. Devi sapere, tonto, che i leopardi sono sospettosi, e anche solo un minimo errore rende inutili le poste meglio progettate. Diverso è il caso con i "simba", i leoni, notoriamente stupidi. Ma con gli "nkwe" no, occorre curare i minimi dettagli. Un giorno, io e i miei tre amici ci eravamo accampati vicino a un ruscello che formava una larga pozza. Notammo così le orme di vari animali che scendevano a bere la notte. Non ci fu difficile distinguere anche le zampate dei leopardi. Ne vedemmo chiaramente di due dimensioni, probabilmente una coppia maschio e femmina venuti la notte precedente. Decisi allora di fare personalmente la posta la notte successiva. Il punto esatto dove piantare lo "sckerm", il capanno di frasche per nascondersi, e quello dove piazzare la preda viva o morta, richiede una scelta ben ponderata: bisogna conoscere le abitudini dell'animale che si caccia.

Il leopardo è uno dei felini più scaltri ed è intelligentissimo a paragone di bufali e degli erbivori in genere, elefanti esclusi. Prima di decidersi a un’impresa, valuta bene il pro e il contro. A differenza del leone, che non ha quasi nulla da temere, oltre al "bwana" bianco deve aver paura anche del negro che sempre gli tende le trappole, e deve fuggire davanti al bufalo perché è troppo forte; può perfino perdere la battaglia con le più grosse antilopi, tipo il wildbeast o l'orige. Per tali ragioni, il leopardo è circospetto e ci va cauto. I leoni che mangiano di notte, specialmente se sono un clan di cinque o sei adulti, alzano un baccano del diavolo che si ode a chilometri di distanza. Li ho sentiti varie volte, quando vivevo a Elisabethville nel Katanga. Il leopardo, invece, è silenzioso e, quando divora la preda abbattuta, se subodora un pericolo fugge e si appiatta in un cespuglio, per riuscire solo quando giudica che il pericolo sia passato. Ritornando alla mia posta, lo sckerm stava addosso a un folto cespuglio; anzi, per meglio dire, era lo stesso cespuglio che avevamo adattato a sckerm, tagliandolo da una parte ed accomodandolo con poche frasche. Il sito dell’agguato stava a un duecento yarde dalla pozza d’acqua di fiume, quasi sgombro d'alberi solo da una parte. In faccia allo sckerm vi erano altri cespugli, una piccola barriera più o meno a una cinquantina di yarde. Naturale che avevamo scelto il posto anche in considerazione di quegli alberi e cespugli. Infatti, il leopardo non affronta uno spazio libero di quaranta o cinquanta metri quando vuole sorprendere la preda; piuttosto, si avvicina sempre dalla parte coperta e gli ultimi quindici o venti li varca con uno o due salti portentosi.

Come esca sarebbe stata preferibile, e di molto, un lamb, un agnellino. Legato a un piolo di notte, quello bela perché si sente solo o perché gli vengono tirate le orecchie dal cacciatore. Io, però, quella volta non avevo il lamb, per cui utilizzammo un quarto di redbuck fresco. Del resto, lo sckerm stava sul sentiero che dovevano per forza percorrere i leopardi; motivo per cui, le due belve avrebbero dovuto transitare nelle vicinanze ed accorgersi della carne fresca. Il quarto di antilope lo stendemmo in bella vista a venticinque passi dallo sckerm e dall'ultimo cespuglio, giusto al centro dello spiazzo. Alle quattro del pomeriggio tutto era pronto. Coprimmo la carne, altrimenti il sole l'avrebbe rinseccolita. Quel giorno l’astro non sarebbe calato prima delle sette, così che ci sdraiammo comodi a terra in attesa delle sei, ora in cui i miei compagni mi avrebbero abbandonato per tornare all'accampamento. Debbo confessare che in quelle due ore mi fu impossibile conservare la calma che esibivano i miei nordici colleghi. Naturalmente, discorremmo parecchio di big game hunting. Jan e Friederich, entrambi con alle spalle più carriera di me, che pure non ero un greenhorn, rammentavano vecchi episodi e ci ridevano sopra, sorseggiando con gusto dalle loro fiaschette di gin. Io avevo uno stato d’animo ben diverso: quello del gladiatore che sta per entrare nell’arena. Ogni tanto guardavo l'orologio, sembrandomi ormai le sei, e invece il tempo non passava mai. Così che mi alzai per esaminare lo spiazzale fino agli ultimi cespugli all’ingiro. Entrai nello sckerm per osservare dal di dentro la situazione e mirare in tutte le direzioni con la mia carabina: ogni cosa era ok.

Allora, mi venne in mente di ricontrollare sia l’arma che le cartucce. Presi in mano il potente Express 450-577, l'aprii e lo richiusi varie volte, non avrebbe dovuto assolutamente fare cilecca. Inserii nelle camere le dieci cartucce Kynock cariche di cordite, siluri lunghi dieci centimetri. Le cartucce di metallo entravano ed uscivano perfettamente. Ne lasciai due nelle camere e le altre otto le ributtai in tasca, quella destra grande del giubbetto, e visto che c’ero provai se mi venivano facili alla mano. Controllai il revolver che avevo per le emergenze, un pesante Webley 455, tipo militare inglese che aveva fatto la campagna del West Africa. Mi riavvicinai a Jan e Friederich che, sdraiati sui gomiti come due studenti di Cambridge prima della gara di canottaggio, continuavano sereni la loro conversazione in un olandese farcito di swahili. Finalmente, come Dio volle, vennero le sei. Fui io che li avvertii, poiché quella loro apatia e l'aspettazione snervante non mi andavano più a genio: sentivo il bisogno di portare un cambiamento qualsiasi alla situazione. Loro si alzarono e mi dissero poche e svelte frasi, le ultime raccomandazioni di rito, assicurando che si sarebbero rifatti vivi all'alba. Per ultimo, mi diedero il "good luck boy" e si allontanarono seguitando a discorrere. Io restai solo quando il sole stava per scomparire all’orizzonte. All’improvviso, mi sentivo stranamente su di giri. Poteva non essere un buon segno: dicono gli scozzesi che un certo stato di esaltata felicità venga sempre prima di un disastro.

Non che fossi a digiuno di esperienza, con i lepoardi. Ne avevo fatte parecchie di poste in Katanga. Ma è vero che, pure coloro che hanno ucciso decine di leopardi e leoni, vengono assaliti dallo stesso nervosismo, quello così ben descritto da Hemingway nei suoi racconti, e che non deriva da paura ma dalla tensione nell'incertezza di quello che avverrà. Perché, in fondo, c’è la tua stessa pellaccia in gioco. Partiti Jan e Friedy, col bravo Bamboo a fargli compagnia, mi sentii immediatamente sollevato, come ho detto: close to Heaven, even. La luce diminuiva rapidamente, già non scorgevo più le frasche e il pezzo di antilope sotto, e tuttavia avevo davanti a me lunghe ore di attesa, perciò mi sdraiai nuovamente in terra, assorto in pensieri. Tornai con la mente alla famiglia lontana, a papà Manuel e mamma Maria e a Luis Ignacio, ai tanti amici lasciati indietro e, per successione di idee, alle cacciate di anatre nelle paludi con i fratelli Corrado e Filiberto Corelli. Tanto che, rivivendo quei tempi che appartenevano a un me stesso completamente diverso, potevo illudermi di stare in una macchia di Maccarese. E invece stavo cacciando leopardi in pieno bush africano! La luce era ormai solo un ricordo, a quelle latitudini la successione dalla notte al giorno è una questione che si sbriga rapida. Così, finalmente, ero immerso nelle tenebre, solo con me stesso. Lo sckerm, e tutti i cespugli e gli alberi che mi circondavano nell'oscurità, pareva avessero mutato totalmente di forma e volume. Io me ne stavo sdraiato sul terreno rossiccio e sabbioso, oramai freddo, osservando il cielo ancora listato di chiaro, quando il ronzio di un coleottero, in volo vicino all’orecchio, mi fece trasalire.

Il ronzio del coleottero alla posta è quasi il segnale dell'avvicinarsi del momento buono. Motivo per cui mi scosse i nervi quanto un avvenimento di molto maggiore impatto. Mi rialzai e camminai inquieto in lungo e in largo davanti allo sckerm, coll'Express piegato a boomerang sotto il braccio. La nottata era calma e tiepida. L’Africa australe, un sillabario illustrato tutto da scoprire. Infine, rientrai e mi coricai, protetto dalla coperta di cotone grezzo misto a lana che mi aveva dato Bamboo. Stetti così un bel pezzo, accoccolato e in silenzio, distratto dai primi rumori bestiali che preludevano all’inizio della tragedia: la lotta per la sopravvivenza che caratterizza ogni calda notte dell’ispettore Tibbs e anche ogni notte africana. Credo che trascorsero così un paio d'ore, ma poi mi rialzai e, con la coperta buttata sulle spalle come un gringo alla Clint Eastwood, uscii fuori per sedermi più comodamente. Lo spettacolo delle stelle e della falce di luna, che stava incrociando la Croce del Sud, era meraviglioso. Si vedeva abbastanza distintamente a cento passi. C’era poi il mormorio formidabile che usciva dal bush-velt: una cacofonia di suoni indecifrabili, interrotta da grida di scimmia e di uccello. Io, come in estasi a quell’incommensurabile bellezza della natura selvaggia, me ne stavo immobile sotto il firmamento, trasalendo ai leggeri aliti di vento che muovevano i cespugli e le foglie degli alberi.

Sopraggiunsero così le undici di notte. Rientrai nel riparo e, con la carabina sempre al fianco, mi posi in osservazione. Sporsi fuori l’Express dai buchi dello sckerm e mirai in varie direzioni. Le mani non tremavano. Il nervosismo e l’esaltazione dell’attesa erano svaniti, cedendo il posto a una calma fredda. Per spiegare un tale fenomeno a te Bobo che, opino, non hai mai partecipato a una battuta di caccia grossa nell’Africa del ventesimo secolo, dirò che si tratta solo di una questione di fiducia nelle proprie abilità. Altrimenti, è automatico che te la fai nelle mutande. Io ero entrato nella fase "killing", non facendo presa su di me la malattia degli esploratori chiamata "wilderness sickness". Molti cacciatori abitudinari non sono adatti per la posta alle fiere, pure se scelti fra i più provetti e coraggiosi. La solitudine dell’attesa li abbatte: occorre avere la tempra giusta per sopportare uno stress simile. Il quarto di antilope lo scorgevo ancora benissimo, come avrei visto anche un animale della mole di un gatto. Non temevo di non distinguere bene il leopardo, non difficile da uccidere se il cacciatore ha il polso fermo. Infatti, il leopardo presenta, avventandosi sulla preda, il petto bianco che forma un eccellente target. Però, è fuor di dubbio che, se il primo sparo non ferisce mortalmente, di rado si ha la possibilità di sparare altre volte, e se si ha il tempo per farlo è quasi sempre infruttuosamente.

Se il primo tiro è bene assestato, ogni problema è risolto, l’hunter esperto vede subito dove è andato a bersaglio. Se è sicuro di avere colpito nella parte bianca, può pure mettere da parte la carabina e dormire. La mattina dopo, troverà il leopardo morto stecchito sull'esca o in un raggio di duecento metri al massimo. Se, però, la palla ha colpito la spalla, il dorso o una delle due zampe posteriori, allora la faccenda si fa seria. Il cacciatore deve vegliare con la carabina in pugno per difendersi da un eventuale assalto della belva furiosa. Nel malaugurato caso che l'assalto avvenga immediatamente dopo l’unico tiro, beh, ecco perché avevo con me la grossa rivoltella e un coltello militare appesi alla cintura dei pantaloni! Nell’inevitabile corpo a corpo, la preferenza l’avrei data al coltello anziché al revolver. Questo perché un uomo robusto, e io lo ero con i miei ottanta chili, mentre col leone non ha nessuna probabilità di successo in una sessione sportiva di catch, col leopardo ne ha molte, più di vittoria che di sconfitta. Così, trascorse un'altra ora all’incirca. Lente currite noctis equi, come fa dire Marlowe a Faust. Non guardai l'orologio per non posare la carabina, ma indovinai che doveva essere oramai la mezzanotte passata da un pezzo.

Il boero e il tedesco mi avevano avvertito: "Pay attention between 11 and 2 o'clock", con questo intendendo che la visita di cortesia sarebbe avvenuta in quel lasso di tempo preciso. Stavo così rimuginando allorché udii un fruscio dalla parte dell’esca. Strinsi forte l’Express, passai la mano sinistra sugli occhi per strofinare via il sudore che mi dava noia e, col cuore che batteva pazzamente, attesi altri secondi. Ma scorsi solo le silhouette di animali della grossezza di un piccolo terrier, che avanzavano cauti. Gli occhi, lucentissimi come lanterne, mi fecero riconoscere due springhaas, specie di roditori a mezza strada tra un canguro e uno scoiattolo. Emersi dallo sckerm e alzai le braccia, agitandole come banderuole senza emettere alcun suono con le labbra. I due animaletti fuggirono a precipizio nei cespugli. Più tardi, avvertii il movimento nascosto di un altro animale ignoto. Anche un bell bird, le penne bianco e ruggine con i lunghi bargigli spioventi, fece sentire i rintocchi della sua voce possente. Colpi di campana che, sperai, non fossero il preannuncio della mia sepoltura. Era l’una e qualche minuto quando udii, ancora lontano, il miagolio dolce e inconfondibile del leopardo, seguito da un altro urlo più aspro: era la coppia in arrivo sulla scena.

Un brivido mi percorse da capo a piedi. Non si attende una belva per un’intera notte senza provare un flusso al cuore al momento di vederla. I due felini dovevano essere a un mezzo miglio da me, ma tale distanza può essere varcata in poche decine di secondi. La mia prima posta solitaria nel Bechuanaland era giunta al count-down. E fortunatamente sapevo cosa fare. Qualche volta succede che, all'ultimo istante, l'animale si avveda del tranello e si ponga fuori tiro per il cacciatore. Quando ciò accade, si prova un terribile dolore, una delusione così forte che incrina forza e volontà. Ma non fu quello il caso. Udii un altro urlo, questa volta più vicino e soffocato, probabilmente la femmina. Non vi era più dubbio che i due venivano dritti verso l'acqua. Io stavo con le orecchie tese, la carabina spianata, il dito della mano destra contratto sul grilletto, i sensi acuiti al massimo grado. Sopravvenne allora un fenomeno strano, al quale ero comunque avvezzo: mi parve di vedere e di sentire meglio. Udivo i palpiti isocroni del cuore, il respiro del naso che, forse per l’umidità notturna, mi parve troppo rumoroso. Aprii allora la bocca e respirai a lunghi intervalli, per calmarmi un po’. Nel frattempo, i leopardi, che nella mia mente avevo battezzato Micio e Micia, non avevano emesso più un solo suono, si erano accorti della carne insanguinata e dovevano essere vicinissimi.

Caro Bobo, non ti so dire quanti secoli si mossero sotto la volta stellata in quegli attimi spasmodici. Mi parve un tempo insopportabilmente lungo, ma immagino fossero i classici quattro o cinque secondi. All’improvviso, scorsi una massa scura balzare dall'ultimo cespuglio della barriera senza provocare il minimo rumore, come un'enorme palla da football rilanciata con le mani da un goalkeeper; i balzi furono due, così rapidi che non potei discernere nulla. La palla si fermò sul quarto di antilope e riconobbi un bel leopardo maschio sui cinquanta chili. Quello stette immobile come una statua, le zampe anteriori poggiate sulla carne in atto di possesso, come usano anche i nostri cani, le posteriori piegate e acquattate a terra, col petto e il ventre biancastri che si disegnavano nettamente sulla massa scura. Mi sembrò che fiutasse l’aria, chino e indeciso, inconsapevole che la canna del mio Express era diretta al suo petto luminoso. Il colpo risuonò formidabile, tanto che azzittì tutti all’intorno. Era la voce dell’Homo Sapiens che si faceva sentire. Al rintrono spaventoso, seguì un urlo fioco, rauco, e subito un altro acutissimo, lacerante. Poi più nulla. Non so per quanto rimasi fermo, la carabina artigliata convulsamente, il sudore che m’imperlava la fronte, l'occhio sul mirino che scrutava la semioscurità, pronto ad usare il colpo di sinistra.

Ma nulla si mosse, all'infuori della massa del leopardo colpito, che si arrestò a mezza strada fra la carne e i primi cespugli. Compresi che la bestia doveva essere stramazzata, ma nel frattempo avevo ricaricato l’arma: la compagna di Micio poteva essersene rimasta appiattata nei dintorni, desiderosa di vendetta. Non so perché, ma a questa cosa della vendetta non ci avevo pensato, in tutte le ore precedenti. Adesso, però, era chiara nella mia testa: Micia ci doveva essere rimasta molto male. Non osai, quindi, neanche dormire un solo minuto. Stetti vigile fino all'alba, benché fossi stanchissimo per le tante emozioni provate. Come Dio volle, verso oriente spuntarono le luci purpuree dell’aurora. Mi preparavo ad uscire dallo sckerm, quando un fischio sonoro e modulato, che ben conoscevo, mi annunciò la civiltà che si avvicinava. Erano Jan, Friedy e due giovani cafri amici di Bamboo, i migliori cacciatori della tribù. Sul terreno, ancora protetta dal manto dell’oscurità notturna, la figura colorata della belva riposava, a una decina di yarde dal punto dove l’avevo centrata. I due hunters mi guardarono sorridendo, quasi aspettassero una spiegazione e un racconto. Io rimasi in silenzio, cosa dovevo dire? Avevo ammazzato Micio... ecco tutto!

Già il rosa dell’alba seduceva la sabbia bruna, in una decina di minuti sarebbe stato giorno fatto. Ci avvicinammo tutti e cinque al leopardo. Era disteso di fianco, la testa un po’ più ritta rispetto al resto del corpo, la coda rigida come una lunga freccia che indicasse qualcosa. Dalle fauci era uscito sangue in abbondanza, che si era coagulato in una pozza che la terra non aveva ancora terminato di bere. Jan e Friederich osservavano con occhio clinico la carcassa sulla scena del crimine, simili a due scienziati forensi, mentre si scambiavano dotti pareri in olandese. Poi, il rosso boero si piegò verso di me (sfiorava i due metri) per dirmi in inglese: "Well, good shot!"; al che, il biondo tedesco soggiunse: "Easy job, Poncho". Forse per la prima volta, da che eravamo nel Bechuanaland, aveva usato il mio nickname. Ed infatti, dopo tutto era vero: per il vecchio Poncho non era stato difficile uccidere quella bellezza. Riprendemmo la strada verso l'accampamento, il leopardo legato per le zampe a un bastone portato dai cafri. Il resto della mattina, dormii un sonno senza sogni. No, mi correggo, uno me lo ricordo: stavo sdraiato sul tappeto persiano nel salotto della casa paterna, a Roma. Davanti a me, mollemente adagiati sul divano di raso azzurro, Micio e Micia, luminosi come fantasmi di vetro istoriato, mi sorridevano amabilmente, mostrando la lingua rosa e le zanne bianchissime. Gli occhi verdi e scintillanti come smeraldi.

– Un racconto curioso quanto inatteso, RV12SM-701. Piacerà a Jo-el, il Primo Criminologo. Sempre è stupafacente, per me, ascoltare le testimonianze delle vostre primitive capacità di guerrieri. Credo che per ora basti. I tuoi parametri fisiologici evidenziano un indebolimento generale. Riprenderemo tra dodici cicli, una settimana solare secondo i tuoi canoni.


ERA GALATTICA STANDARD 100,261. DATE: 021-10: SECONDA SESSIONE

LA BANDA

– RV12SM-701, è giunto il momento che tu mi dica di più riguardo alla nascita della "Lazio". Riferisci, in maniera circostanziata, sul manufatto chiamato Pippa Nera. Vuoi, per favore?

– Ah, allora sai anche questo? Beh, Il capanno Pippa Nera era un residuo di barcone ancorato a un pilone sotto ponte Regina Margherita, dalla parte dei Prati. Era abitato da un tizio amputato, Gamba-di-legno tutti lo chiamavamo. Girava la voce che avesse comperato la Lazzarona – questo il nome originale del battello – per quattro soldi da Toto Bigio, il navicellaio traghettatore a Ripetta dai tempi del papa-re. Ma poteva anche non essere vero. Ricordo che Tito Masini, l’intellettuale della Lazio, il relitto lo chiamava "arca di Noé in sedicesimo". Quel perticone lungo lungo, col viso da hidalgo e quasi un Don Quixote, leggeva molto ed esibiva una cultura classica sopra la media; ad esempio, mi raccontava, non so se scherzando, che Roma aveva preso il nome da una guerriera greca, una certa Rhome [6]. Comunque, Rome or Rhome, quando tirava la buriana, faceva freddo o diluviava, il Pippa Nera costituiva un bel punto di riferimento. Gamba funzionava da gestore e custode. L’attrezzo (il battello, non l’uomo, che comunque si presentava meglio di te) era stato risistemato da Arturo Balestrieri. Quello che tu, nello scritto guida che mi hai passato, definisci il Fondatore Secondo. Arturo era un classe 1874, quindi parecchio più grande della maggior parte di noi ragazzi. Diplomato ragioniere e con la casa a via Panisperna, nel rione Monti. Campava con uno stipendiuccio da tenente dei Cavalleggeri, che integrava aggiustando barche di modesto pesacaggio che poi rivendeva. Infatti, era un canottiere, socio del Club Aniene dove aveva visto all’opera un maestro d’ascia. "Er Piombo", lo chiamavamo noi della ghenga.

Soprannome nato dopo che Roberto Basilici, l’aspirante pittore figlio d’un ingegnere che gestiva un’immobiliare ai Prati e abitava in via Cavour, aveva scritto a vernice rossa a caratteri cubitali, sul bianco muraglione del porto Fluviale: "Cacciatori, non più padelle, adoperate piombo Balestrieri". Piccolo di statura e rosso di pelo, col torace ampio ma le gambe corte ed esili, Arturo era uno che non stava mai fermo: avrebbe finito per svolgere la professione di giornalista. Smise con quella specie di hobby del falegname navale nell’autunno del 1898, e con lui scomparve la Società Canottieri Nera, che in pratica era una ditta di riparazioni e mutuava il nome da un affluente del Tevere: esattamente come l’Urbe et Farfa. La Nera svanì e il nome rimase appiccicato al barcone e ai suoi frequentatori, col povero "zio Gamba" che serviva tutti. Non te l’ho ancora descritto, ma ne vale la pena. Gamba-di-legno era un barbuto di età indefinibile, piuttosto male in arnese e che mi pare si chiamasse Giovanni: "Giuvà!" Teneva una faccia che era una mappa geografica di rughe assortite, sulla guancia sinistra io ci vedevo l’Orsa Maggiore. Quando apriva bocca perché aveva qualcosa da dire, cosa che succedeva di rado, si esprimeva in un italiano sui generis con inflessioni burine. Mi pare non avesse una donna sua, o almeno ce la teneva nascosta. La sua mujer preferita era senz’altro la malinconia.

Stringeva sempre stretta nella mano una pipa di gesso, virata scura per il troppo uso, pure quella una "pippa nera". Ad un certo punto, qualcuno di noi si fece in casa un costume da bagno di tela bianca con una striscia nera di traverso: la schizzata resa funebre dalla lue, la malattia che beccavi facile se bazzicavi le case di malaffare giù alla Suburra. C’era un calduccio da favola nel barcone, che dava l’altolà all’umidità del fiume. Una lanterna ad olio di quelle di modello portuale, assicurata a una trave sopra l’unico tavolo, dava la sensazione di trovarti nella caverna di Aladino. Lo spazio poco, l’arredamento spartano, ci si stava in una dozzina al massimo. Ponte Margherita era il parcheggio perfetto per un pub da niente come il Pippa Nera. In quegli anni, il ponte funzionava da collettore della sporting life a basso prezzo. Un’esistenza che, fuori del lavoro, andava oltre le solite bocciate all’osteria con la morra, il vino dei Castelli e, a primavera e in autunno, fuori Santa Maria Maggiore e alla Piramide, i classici giochi della ruzzola e del tamburello. Lo sport era un bricolage di avventure che la gente, escluse le fasce dei ricchi e dei nobili, stava scoprendo per la prima volta. Interamente del popolo, fatto su misura per noi della new generation, e che si riassumeva in poche discipline: il nuoto libero in acque dolci; il ciclismo con le bici di marca francese o inglese a ruote piccole e gommate, che avevano tolto di mezzo gli scomodi bicicli; la ginnastica, la pesistica e la lotta a terra, greco-romana o libera che fosse, e, ultimo arrivato, il podismo. La lotta era una pratica non per tutti: rimediavi graffi e contusioni e spendevi soldi in pomate, lenimenti, garze e cerotti Bertelli; c’erano pure gli ingaggi per spettacoli nei teatri, se possedevi la stoffa del campione.

Ricordo di avere ammirato una volta, all’Apollo, Giovanni Raicevich, un triestino alto come me che aveva la pelle bianca e glabra e un buffo nasetto a patata, ma che strozzava con le sue "cravatte" giganti slavi della Serbia e negri delle colonie francesi. Lo vidi nel 1911, l’anno in cui la terza edizione del Giro d’Italia routier partì da Porta Pia invece che da Milano, per celebrare i cinquant’anni dell’unità del Paese. Il ciclismo su strada e il podismo stavano giusto iniziando a Roma, quando nacque la Lazio. Sarebbero divenuti due passatempi molto amati. Con la differenza che il primo, se lo facevi su pista nei velodromi col totalizzatore, ti dava bei quattrini, e il secondo molti di meno, sempre che non fossi un Dorando. [7] Il trucido covo Pippa Nera non era l’unico ritrovo marinaresco. Di tutt’altra fattura erano gli chalet della Canottieri del Tevere, della Romana di Nuoto e della Canottieri Aniene, allineati tra i ponti Cavour e Margherita. Epperò, lassù a nord, nell’area prospiciente piazza del Popolo in riva mancina e piazza della Libertà con i Prati di Castello in riva destra, il barcone a capanna mezzo sgangherato si notava. Tanto più che, sull’altra sponda duecento metri a scendere, t’imbattevi nei Bagni Talacchi, istituzione memorabile davvero, gestita da una famiglia di negozianti di Ripetta nei settori pizzicheria, cucina, pollami e carni. D’estate, i Bagni facevano il pieno di folla.

Una pipinara vogliosa di baldorie si assiepava nelle capanne edificate su palafitte e che avevano a traffic policeman un bagnino ex carabiniere, Carabusone, e come capo indiscusso Nino "er fijo der Dragone". Nino Talacchi era un giovane Ercole bruno che stava alla cassa e che, se protestavi per qualcosa, come risposta brandiva una nodosa clava; oltre tutto, era un lottatore imbattibile e un buon nuotatore sulle distanze lunghe; uno che, se solo avesse voluto, con un po’ di allenamento avrebbe dato filo da torcere all’Altieri. Una volta, ero presente, scivolò sul legno bagnato e finì lungo disteso a pelle di leone. Il poeta e letterato Domenico Gnoli, che per un caso aveva assistito alla scena, disse all’impronta, citando Byron: "I see before me the gladiator lie...". Nino fu uno di quelli che funzionò da mecenate e protettore per la Lazio degli esordi. Non so se prese mai la tessera, ma lo si poteva dire un SPL ad honorem. Parlava poco, a noi della ghenga dava consigli e appoggi nel campo dei lavoretti che si potevano svolgere per rimediare la giornata. Considera che noi Pippanera eravamo una masnada di minorenni appena un gradino sopra il genere dei bulli trasteverini. Per darti un’idea, organizzavamo raid ai frutteti e, per scommessa, calcavamo i berretti a visiera degli ufficiali militari, e di più non si poteva altrimenti ci avrebbero rincorso con la sciabola sfoderata. Un altro eroismo consisteva nello spaccare i lampioni a gas con lanci parabolici di pietre.

Il top era quando si catturavano i gatti randagi, li si legava per le zampe a un travicello per farne dono ai caporioni della banda; dopo di che, decidevamo come cucinarla, la bestiola squisita, se al forno con le patate oppure a pezzi in padella fritta nell’olio bollente: era il nostro "coniglio". Mi sfuggono tutti i nomi, cognomi e soprannomi, o meglio, sono mescolati alla rinfusa nella mia testa come un Pisco sour [8], ma non mancavano i nuotatori eccellenti. Penso a Romeo Tofani, per esempio. Alcuni facevano parte di un gruppo di zuzzurelloni assai più ampio e variegato per età: la Tribù dei Pellirosse. I Pellirosse, rispetto ai Pippanera, erano come l’università paragonata ai collegi: un tipo di fiumarolo rotto a tutte le esperienze. Non so come la cosa prese piede, chi ne fu il vero istigatore, ma è certo che scopiazzavano la società degli indiani americani di Buffalo Bill. La stagione cominciava a luglio, con la discesa in "piroga", dalle plaghe settentrionali, di Pompa-Pak, un ricco possidente di Vetralla. E forse fu lui l’alfa. Pompa esibiva un fisico da culturista, alto e pelato con una faccia squadrata e crudele da vichingo, i baffoni biondi alla tartara, gli occhi azzurro-iceberg, abbinati a una smorfia sardonica, tipo il brigante Gasbarrone. In autunno, dava la caccia ai cinghiali sui Monti Cimini; d’estate, s’era inventato la sarabanda sul fiume urbano, per bruciare da tutti e due i lati la candela della sua gioventù. Io, Mario Nelli, i Corelli, Lallo Ruggeri, Felice Tonetti, Angelo Mazzolani e vari altri ne abbiamo combinate di cotte e di crude travestiti da pellirosse, con le ditate di limo sulla faccia, le penne d’oca tra i capelli e tutto il resto.

Vuoi qualche storia, Bobo? Vuoi che ti dica dei pranzi galleggianti consumati sotto i ponti e delle agapi alla spiaggia dei Polverini, con i calumet della pace e le sbronze di bevanda sacra kian-ty? Oppure ti potrei portare dentro le danze rituali dei froci, creature care a Manitù, che allietavano le ore della tribù; bene accetti pure loro e per niente discriminati, come è giusto che sia tra selvaggi alla Rousseau. Ma lo sai che mi ricordo molti più nomi e situazioni dell’ultima volta? Mi hai fatto qualcosa di speciale, sì? Ammettilo, dai!

– Durante la stasi che segue ogni sessione, sottoponiamo il tuo cervello all’azione dello Mnemositron. Il programma implementa una ricarica sinaptica che migliora le capacità cognitive e libera i banchi mnemonici, oltre a drenare e ricondurre le cariche ormonali in eccesso. Tu non hai idea di quanto aggrovigliata sia la situazione nella tua testa, RV12SM-701. Ora, per favore, continua senza imboccare vie laterali, che ci condurrebbero lungi dalla strada maestra. Rammenta il target che abbiamo individuato di comune accordo: svelare i primi anni della "Lazio". Per esempio, il Fondatore Primo che rapporti intratteneva con voi della gang?

– Hai intuito giusto, Bobo. In teoria, lui con noi c’entrava poco o nulla. Il Puntale era uno serio che amava l’ordine e la precisione, moralmente irreprensibile e che evitava come la peste gli atti teppistici. Scherzava e faceva comunella, sì, ma nei limiti, e quasi solo su questioni di sport; su quel tema in particolare, si mostrava affabile e disponibile. Inoltre, era uno a cui piaceva cooperare nell’organizzazione delle competizioni. Ad un certo punto, s’era messo a disposizione dei rari nantes come ispettore di gara. L’inversione a U dal nuoto al podismo occorse dopo la vittoria a Villa Pamphili e dopo che, a luglio del 1899, non concluse una gara a Nemi. Quindi io accompagnai Luis Ignacio al Campionato Rari Nantes dell’Italia Centrale, ad Anguillara. Ma lui arrivò solamente sesto. Nonostante la mezza delusione, in pieno agosto in rotaia salimmo fino a Como, nel nord-ovest, dove gareggiò per il titolo tricolore. Ma pure lì gli andò male, perché era resistente ma non veloce, e la gara si svolgeva sul miglio. Giunse tra i primi in una seconda prova di resistenza, sempre sul lago di Como. Conoscemmo così i campioni di Genova, Milano e Torino, preparati ma non insuperabili. Non essendo un tesserato rari nantes, Giggi non si aggregò e rimase a Roma. Si propose allora di fondare una società sua, la "Liberi Nantes". Liberi dalle pastoie in stile Schwimmen-Klub imposte dal capoccia della Rari Nantes, Achille Michelangiolo Santoni, che non consentivano di dichiararti alle gare con un club diverso dal tuo. Per volontà del presidente, l’ingegnere Adolfo Pouchain, i rari nantes avevano appena inaugurato uno chalet a due piani, un chilometro a valle dell’idrometro dell’Albero Bello.

Un’autentica schiccheria, quel posto, in legno e mattoni, progettato dal consigliere Ciccio Sebastiani, con la scaletta che scendeva fino a un pontile attrezzato per le barche. Di stendardi che garrivano sul pennone ce n’erano tre o quattro: pure uno rosa dedicato alle donne! L’archivio stava in una stanza apposita, belli in ordine in un cassettone i registri delle nuotate dei soci che Santoni, con maniacale precisione, compilava annotando i parametri del cielo, dell’aria e dell’acqua. Su una lavagnetta per regolamento dovevi scrivere col gessetto la nuotata del giorno e quelle della settimana, complete di tutte le informazioni. C’era anche un terrazzo col pergolato, buono per crogiolarsi al sole e spizzicare qualcosa all’ombra. La Rari Nantes Roma contava una trentina di soci, tra cui Luis Ignacio e il sottoscritto "in prova". Santoni, quando sorse la Podistica, stava giusto arrivando a dama con la fondazione della FIRN, la Federazione, e s’interessava alla diffusione in città del waterpolo, mostrato da alcuni tedeschi alla piscina dei Bagni Diana a Milano. Ti parlo tanto del movimento rari nantes perché influenzò la Lazio dei primi tempi. L’organizzazione prevedeva che ogni società affiliata dovesse confezionare uno slip con i colori suoi, seguendo l’ultima moda dei nuotatori agonisti all’estero. Noi romani la mutandina ce l’avevamo azzurra con la striscia bianca. I milanesi bianca e rossa, i genovesi vermiglia, i pisani rossa e la striscia bianca, i rari nantes della Sabatia bianca e celeste, quelli di Genzano rossa e arancio. Albano optò per il biancoverde, Bracciano bianca e la striscia nera.

Blimey! Questi dettagli non sugherellavano dal profondo da una vita! Comunque, senza saperlo Bigiarelli scelse per i suoi liberi nantes i colori dei braccianesi, differenziandosi lo slip solo per un "LN" a lettere d’oro sul lato sinistro. Per i Pippanera che intesero aderire, non molti, fu sufficiente ricamare il monogramma per sentirisi parte di una nuova società. Corpo d’una balena!, quante cose mi tornano in mente! Che chimiche mi somministrate, mentre dormo? Non è che poi dimenticherò tutto di nuovo? Dime la verdad, tu que vienes del planeta rojo.

– Tranquillo, RV12SM-701. La prossima sessione ricorderai il doppio e la memoria resterà ottima anche quando il processo di rivivificazione sarà ultimato. Parlami ancora di Luigi Bigiarelli, per favore.

PRELUDIO

– Come no? E che sto facendo?! Il Puntale possedeva i due brevetti rari nantes di "nuotatore senior" e "nuotatore invernale". Si svolgevano tantissime gare nel Tevere e nei laghi, e Giggi, a occhio e croce, le ha fatte tutte. L’unica che evitò fu la più tosta, la Castel Giubileo, col via sotto l’arcata dell’omonimo ponte a una decina di miglia dalla cinta daziaria, ben oltre i ponti Nomentano e Salario. Dopo Castel Giubileo, c’era solo il ponte del Grillo a Monterotondo, a circa trenta miglia a nord-est di piazza del Popolo. Da lassù partì Cencio Altieri, per il suo record di sette ore e cinquantacinque minuti. E poi non ti ho detto della gara più attesa, la Traversata di Roma. Alla prima edizione, quella del 1906, fui io a dare il via abbassando la bandierina da un pilastrino di ponte Margherita. Sotto dieci ponti si transitava, e non puoi capire la gente: l’atmosfera era tale che pareva la città intera si fosse data appuntamento sul fiume. Quella volta vinse Retacchi, il malandrino di Ponte figlio d’un beccaio, e che sarebbe morto di lì a poco di mal sottile. Nando, in lotta col Cencio, azzeccò la scelta all’Isola di San Bartolomeo, cioè piegò a destra, dove la nuotata era più difficile per il fondale basso, epperò la corrente veloce.

– Fammi capire RV12SM-701. Bigiarelli, quattro mesi prima di fondare la Società Podistica Lazio, aveva dato vita a un sodalizio natatorio a Terminus-M? E come mai durò poco? Voi della RNR non l’aiutaste nell’impresa?

Oh, querido tonto... fummo proprio noi a mettergli il bastone tra le ruote! Non io personalmente o mio fratello, sia chiaro, ma quell’invidioso di Santoni. L’uomo mi pare avesse aspirazioni di scultore, ma soprattutto ci aveva i denari di famiglia. Abitava in un appartamento lussuoso vicino piazza Navona e i suoi erano proprietari di farmacie a Trento, in territorio austriaco. Lui era veramente un fanatico del nuoto: un "apostolo", come si diceva. Pensa che nei primi regolamenti, stilati nel 1891, aveva inserito l’obbligo di salvare chiunque si fosse trovato in procinto di annegare, pena l’espulsione. Il suo progetto era di ammazzare tutte le realtà natatorie che si rifiutassero di confluire nella federazione dei rari nantes. Capito questo, il Puntale, che d’indole era un democratico, buttò giù un regolamento per i liberi nantes abbastanza divergente da quello dei rari nantes. Ricordo che chiese il nostro parere, a me e al mio fratellone, allorché tornammo da Como, invitandoci ad entrare nel gruppo. Ma Ignacio era troppo legato ai rari nantes e alla loro organizzazione. Gareggiava con una girocollo tricolore con la scritta "Roma" in filo di seta nero, frequentava lo chalet e pagava puntualmente la tessera annuale. Giggi voleva partire da zero, farsi largo a spallate per conquistare un rango sul fiume. Voleva dare un senso a tutte quelle sue discese da ponte Mollo al nuovo porto Fluviale, com’era nominata l’area che si andava formando dalla progressione dei lavori ai muraglioni di Ripetta. Per la sede della SLN, s’era rivolto all’architetto Sebastiani e ad altri rari nantes, giacché c’era un casotto a disposizione, una discreta costruzione di proprieta del marchesino Venuti.

Ma quelli gli ritirarono l’appoggio, sospetto su consiglio di Santoni. Quando giunse l’autunno, diversi degli amici della Cristiana, cito Teodorico Boaselli ed Enrico Gualdi, Pizzingrili, Palombini, Altieri, i fratelli Giovagnoli, lo stesso Talacchi, si costituirono in una unit speciale di "nuotatori invernali". In pratica, s’impegnavano a compiere gite domenicali in bici fin oltre l’Acqua Acetosa, dove trovavano punti, sul Tevere e sull’Aniene, buoni per il nuoto nudista. Giggi non aderì, il nudismo gli garbava poco, la bicicletta anche meno, chiuse lì la militanza nella società del triangolo rosso. Un bel turning point pure questo. Come risposta all’iniziativa dei nuotatori della Cristiana, visto che in primavera non erano mancati gli allenamenti a ritmo sostenuto con altri entusiasti che, leggendo delle stars del pedestrianism, s’erano illusi di farne una professione, come risposta dicevo, che ti fa il Puntale? Dall’acqua vira alla terraferma, annunciando di voler fondare una "Società Podistica Romana". Giù alla Suburra esisteva un Club Pedestre Roma, diretto dal professor Romano Guerra del liceo ginnasio Visconti. Ecco, questo adesso me lo ricordo! Guerra si limitava a organizzare passeggiate per i ragazzi delle scuole e dei ricreatori, ma di attività podistica seria non ce n’era l’ombra, nella capitale del Regno. Al contrario, in Lombardia, in Liguria e in Piemonte di sodalizi podistici se ne contavano a decine. Assieme alla velocità pura e al mezzofondo, cioè le corse di mille o duemila metri, a Giggi venne in mente di cimentarsi nella "corsa cadenzata", come la chiamava colloquialmente, ossia la marcia.

Non la classica militare, ma un nuovo modo di marcia senza pesi addosso, spinta al massimo nella rotazione del bacino, con un logoramento dei tendini delle caviglie e dei legamenti delle ginocchia che non ti dico. Io la provai e lasciai perdere quasi subito. Camminavo svelto ma sotto il profilo della tecnica non marciavo. Il Puntale no: lui puntava bene il piede, sapeva soffrire e, forse, ci godeva nella sofferenza. A dire la storia tutta intera, ci fu un momento, a novembre del ‘99, in cui ripensò al club di nuoto, incoraggiato dalle adesioni che cominciavano a fioccare; il podismo sarebbe stato aggiunto come sezione, diceva convinto. Poi tramontarono definitivamente le speranze di avere in affitto a poco prezzo il casotto. C’era sì un galleggiantino più a valle del barcone, una pedana di legno di proprietà dei Talacchi dove i Pippanera si dilettavano con la pesca alla canna, epperò non andava bene per una società sportiva; così come assolutamente inadatta era l’Arca di Noé, col giaciglio del disgraziato Giuvà ricavato in un angolo. Mi querido amigo, di quei due mesi di gestazione della Podistica, novembre e dicembre del Novantanove, mi sugherellano cose importanti: la prima è l’allenamento di camminata veloce da Porta San Giovanni a Frascati che provammo la domenica del 19 novembre. Oltre a me e al Puntale, c’erano il Piombo e Ugo Novelli, uno studente figlio di un medico. Balestrieri aveva saputo della nascita a Milano di una società "Audax", che rilasciava brevetti ai marciatori sulle lunghe distanze.

Senza l’autorizzazione del professor Cesare Tifi, il capo della Ginnastica Roma delegato dall’Audax Podistico Italiano a operare nella Capitale, Arturo aveva costituito il suo "Audax Podistico Romano"; con lui, tra i fondatori, c’erano Enrico Venier e Giacomo Bigiarelli. Con in testa ‘sta novità dell’Audax, ci ripetemmo due settimane dopo su un percorso da Porta Portese a Fiumicino. Senza Balestrieri ma con i due Bigiarelli, Novelli, Guido Annibaldi, lo studente in Economia alla Regia Università, e Aurelio Bastianini, allievo stenografo alla Camera di Deputati e tesserato della Romana di Nuoto. Giggi si presentò all’appuntamento indossando dei pantaloni da ciclista che s’era fatto prestare dal marchesino Alex Venuti, giacché la volta precedente quelli militari gli avevano procurato un arrossamento all’inguine. A me e ad Annibaldi prestò due pantaloni da corsa neri di lana calda, tagliati al ginocchio. Ci aveva con sé il cronografo del Sebastiani, un cipollone con la cassa in oro, perché aveva letto da qualche pizzo che doveva regolare bene il passo. Beh, devo dire che l’avemmo al nostro fianco solo per i primi minuti, tanto per riscaldarsi, e poi partì in solitario, dopo un’ultima occhiata di commiato. Coprì il percorso in due ore e mezza, rifilandoci una spersa di quaranta minuti. E immagino che, in quel momento, per lui, fu come aver puntato i classici due soldi alla riffa ed essersi accorto di averli moltiplicati per mille. Lì nacque la leggenda di Luigi Bigiarelli asso nella marcia.

Un’altra cosa che ricordo bene fu la serie degli appuntamenti alla panchina di piazza della Libertà che il Puntale, ravvivato dal successo personale, cominciò a dare alla cerchia di amici per discutere di podismo. La piazza era nuda di alberi o altro, senza lampioni a rischiararla di notte, misera e squallida, come misero e squallido in fondo era il quartiere, con i palazzi semivuoti in mano alle banche. Non da molto l’avevano finalmente sgomberata dei materiali risultanti dai lavori al ponte. Dietro alla panca, nuova di legno pitturato verde, c’era una spalletta da cui tagliava un sentiero che conduceva alla sottostante banchina, col capanno color crema a galleggiare. Di fronte e verso valle, si prospettavano le grigie palafitte pencolanti dei Bagni. Sempre dalla parte dei Prati, sul lungotevere dei Mellini col nuovo muraglione in costruzione, stava a disposizione il galleggiantino di cui ho detto, ma la pesca alle carpe e alle ciriole, specie di pesci serpentini, non si praticava più, perché il freddo violento ghiacciava le mani. Sulla panchina solitaria, seduti e infagottati, nel primo pomeriggio col sole pieno chiacchieravamo allegramente, noi "protolaziali". Ognuno esprimeva desideri e dava fiato alle speranze. Giggi eccelleva in quanto a fantasie e costruzione di castelli in aria. Il fratello Giacomo, al contrario, pure se più piccolo d’età aveva la testa piantata sulle spalle, un tipo che badava al sodo. Era giusto la parte mancante al Puntale, che tendeva a solcare le nuvole come un surfer le onde di Platboom Beach. E occhio agli squali! Idealista e sognatore disposto a sacrificare tutto, anche la salute e la vita.

– Stai marciando da campione, RV12SM-701. Molti aspetti sull’incubazione della "Lazio" si stanno chiarendo. Il tuo livello di rivivificazione è salito da 4.4 a 5.5. Quando sarai arrivato a 9.9 lo stabilizzeremo. Bevi l’energizzante e prosegui per altri dieci time-laps, per favore.

– Un’altra ora, intendi? Okay, sei tu l’ufficiale in comando della nave. La rotta la tracci tu, ma non dimenticare che l’oceano è vasto e le correnti forti e imprevedibili. Una volta, a Navarino nella Tierra del Fuego, ci stavo per lasciare la pelle! Ti porto diretto sulla scena dell’apparizione della Lazio, così mi tolgo il pensiero.

LA GENESI

– Ti dico subito della prima volta che Giggi si raccomandò che ci si doveva assolutamente riunire per "fare ‘sta benedetta società" – così si espresse. Fu una domenica mattina poco prima di Natale, il 17 dicembre del 1899, quando i tre più matti della RNR, Lello Montalboddi, Attilio Tomassini e Ugo Lovatti, si buttarono dal ponte di Ripetta completamente vestiti. Il ponte era stato momentaneamente chiuso al passaggio pedonale, epperò quelli se ne erano impippati delle ordinanze comunali. Seppure a debita distanza, una piccola folla di perdigiorno godeva dello spettacolo a sorpresa, sperando nel finalino dei carabinieri che ripescassero i trasgressori. Stavo lì con Ignacio allorché mi avvidi che stava sopraggiungendo, col suo caratteristico passo nervoso, il Puntale. Si capiva che era deciso, ormai, perché commentò con un lapidario: "Queste buffonate non entreranno nei programmi della nostra società, il podismo è un affare serio". Lo persi di vista per un po’. Non eravamo esattamente vicini di casa. Lui abitava al vicolo degli Osti, dietro piazza Navona, e io dalle parti di Porta Pinciana. Nei successivi giorni, lo incontrai a piazza del Popolo e mi diede appuntamento per la domenica 7 gennaio nel primo pomeriggio al barcone. Mi disse che al Pippa Nera c’era stato l’ultimo dell’anno, a consumare la solita merenda con gli amici. Che erano poi tutti questi che ti ho menzionato, e soprattutto Balestrieri, l’altro fissato con la marcia. Arturo ogni tanto dava esami di giurisprudenza, nonostante fosse militare in carriera, canottiere d’estate all’Aniene, schermidore nei mesi amari all’Accademia Greco, e marciatore on-the-go. Il tutto compresso in un metro e sessanta scarsi, un palmo abbondante più basso di me.

Il sette non andai, impegnato a casa con un pranzo in famiglia. Ma venni a sapere che un gruppetto aveva deciso di mettere le basi alla "società podistica". La riunione fissata per il martedì seguente, al barcone alle tre p. m. Il nove gennaio del 1900 la ricordo come una giornata bellissima, molto al di sopra della media. Spirava la tramontana più tipica, quella che ha fatto l’Impero dei Cesari. Il vento aveva spazzato le nubi, un cielo azzurro splendeva maestoso: a Glorious sly! La temperatura era elevata, sui dodici. M’incamminai di buona lena da casa, costeggiando in discesa la Villa Borghese, ma, lungo la strada, incontrai un tizio che non vedevo da tempo. Ci impiegai un po’ a scrollarmelo di dosso. Giunsi al ponte che erano le quattro e mezza passate, così almeno indicava l’orologio di piazza del Popolo. Già rosseggiava il tramonto. La scena che mi si presentò era quella di un’epifania dopo l’Epifania. Sotto la luce radiante a scatti della lanterna d’ottone, il Puntale e il Piombo stavano seduti l’uno di fronte all’altro, ai due capi del tavolo. Sui lati lunghi, c’erano il bersagliere Giulio Lefevre accanto a Balestrieri, tutti e due militari in servizio, e, a giro di carte, Alceste Grifoni, studente liceale e figlio d’un insegnante di ginnastica, Enrico Venier con Galileo Massa, gli inseparabili Castore e Polluce dell’Istituto Tecnico, Giacomo Bigiarelli e una sedia vuota. Vuota perché il proprietario Odoacre Aloisi, studente pure lui ma con poca voglia di sudare sui libri, tipo rustico, alto e robusto del Flaminio, s’era spostato per lavorare in una padellaccia una manciata di pezzetti di polenta fritta.

Con una mestola, "Onta" li faceva schioppare e saltare come fossero pop corn; e preciso che i pop corn ancora non erano stati inventati. Sul tavolo di noce, basso e scuro, graffiato e inciso dalla punta di mille coltelli, troneggiava una scodella di ferro bianca e blu, strapiena di fette di pane e salame ammonticchiate, la passione di Aloisi. "Un’altra merenda?" – chiesi, salutando col "chullo" cerimoniosamente abbassato fino a terra e i paraorecchie penzolanti. "Entra, Poncho" – invitò cordiale il Gigio. "Siediti qui accanto a me. Fai posto al nuovo socio, Giacomo". Mi accomodai e ripresi a voce alta, conscio di essere diventato un protagonista: "Ah, avete già combinato tutto?!". "Per niente" replicò il Puntale. "Per dirne una, ci manca il nome. Sappiamo che sarà una società podistica, ma proprio non la vorrei chiamare 'Electra', come suggerisce Alceste; o 'Pizza e fichi', come dice Onta. Stiamo cercando un nome originale, un nome che ci distingua da tutti gli altri". Passammo le due ore successive a tentare d’acchiappare per la coda il nome giusto, quello che ci avrebbe dato la carica. Ma non ci fu verso. Tutte le virtù latine già circolavano nei sodalizi sportivi tiberini. I nomi patriottici c’era chi non li voleva. Di nomi che puzzassero di religioso neanche a parlarne. Gli anglicismi e i francesismi piacevano a quattro o cinque e spiacevano a due o tre. Per un attimo, si pensò di chiamarla "Stella". Ma qualcuno saltò su ad obiettare che i militari attorno al tavolo non dovevano esagerare.

Giggi si disse d’accordo. "Niente stella, già ce l’hanno i rari nantes, la Romana e quelli della Ginnastica Roma. Facciamo una pausa. Ognuno tiri fuori dal cilindro qualcosa di nuovo e lo scriva con questo mozzico di lapis su un pezzo di carta. Giulio, strappa un foglio dal quaderno, fai nove quadratini e consegnali ai presenti". L’operazione venne rapidamente eseguita. Quindi, come a un tacito segnale, tutti ci alzammo dalle seggiole e iniziò la meditazione personale. Io sentivo caldo. Mi buttai il poncho d’alpaca sulle spalle e uscii a respirare una boccata d’aria fresca: più gelida rispetto a quando ero entrato, in verità. Da una scatolina che tenevo nel poncho scelsi un sigaretto e, nella foschia serale che era scesa sull’acqua, dopo qualche minuto mi transitò davanti un vaporetto. Sulla fiancata di prua, che si mostrava a trenta metri non di più, una lanterna illuminava a stento le lettere giallastre: "LAZIO", si leggeva. Era il nome del battello [9]. E poteva benissimo essere il nome della nostra società di podisti: nessuno ce l’aveva! Per un attimo, il cuore mi si fermò nel petto; una sensazione simile l’avrei provata poche altre volte, e sempre nel momento cruciale di una caccia in Africa. Ricordo che il sigaretto "Roma" – che strano a ripensarci – mi cadde dall’angolo della bocca e terminò la parabola nell’acqua nera. Anche quello un segno del Fato: Roma che cede al Lazio. Alla Lazio!

Rientrai come un fulmine nel capanno. Stavano di nuovo tutti attorno al tavolo, simili ai discepoli del Signore: un deja-vù, la ripetizione della scena madre del mio arrivo. Sedici occhi attenti si concentrarono su di me. Avevano immediatamente capito, dal botto della porta, che recavo la lieta novella. "Lazio!!", gridai a pieni polmoni. Gamba-di-legno grugnì nel sonno, rigirandosi nel viluppo di coperte a mezzo metro dalla cucina-stufa. Balestrieri sbiancò in volto; mi parve che i capelli gli diventassero lingue di fuoco vivo, nel contrasto stridente con la pelle. Giggi sorrise. Quel suo sorriso sincero che conquistava i cuori maschili e femminili. Aveva stelle di luce che baluginavano nelle iridi, sotto uno di quei cappelli a visiera che indossava immancabilmente. Con gesto lento, volutamente ieratico, cacciò dalla tasca interna della giacca un oggetto dorato. Lo posò sul tavolo, svelandolo da sotto il pugno della mano destra, così che tutti vedemmo: una medaglia. Nel silenzio generale, il Fondatore Primo disse: "Questa me l’hanno data alle feste sportive di Villa Pamphili. Leggete, c’è scritto Campione del Lazio. Oggi l’ho portata, senza sapere perché. Ora lo so. Lazio sarà il nostro nome. Unico e per sempre". Ci guardammo l’un l’altro, colmi di stupore, commozione, agnizione. L’Epifania era completa. Onta, con una botta dei suoi avambracci muscolosi, si liberò rabbioso della sedia. Tirò fuori da una sacca una bottiglia anonima di vino rosso, che aveva fino a quel momento tenuta nascosta. Radunò in fretta e furia i bicchieri da trattoria sul ripiano, scostando la scodella e il pane e salame, li dispose in circolo che si toccavano. Li riempì con mano sicura, senza versare una goccia. Offrì il primo calice al Puntale, il secondo al Piombo, il terzo a se stesso. Poi tutti gli altri. "Viva la Società Podistica Lazio!", brindammo all’unisono, le mani levate alla lanterna che ora mandava i raggi di un nuovo sole. Asì es como me sentì, rodeado de la aurora y llena de noche el alma. [10]’’.

DOPO IL MIRACOLO

– Tutto qui, RV12SM-701? Non avete stilato programmi, regolamenti, proceduto alla suddivisione delle cariche sociali? Ve ne siete ritornati alle rispettive abitazioni dopo il brindisi? Spiega meglio, per favore.

– Sì, amigo delle stelle. Come puoi capire tu? Quella sera, l’aver trovato in quel modo il nome ci bastò. Un nome dà potere sugli esseri animati e anche sulle cose inanimate. Nel libro della Genesi, sta scritto che Jeova concesse al primo uomo Adamo di dare il nome agli animali del Paradiso, e da quel momento egli li dominò. Come atleti di una "Podistica Lazio", ora non ci mancava nulla per imporci sulla scena. Saremmo stati gli alfieri dello sport che stava stregando tutti. Il Puntale aveva voluto accelerare perché aveva saputo che, a marzo, si sarebbe svolto un evento mai visto prima a Roma: una doppia gara in contemporanea di corsa di resistenza. La prima competizione riservata agli studenti delle scuole e dei ricreatori, la seconda alle società sportive. L’occasione era data dalla inaugurazione del monumento al Quirinale di re Carlo Alberto, il Padre della Patria. In palio premi concessi dallo stesso sovrano Umberto I, notoriamente amico della ginnastica e dello sport. Una medaglia grande d’oro massiccio sarebbe andata al primo arrivato; altre medaglie e un trofeo alla società sportiva che, per numero complessivo di piazzati, avesse conseguito il miglior risultato. Giggi sapeva bene che la stessa Ginnastica Roma, polisportiva ammanicatissima e che possedeva una sede con cortile e pista dalle parti di via Nazionale, il famoso Eldorado, nel settore podistico di elementi competitivi ne poteva allineare un paio al massimo. Battendola, ci saremmo guadagnati il suo rispetto e, in automatico, la delega a dirigere l’Audax Podistico.

I brevetti di 75 chilometri – ci diceva il Puntale – avrebbero ingrossato le file della SPL. E poi, al principio dell’estate, un’ulteriore spinta sarebbe arrivata dall’apertura della sezione natatoria, com’era stato nelle sue intenzioni originarie. Tutti questi discorsi erano stati snocciolati sulla panchina di piazza della Libertà, e ripetuti durante le merende al Pippa Nera; tra gli amici del Puntale e del Piombo, non c’era chi non li conoscesse a menadito. Si sparse così la voce che la Podistica era stata fondata, e che il sabato, a casa dei Bigiarelli, si sarebbe svolta la riunione per fissare lo statuto e le cariche. Il 13 gennaio, verso le tre, andai assieme a Luis Ignacio, curioso di assistere alla cosa. Ma, nell’angusto appartamento di vicolo degli Osti, trovammo che era in corso una specie di baraonda. Infatti, si erano presentati i Pippanera, e tra loro mocciosi di undici, dodici e quindici anni, che pretendevano a tutti i costi la tessera pur sapendo che, sotto i sedici compiuti, non era possibile. Giggi e Giacomo dovettero rispedirne indietro un fracco, ma alcuni s’imbucarono lo stesso. La riunione cominciò in ritardo per questo, poi tutto filò liscio. Il Puntale era un maestro nel tirare le fila, e quella volta giocava in casa. Chiudemmo i lavori alle sette, anche stavolta con un brindisi, però a base di vermouth come nella tradizione patriottica militare. La maggior parte del tempo la dedicammo alla stesura dello statuto, per poi passare alla nomina delle cariche. Giggi disse che per l’ufficio di presidenza sarebbe stato più opportuno attendere la prima assemblea generale, quando i tesserati sarebbero stati molti di più. Infatti, per ora ne contavamo appena quindici, di tessere pagate. Oltre ai nove fondatori, tutti confermati, entrarono nella società Rinaldo Fortini, cugino dei Bigiarelli, e altri cinque: Guido Annibaldi, Ugo Novelli, Aurelio Bastianini, Raffaello Mazzolani, fratello minore del "duce biondo" dei Pellirosse, e il fenicottero Tito Masini.

Tutti ovviamente over sedici, col "Pizzarda" che era tra i più stagionati con le sue ventiquattro primavere. Tito era il primogenito di uno scultore fiorentino piuttosto rinomato, che aveva aperto lo studio sulla via Flaminia. Per farla breve, le cariche furono così distribuite: Giggi direttore sportivo, Guido ovviamente tesoriere, Arturo e Galileo consiglieri, io e Giacomo ispettori sportivi. Il mattino appresso, noi nove fondatori, meno Lefevre e Balestrieri impegnati in caserma ma con in più Annibaldi, ci ritrovammo alle sette e mezza sotto la fontana centrale di piazza del Popolo. Alle otto in punto, guidati da Giggi, partimmo a piedi per la via Salaria. Arrivammo al ponte di Castel Giubileo e, giusto il tempo di bere un sorso di cordiale dalla fiaschetta di Onta, tornammo a rotta di collo lungo la Flaminia. In questa maniera, si provò il percorso di ventidue chilometri della grande gara dell’11 marzo, per fare la quale la Podistica era uscita dall’uovo in pieno gennaio. Non trascorsero tre settimane che il professor Tifi ci diede il placet per i brevetti Audax. Io presi il mio nello stessa prova in cui si meritò il distintivo il Puntale.

– Molto interessante, ma non hai detto nulla dello statuto, RV12SM-701. Invece, è proprio quella una delle parti più pertinenti per lo studio che conduco. Fu nella specifica circostanza che sceglieste i colori bianco e celeste e, come simbolo, l’aquila imperiale romana?

– Ma che diamine dici, tonto? Aquila imperiale? Seguro que no! Anche questo non ci sta nelle Cronicles? Lo statuto non lo ricordo a bacchetta. Magari, andando avanti con i trucchi, finirà che lo ripescherò dall’abisso dei secoli, ma per ora nisba. Era comunque composto da ventuno articoli, che l’anno dopo allungammo a venticinque. Annibaldi lo stese a inchiostro su quattro fogli di un registro che teneva in una cartella di pelle col timbro dell’Università sopra. Ognuno dei punti fu oggetto di discussione. L’unico che non sollevò obiezioni fu l’articolo uno. Ecco, quello lo so a memoria, anche perché era breve: Il giorno 9 gennaio 1900 si è costituita a Roma la Società Podistica "Lazio". Il secondo articolo recitava, più o meno: La Società si propone di coltivare e diffondere le corse, le marce e promuovere gare. L’articolo ottavo proibiva ai minori di sedici di farsi soci, mentre il decimo consentiva ai soli maggiorenni, ovvero sopra i ventuno, di entrare nel direttivo, la ragione per cui non ero stato eletto consigliere. L’articolo che alzò il tono del dibattito fu il nono, quello che legava in maniera esclusiva ogni tesserato. Giggi si batté contro Arturo, che alla fine la spuntò. Esattamente come per i rari nantes, anche la Podistica vietò di iscriversi alle gare senza il permesso del consiglio direttivo, o di concorrere per altre società. Io fui tra quelli che votarono in comunione col Puntale, anche perché mio fratello me lo chiese: un giorno, infatti, avrebbe sottoscritto con la Lazio, disse.

Gli smalti sociali, vuoi sapere? Beh, anche per quelli non ci fu alcun accenno nello statuto, per il semplice fatto che a nessuno venne in mente. Né si pensò a una bandiera, a uno stemma, a un guidoncino o a un labaro. Fu come se, inconsciamente, avessimo scelto di proporci in maniera opposta alla Rari Nantes: umili e modesti. Simboli zero! Lefevre provò a dire, con la sua erre moscia ereditata dagli antenati franciosi, che ci sarebbe stato bene sulla maglia il piede alato del dio Mercurio, ma Onta gli schiacciò subito il piede sinistro, facendolo strillare di dolore pure se aveva indosso gli stivali d’ordinanza. I giornali, sia queli sportivi come la Gazzetta o la Bicicletta, sia gli altri, pubblicarono trafiletti. Forse sarebbe il caso che faticassi a scorrere le collezioni d’epoca, Bobo, se è rimasto qualcosa.

– Quasi tutto è andato perduto nel crash-down del 316. Te ne ho già parlato, RV12SM-701, ma mi impegno a svolgere ricerche in merito. Ora, però, ci sarebbero altre domande. Come andò la gara del re? E cosa avvenne dopo la nascita? Vero è che litigaste fra di voi e da una vostra costola sorse un sodalizio rivale? Quando iniziaste a praticare il football?

– Eh, eh, quante belle domandine... e tutte intruppate poi... Calmate, cara de rana! Al pallone ci arrivo per gradi. Questa parte della storia non è lineare, e di alcuni avvenimenti non sono stato un diretto testimone. Ti dirò quello che mi hanno riferito gli amici, le storie che circolavano, più qualche aneddoto in cui sono stato effettivamente coinvolto. La señora Verdad nunca està desnuda cuando solo hay uno mirandola. La gara di resistenza di Castel Giubileo andò benissimo, giacché ne piazzammo sei nei primi quindici e la Coppa del Re finì nella bacheca sociale; la inaugurò, in pratica. E questo nonostante sia il Puntale sia il Piombo rinunciarono alla prova, che per le società sportive era di corsa e non di marcia; assunsero come scusante che gli avrebbe rovinato la muscolatura. Io contribuii poco. Nella parte conclusiva, sul viale del Lazio prima di piazza del Popolo, caddi malamente. Tagliai il traguardo col tempo di un’ora e quarantesette, escoriato ai gomiti e alle ginocchia, con una ventina di minuti di ritardo sui primi, due tipografi torinesi scesi apposta per guadagnare i ricchi premi. Mi pare che il migliore dei nostri fu Lefevre, seguito a ruota da Angelo Golini, uno dei mocciosi entrati di straforo nella riunione del 13 gennaio e che, pure se aveva solo tredici anni, venne iscritto come un esponente della "Lazio". E questo ti fa capire quanto ci tenessimo alla coppa, e come i controlli fossero approssimativi: se ti dichiaravi della "Pinco e Pallino", con accanto un ufficiale che confermava, già quello bastava.

Come nei pronostici di Giggi, a luglio e ad agosto, a sezione natatoria inaugurata, arrivarono altre adesioni. Non tutti se la sentivano di marciare e correre per chilometri a piedi, ma di sguazzare e fare baldoria nel fiume, quello sì. Organizzammo le prime gare sotto l’egida SPL, e subito si mise in mostra un giovanotto di un clan fiumarolo tra i più casinisti, Romeo Tofani, o "Tofini" come lo chiamavano i giornali: uno dei più forti nuotatori e pallanuotisti d’anteguerra. La sezione nuoto la battezzammo durante l’assemblea del 22 giugno, quando acquisimmo due nuovi soci così da toccare la cifra poco allegra di diciassette. La riunione si tenne nella nuova sede sociale, un piano terra a via Valadier nei pressi di piazza della Libertà. Quella di via Valadier, al civico 21, fu la prima tana della Podistica. Prima di via Valadier, ci eravamo arrangiati con la panchina addossata alla spalletta del lungotevere dei Mellini, a destra dell’imbocco al ponte, dove avevamo pitturato con la vernice bianca un "Società Podistica Lazio" che ci dava un godurioso senso di proprietà. In un muricciolo del lungotevere Flaminio, quindi sull’altra sponda e a pochi metri dallo chalet della Rari Nantes, tra due pietre del muraglione dalla parte interna verso il Tevere, vi era una fessura dove suggerii d’infilare bigliettini per dare comunicazioni agli assenti [11]. Questo perché a piazza della Libertà non c’era niente, neppure un lampione o un albero decente, oltre alla panchina.

Vuoi sapere com’era la sede di via Valadier? Squalliduccia, ma resa viva e calda dai suoi abitanti. Consisteva in una stanza grande, che dava direttamente sulla strada, e da due più piccole. Nello stanzone c’era un tavolo con le seggiole. A qualsiasi ora arrivavi, ci trovavi seduto Onta, che si faceva i solitari e chiedeva se ti andava di giocare a scopa, in palio la pizza col salame che comperava da un vino e olio; siccome vinceva spesso, per lui la merenda del mattino era gratis. Non c’erano i servizi igienici, ma un secchio con dell’acqua. L’illuminazione era garantita da una lampada a gas regolata tramite un contatore automatico ancorato con lo spago: se ogni tot introducevi una moneta da cinque centesimi, avevi la luce, altrimenti rimanevi al buio. Alla parete della stanzetta di fondo avevamo addossato un armadio e lì ci si spogliava. In quella di mezzo avevamo sistemato un peso a manubrio e un tappeto adagiato sopra uno strato di sabbia: il ring per la lotta. In un angolo della stessa stanza stava attaccato un grosso chiodo, dove Balestrieri legava il cavallo quando arrivava dalla caserma al Macao. Il Piombo si cambiava la divisa da cavalleggero, grigioverde col colletto viola e nero e le due stellette dorate. Ogni volta, entrando, canticchiava con la voce in falsetto: "Le stellette che noi portiamo son disciplina, son disciplina...". Lui amava la musica e aveva inventato un motivo, una marcetta, che suonava con un’ocarina di coccio allorché battezzava un socio; rito al quale, almeno nel primo anno, non è scampato nessuno. Tolti i panni militari, Arturo si metteva il costume da podista per andare ad allenarsi a piazza d’Armi.

Questa era un’infinita distesa di terra abbastanza piatta e uniforme, tranne un paio di montarozzi trasversali. Era cirocoscritta da un periplo fatto di viali. Tradizionalmente, quelli delle caserme l’utilizzavano per le esercitazioni dei mattino, e qualche volta ci organizzavano le sarabande i reggimenti di cavalleria. Per questo che c’erano i lunghi terrapieni: per fare saltare i cavalli. Fu lì che cominciammo a fare le prime gare di corsa veloce e anche qualcosa di mezzofondo; un altro posto buono, e anzi migliore, era viale delle Milizie, col rettilineo sempre deserto. Le automobili a motore non si vedevano ancora, solo qualche fiacre e carrozzella, e i primi omnibus su cui saltavi a bordo con un soldo. Er sinnico Nathan, quello del "nun c’è trippa per gatti", doveva da venì... Per tornare al covo di via Valadier, annoverabile tra gli ex negozi rimasti sfitti, c’è da dire che non v’era l’usciere. La chiave, per chi voleva entrare, era custodita dal portinaio dello stabile, il sor Pippo, al quale si doveva riportare quando, giunta la sera, ogni socio rincasava. Soprattutto, si giocava a carte e si chiacchierava di podismo e di femmine: la routine del Pippa Nera. Svolgemmo a via Valadier il primo torneo sociale di lotta libera, mi pare vinto da Luigi Mevi. Il cibo che consumavamo veniva comperato qua e là a turno: castagnaccio, frittelle, la pizza bianca, il cacio, i pezzetti di baccalà, la fojetta di vino col vuoto da riconsegnare. Il meglio era il gatto, il pezzo forte della domenica, acchiappato dallo specialista Golini. Lo portava già arrostito, mentre vermouth e paste costituivano la posta per i giochi a scopa, briscola e tresette.

Pizza e burro erano invece il premio per la classica sfida di corsa: il giro del palazzo fra via Valadier, piazza della Libertà, via Cola di Rienzo e via Lucrezio Caro, all’incirca quattrocento metri. Una gara che vincevo spesso. Sai qual era il problema? La cagnotte. Dopo un po’ di mensilità a trenta lire, saldate con puntualità via via più incerta, fu palese che le entrate delle gare podistiche e di nuoto che organizzavamo urbi et orbi non bastavano più. Annibaldi acquistava i distintivi dell’API fatti a Milano dalla ditta Johnson e li distribuiva ai brevettati; stavano in una scatola in un cassetto, e a malapena si andava in pari. Poi c’erano le spesucce le più varie, con qualcuno che faceva la cresta. Allora, così come avevo fatto con l’Urbe et Farfa, m’inventai un bell’imbroglietto. A casa, mia madre Maria aveva a cuore ‘sto cane di razza Burgos, una specie di bracco: Pizarro. Lo portavo a zonzo e non c’era bisogno del guinzaglio, perché rimaneva al passo, el idiota! Un mattino, esco dal portone del palazzo dove abitavamo, a via Aurora 13, e lo porto direttamente a via Valadier. Spiego la situazione, l’idea furba che la generosa madre degli Incas, Mama Zara, mi aveva regalato durante la notte. Quelli si congratulano, fai pure, hai carta bianca, ci pensiamo noi dopo. Torno a casa e avverto la mamma che Pizarro è scappato. Per trovarlo, forse sarebbe il caso di mettere una ricompensa.

Annuncio sul giornale, un cane così e così, venti lire a chi lo riporta al seguente indirizzo. Tranquilli, che uno dei nostri lo riconduce indietro e incassa il premio, e anche i ringraziamenti della signora Maria tra le lacrime. Lo scherzo lo ripetiamo tre volte, a distanza di dieci giorni. Alla quarta, mio padre mi prese per la collottola e mi lanciò sul sofà, levando l’indice in una minaccia che non lasciava scampo: "Se lo rifai, ti spedisco tutta l’estate dalla zia Consuelo a Lima!" Fu giocoforza che Pizarro tornò ad essere il docile perro conformista che era sempre stato. Incluso un tipo como yo tenìa que entenderlo. Più o meno nello stesso periodo, mi capitò di arruolare un pezzo da novanta: il buon Sante Ancherani. Stavo una domenica pomeriggio con Arnaldo Mancini, Attilio Fassi, Alceste Grifoni e Angelo Golini a viale delle Milizie. C’erano pure Francesco Tomassucci, che era figlio di un conte, e Carlo Barghiglioni, "lo Zuavo", soprannominato così perché amava indossare i knickerbockers. Vediamo avvicinarsi un tipetto robustello, i capelli bruni spartiti sulla fronte, solo e chiaramente a passeggio. Noi stavamo in calzoncini, maglietta e scarpette da gara, indaffarati con gli scatti di velocità. Quello si blocca e guarda stupito. Mi accorgo che è interessato, lo provoco: Ti piace lo sport? – Eh, io ce moro pe' lo sport! – risponde – Ma non pensavo che qui a Roma ci fossero già persone che correvano. Dò un’occhiata agli altri, colgo l’assenso unanime e continuo: Questa è la Società Podistica Lazio, vuoi provare i cento metri? Ce la fai? – Eh, se ce la faccio. Ho fatto sempre corse, picca, guerra francese...

Lo valuto come un capitano la recluta. Con quelle gambe corte, sotto i pantaloni lunghi, i muscoli non si vedevano, e comunque non mi sembrava uno scattista: Beh, qui non si gioca, noi si fa sul serio. Prova un allungo, che ci abbiamo il cronometro. Sante, per tutta risposta, si tolse la giacchetta. Allora lo misi sulla linea, uno spago che avevamo appogiato per terra tra due sassi. Non si accucciò, come le ultime tecniche suggerivano, lui partiva dritto, un piede avanti all’altro e il capo leggermente abbassato. Al posto, pronti, via! Si fece tutti i cento metri fino ad Angelo che lo aspettava in fondo, e che gli prese il tempo: 13 e 1/5. Allora esclamai: Ma come 13 e 1/5? Questi qui si stanno allenando già da un po' in calzoncini e staccano 13 e 3, 13 e 4, qualcuno 14... Il piccoletto si strinse nelle spalle, improvvisamente intimidito e non avendo nulla da ribattere. Angelino si scostò i bei capelli castani, lisci e spioventi, il gesto suo classico di pischello di buona famiglia, gli mise il cinque della mano aperta sulle spalle, ancora scosse dall’ansito: Beh, riposati una decina di minuti, e poi ci riprovi. Staccò il tempo di tredici secondi netti! Gli andammo tutti intorno, grandi felicitazioni, lo presi sottobraccio: Vieni, vieni con noi alla Lazio. Giunti in sede, Onta appena lo vide volle subito testarlo: Vie’ qua, moro, siediti di fronte a me. Sai giocare a scopa?


ERA GALATTICA STANDARD 100,261. DATE: 02-11: TERZA SESSIONE

WATERPOLO E FOOTBALL

– Saluti dal passato. Il passato ti rincorre e perseguita. Avere o essere e io sono essere. Perché non mi rimane più nulla, a parte la memoria e questo perfido ammasso di cellule riciclate, che non mi procurano né dolore né piacere.

– Che cosa, RV12SM-701? Puoi spiegare meglio? Per favore.

Nada, gringo. Son solo los miedos del viejo Poncho: la paura di non essere all’altezza del compito. Come quando mi chiesero consiglio su come sistemare leoni, iene e leopardi al nuovo zoo di Pretoria, con la sua modernità di voler ricreare gli spazi naturali e non presentare sbarre di ferro agli animali selvaggi. "Sarà senz’altro un boom" dissi, giocando sulle parole perché il cancello d’ingresso stava a Boom Street. "L’unico guaio consisterà nel fatto che chi pagherà il biglietto non le vedrà le bestie feroci, se non per sbaglio".

– Non divagare, RV12SM-701. Il tempo è un tiranno che nessuno può comprare o ingannare. Non mi è chiara una cosa: tu e Luis Ignacio eravate in forza alla Lazio e alla Rari Nantes, in quell’estate del 1900?

– Tutte e due, in effetti. Era più che altro una questione di specialità sportive. Prima del football, un altro gioco di squadra attirò la mia curiosità: il waterpolo. Ti ho detto che Santoni l’aveva visto giocare a Milano. S’era procurato un manuale tedesco e l’aveva tradotto e pubblicato, fondando la sezione waterpolistica della RNR. Il "club" aveva i colori bianco e turchino, cioè le canottine che indossavamo per distinguerci. L’ingegner Pouchain ottenne l’uso gratuito del laghetto di Villa Borghese, che normalmente era interdetto ai privati. Cominciammo così gli allenamenti per impratichirci un minimo. Io mi ritrovai ad essere nominato goalkeeper e capitano di una delle squadre, mentre Montalboddi, che possedeva una superba resistenza in acqua, divenne il goalkeeper dell’altra, che schierava mio fratello all’attacco. Il laghetto era disponibile tutti i giovedì e le domeniche. Calcola che per accedere alla villa, che apparteneva alla famiglia Borghese, bisognava pagare un biglietto del costo di una lira all’ingresso di Porta Pinciana. Il principe Scipione Borghese, era notorio, aveva contratto debiti di gioco e così alleviava le spese di manutenzione. Per quelle partitelle d’approccio attrezzammo il laghetto con porte di legno pitturate bianche e rosse, fissate da corde a pietre adagiate sul fondo.

Ugo Lovatti, uno studente universitario figlio di ricchi contadini che veniva dall’Emilia, nella sua qualità di capitano dei bianchi s’incaricava dell’apnea. Il campo, venti per trenta, lo delimitammo con bandierine gialle fissate a zucche. Oltre alla canottina, c’eravamo fatti arrivare da un negozio di Milano i costumi monopezzo, idem bianchi e di una sfumatura di turchino che prestò sbiadì in un celeste pallido. Il "Fluctivago", lo pseudonimo con cui si firmava Santoni, bene azzeccato visto che si sciroppava duecento chilometri all’anno, ci disse: "Questi sono i colori. Ci distinguono dalla Nettuno Milano che le cuffie ce l’ha bianche e rosse". I primi sei test-match li allestimmo tutti a giugno, e solo il primo a porte chiuse. La gente si avvicinava per curiosare, a noi la cosa non dispiaceva: l’esibizionismo era una componente degli sport pionieristici. Ci dividemmo cinque per team, con Santoni che funzionava da ispettore del goal: controllava se la palla avesse o meno valicato l’immaginaria linea; a proposito, le porte si chiamavano "arco". Io ero un "guardiano dell’arco". Ma a te interessa tutto questo? Vado avanti o preferisci che passi ad altro? Chi ha tempo non perda tempo, no?

– Mi interessa, RV12SM-701. Non so nulla di questo sport del waterpolo. Prosegui, per favore.

– E allora te la racconto tutta, Bobo. Le prove furono funestate dalla malattia e morte improvvisa del Lovatti. All’epoca, non era stata ancora inventata la penicillina e i microbi cattivi ti spedivano nell’aldilà senza faticare troppo. Nel frattempo, avevamo pure perso il permesso di giocare nella villa, per via che i Borghese l’avevano ceduta al Comune per un tozzo di pane, compresa la galleria con tutte le sculture e i dipinti. Allora ci spostammo alle Acque Albule di Tivoli, dove avevano da poco allestito un vascone per le donne piuttosto basso, adatto al waterpolo. Santoni aveva saputo che, nei dintorni delle terme, d’estate, soggiornavano seminaristi di lingua inglese pratici del gioco. Iniziammo le nuove produzioni la prima domenica di luglio, suscitando il più vivo stupore nell’altolocata clientela dei bagni. Ricordo certe signore e signorine molto vezzose che, al riparo dei parasole, si godevano la vista dei muscoli miei e dei miei compagni. Alla fine di luglio, oramai sicuri del fatto nostro, lanciammo una sfida a tutte le società sportive del regno per disputare a Tivoli un "campionato nazionale di palla a nuoto". In palio una coppa d'argento. La tassa di ammissione ammontava a quindici lire e la scadenza fissata per il 28 di agosto. La sfida non venne raccolta dalla Nettuno, l’unico gruppo waterpolistico esistente oltre al nostro. Santoni allora, con la formazione migliore scremata dai ventotto soci interessati al gioco, la domenica del primo settembre ci portò col tram-way di Porta San Lorenzo alle Acque, dove facemmo un’esibizione e ci auto-proclamammo campioni.

Al fine di soddisfare il pubblico accorso sotto gli alberi fronzuti che circondavano il vascone, impiantammo lì per lì un match con i seminaristi scozzesi e irlandesi; due sacerdoti accettarono l'officio di referee. Se non che, ci accorgemmo presto che quelli avevano come riferimento i regolamenti inglesi, non proprio uguali al nostro codice; ad esempio, per loro era ammesso passare la palla sott’acqua, mentre ritenevano unfair gli agganci con le gambe e le gomitate alle costole, la specialità di diversi di noi. Morale della favola, l’amichevole sfociò in una zuffa, con la partita sospesa a metà e, forse, qualche bestemmia di troppo. Uno, il più grosso, lo presi per le palle e gli alitai sul muso, in spagnolo per farmi capire meglio, all’epoca l’inglese non lo parlavo: Gran hijo de puta madre, si vuelves a poner la bola entre mis piernas te aplastaré los huevos como dos nueces! Il fatto che ci dichiarassimo campioni d’Italia non piacque alla stampa nordista, che rilevò l’incongruità dell’operazione. Tuttavia, nei cinque anni che seguirono, la Nettuno non scese mai a battersi con noi. Raccolsero il guanto di sfida la Romana di Nuoto, nel settembre del 1903, e poi la Lazio, dopo che nel 1904 con una macchinazione burocratica ci aveva tolto l’usufrutto del vascone.

Ti dico la formazione base del 1903, che ora, per un qualche miracolo biochimico, ricordo benissimo: Enrico Gualdi in porta, io, Guido Alegiani, Altieri, Basilici, il sommo stregone dei Pellirosse che galleggiava meglio d’una papera, Alcibiade De Stefanis e Pizzingrilli. Già giocavamo una pallanuoto più razionale, dopo aver visto quelli della Life Saving Society di Londra che, nel 1901, erano scesi in tournée e avevano soggiornato a Roma per mostrare gli stili più moderni del nuoto, ad esempio l’over-arm-stroke. Tra loro, si distingueva la figura di James Gilbert Sanders, un piccoletto biondo tutto pepe, grande specialista del gioco. Una volta, da vecchio a Pretoria, poco dopo l’Olimpiade del 1960, mi venne l’uzzolo di spedire una lettera alla Federazione italiana di nuoto, perché volevo sapere il motivo per cui la Rari Nantes Roma non era stata inserita nell’albo d’oro. Ma non ho mai ricevuto risposta [12]. Il football, al contrario del waterpolo, venne scoperto non dai rari nantes ma dalla Ginnastica Roma. Sempre col professor Tifi di mezzo, che aveva messo in piedi una squadra di una ventina di ginnasti-footballers, come raccomandato dalle superiori gerarchie che volevano propagandare i "giuochi ginnastici". Per avere dei rivali, Tifi s’era dato da fare con un suo amico professore ad incoraggiare un altro undici, formato dagli studenti del Liceo Ginnasio Ennio Quirino Visconti. Il gioco lo chiamavano "calcio", nome che poi è rimasto, ma veniva interpretato in una maniera statica. Li ho visti, una volta, di sera in inverno al velodromo vicino casa mia, quello che poi sparì per la speculazione edilizia [13].

Quei pionieri dai baffi a manubrio si passavano la bitorzoluta sfera di cuoio con colpetti misurati rasoterra, in silenzio, non azzardavano un dribbling, ognuno bloccato sulla posizione comandata dal portiere e capitano che, ovviamente, era Tifi; tanto che, a posteriori, quella specie di calcio igienista da parodia, così militarizzato, privo di fantasie e di contatti fisici, l’ho visto riprodotto abbastanza fedelmente nel gioco da tavola del Subbuteo. Il primo pallone mai toccato con mano da noi della Podistica invece arrivò, come un dono della Befana, la mattina del sei gennaio del 1901. Io non fui spettatore dell’avvento. Questo perché ero partito in bici alle prime luci dell’alba col Puntale, per un meet che c’eravamo dati a Grottaferrata con Giacomo e un plotone di podisti. Tutta la faccenda rientrava nei Ludi al Secolo Nuovo, allestiti in varie città e di cui s’era interessato per la Lazio Balestrieri. Con me e Giggi c’erano il giornalista del Messaggero Nino Ilari, che poi in primavera ci avrebbe tutti trascinato alle sue "passeggiate archeologiche" farcite di letture di sonetti, due soci della Forza e Coraggio e uno dello Sporting Club, il pioniere del ciclismo Giovanni Fassi, di una famiglia comandata a fare i gelati per la corte reale. La famosa storia di Bruto che tira fuori la sfera dal sacco come un coniglio bianco dal cilindro me la raccontò lo stesso Sante. La ripeteva sempre, cambiando qualche minuzia, e più o meno suonava così. Te la dico come se fossi lui.


LA STORIA DI BRUTO SEGHETTINI RACCONTATA DA SANTE ANCHERANI (Poncho cambia tono di voce e lo rende più roco, pieno di pause)

Allora, cari amici, un pomeriggio come tanti che passavamo nella sede sociale – chi faceva un po' de pesi, chi la lotta, chi giocava a carte – se presentò un giovane. Bussò. Dice, rivolto a me: Senta, io sono un socio del Racing Club di Francia ... ehm... di Parigi... Ho saputo che c'è questa società sportiva, vorrei sapere se giocate al fubbal. S'accomodi pure, ben volentieri, ma il "fubbal" non lo conosciamo che per sentito dire. Allora dice: Mbe', io ho portato un pallone. Noi sgranammo tanto d'occhi. Se credete, vi posso insegnare i primi elementi del fubbal: si gioca undici per parte, co' le porte. Sissignore, ci faccia vedere qualche cosa. Certo – dice – Adesso vi faccio vedere. Mise la palla a terra, dette una zampata e ruppe subito il vetro a una finestra. Noi rimanemmo un po' così, qualcuno si mise a ridere, uno strillò: Paga la pelota!. Infatti, c'era uno sferisterio a piazza Cavour, vicino al Teatro Adriano, dove non da molto era arrivato dalla Spagna il gioco della pelota e si scommetteva, e quando vinceva uno di noi pagava ai compagni, e così pure quando uno faceva qualche cosa di danno, che bisognava indennizzare, si diceva: Paga la pelota! Insomma, quel frescobuffo, appena partì il vetro, rimase un po' sconcertato. Certo, qua dentro posso fare poco e fuori c'è la neve.... Eh, ma anche se c'è la neve la possiamo portare noi in un posto che po' da' calci quanto vole!. E lo portammo a viale delle Milizie, che era la nostra palestra naturale. Lui mise il pallone sulla neve, prese due o tre passi di rincorsa e sferrò un gran calcione: ma, invece della palla, mandò per aria un sacco de neve.

La palla fece un giro su se stessa, quasi fosse una trottola senza lo spago, e rimase lì. Noi ci restammo un po' male, già era la seconda. Ma questo che campione del Racing è, che nun pija manco la palla? Allora lui ripetè l'esperimento e la prese meglio, ma mandò via più neve che palla. Noi, tutti studenti, tutti birbantelli, lo cominciammo un po' a piglia' in giro. E venne fuori subito la canzonetta: Ar futtibolle / 'gni botta che je dà / dice che è golle. Se chiamava Seghettini Bruto. Bruto Seghettini, forse era romano, ma nun so' sicuro. Era stato a Londra e a Parigi per imparare le lingue, a perfezionarsi nel taglio. Il padre ci aveva una sartoria già bene avviata. Alla fine ce lo disse: Sì, è vero, so' stato al Racing Club di Francia, ma non ho giocato mai, nun so' un giocatore però conosco bene il gioco. E ci fornì altre spiegazioni: undici per parte, due terzini, tre secondi, cinque attaccanti e due porte. Io presi l'iniziativa, istintivamente, e cominciammo così, quell'inverno, a da' un po' de calci ar pallone a piazza d'Armi.

– Bellissima storia, RV12SM-701. Tanto bella che pare inventata. Il qui presente Mel-thys lo definirebbe un prodotto di data-fiction. Ora, dimmi di più riguardo a Seghettini, per favore.

– Bruto l’ho conosciuto bene. Era un uomo d’onore, e anche gli altri, tutti uomini d’onore. Sono venuto qui a parlare al suo funerale. Lui pure era un buon amico, leale e giusto con me.... Bruto, dicevo, era un bravo ragazzo, vissuto quattro secoli fa. Di neppure vent’anni, bruno, snello, che parlava italiano con l’accento francese, proprio come in quei film della Pink Panther coll’ispettore Clouseau. Ah, scusa, dalla tua espressione capisco che hai perso la bussola: consulta l’enciclopedia galattica alla voce "felini dalla pelle rosa". E studia Shakespeare. Bruto, anche lui, soffriva per un amore non corrisposto e si sfogava con lo sport. Anyway, mi señor, qué se debe hacer cuando la cerveza pierde su sabor? Cómo evitar que una vela se apague? Cómo se puede arreglar el amor? Sai, Bobo, mi sento vecchio. Ho cinquecento anni, no? E quando sei vecchio, così orribilmente vecchio, il tempo scorre più veloce, come quello della clessidra. Fammi bere la cosa chimica, che m’è venuta una sete che vuoterei l’Oceano Atlantico in un colpo solo... Dimmi che mi vuoi bene...

– Fai piano, RV12SM-701. Così... bravo.'

– Allora, stavo dicendo... uhmm... non mi trattare come un bambino deficiente, testa quadra! Bruto divenne mio buon amico. Bruto era un uomo d’onore... eccetera. Suo padre era proprietario d’una sartoria al Corso, dove mi sono comperato un paio di completi. Roba fine. Lui viveva in città con la famiglia, prendeva le misure alle stoffe e si stava dando, come tanti d’altronde, alla moda dei giochi sportivi. Mi confessò che non era vero fosse mai stato un footballeur in Francia, e che il pallone se l’era procurato con l’obiettivo di coinvolgerci in un torneo fissato per due domeniche dopo al velodromo. Glie l’aveva detto Balestrieri, di agire così. In effetti, Bruto riuscì nel suo intento. A conclusione d’una serie di prove, Ancherani e gli altri, come impazziti per il gioco del fubballe – non io, che ai Ludi mi dedicai alla velocità e al mezzofondo – disputarono un match col Veloce Club Podistico, un altro sodalizio di scapestrati nato da pochi mesi. Poiché la Ginnastica Roma aveva proposto d’inserire il torneo di football nel programma delegando la cosa al VCP, pure quello fu un pomeriggio di calcioni sgangherati e tanta confusione, e per di più arrivò una sconfitta per due a uno. Un incidente a un tizio, che costò un occhio della testa, fece sì che il triangolare, l’altra partecipante era la Società Forza e Coraggio, neppure venisse portato a compimento.

La F&C si ritirò. Il Veloce superò la Podistica nell’ultima competizione della giornata, aggiudicandosi la medaglia in palio. Io la sfida la vidi dal bordo della pista, supporter dei nostri podisti che giostravano sul prato con maglie bianche di lana e calzoni al ginocchio chiari o scuri. Ricordo perfettamente un dettaglio: per distinguersi, le squadre indossavano bande rosse e turchine pinzate a tracolla, com’era d’uso tra i ginnasti. A parte tutto, l’unica conseguenza degna di menzione di quel round robin improvvisato fu la colletta, promossa dalla F&C, per pagare le spese del San Giacomo al povero ciecato, che mi pare fosse un apprendista sarto [14]. Noi della Lazio radunammo una quarantina di lire, che non era una cifra da poco. Il calcione nell’occhio lo diede Alessandro Marchetti del Veloce, che avevo avuto modo di conoscere a una bicchierata tra sportivi all’Osteria del Curato. Ma più per colpa dell’altro, che abbassò la testa mentre stava rimandando il pallone. Poi subì un processo e venne condannato a risarcire i danni.


ERA GALATTICA STANDARD 100,261. DATE: 03-05: QUARTA E ULTIMA SESSIONE

LE VU NERE

Amigo, amigo de mis amigos que ya no estan: mi sembra di galleggiare nell’aria come un astronauta dell’Apollo undici. Con la differenza che, davanti agli occhi, non ho la faccia di groviera della luna bensì una libreria circolare che spazia all’infinito, sia in alto che in basso, come le coorti angeliche di Dante. È tutta tessuta di luce, le costole dei volumi hanno colori fantastici, psichedelici, migliaia, o forse milioni e miliardi di gradi dell’arcobaleno. Ecco, uno si è acceso! Bianco perla, ed è come uscito dal posto. Che faccio? Lo prendo?

– Sì, RV12SM-701. Mnemositron ha creato questo modello di visualizzazione per facilitarti il compito dell’accesso selezionato ai banchi di memoria. Se prima avevi il codice utile per entrare in poche migliaia di "isles", ora il numero si è moltiplicato di diversi zeri. Da questo momento, ogni volta che ricorderai un elemento di un certo valore vedrai evidenziarsi i "volumi" correlati, che presenteranno corrispondenze del medesimo colore; più simile la tonalità, maggiore sarà la correlazione. Prima di procedere con l’intervista, faremo una sessione di esercizi, di modo che tu possa acquisire un minimo dominio. La nostra ricerca storiografica ha appurato che, all’epoca in cui il tuo corpo si disfece, la tecnologia non aveva ancora sviluppato programmi di rendering psicotronico a realtà virtuale immersiva di tipo maieutico.

– Ah! Che paroloni! Parla come magni, burro!

[Tre ore dopo]

Carramba! Abbiamo finito con la rumba, ciuchino? Questo caleidoscopio mi ha fatto venire il mal de cabeza. Non credi sia sufficiente?

– È sufficiente, RV12SM-701. Mel-thys, i parametri fisiologici del soggetto sono conformi al lavoro da svolgere?

[La domanda è stata posta telepaticamente. Seguendo la stessa modalità, risponde il tecnico che sta a servizio nel Lab-6 di Terminus-M]

– Sì, Magister. I valori sono compatibili. Il soggetto ha un gradiente bio-energetico di 6.3. Procedo con l’aggancio al livello maieutico?

– Procedi. [Gal-ard è tornato ad usare il trasmutatore ad impulsi] Dimmi, per favore RV12SM-701: il Fondatore Primo era capitano della squadra di football?

– Ah... così va molto meglio! Non mi sembra più di avere ingoiato funghi aztechi mischiati a madora. Ringrazia per conto mio lo smilzo che hai là dietro. No, il Puntale l’ho visto provare a calciare un pallone solo in una circostanza, e precisamente quando andammo in gita pasquale ai prati di Sant’Onofrio, alle pendici del Gianicolo. Quel giorno si giocò a sfratto, che consisteva nell’impugnare per una maniglia una grossa palla piena di crine di cavallo e, con un movimento roteatorio a fionda, vibrarla verso il campo avversario; un esercizio che rinforzava spalle e pettorali, oltre che i bicipiti. Poi Giggi si mise in porta e incassò diversi goals, perché non voleva gettarsi sull’erba per tema di graffiare le ginocchia. La unit dei footballers s’impinguò tra il 1901 e il 1905 principalmente per l’azione spassionata di Sante, ma anch’io diedi un contributo. Infatti, nel 1903, a un ricevimento per le comunità di lingua spagnola, conobbi tre fratelli giunti dall’Argentina: Ernesto, Pedrito e Italo Cerruti. Sapevano abbastanza del gioco, che nell’area platense aveva avuto sviluppo grazie agli inglesi, per entrare nell’undici della Podistica.

Ernesto, che mostrava un eccellente controllo della palla, Masini lo posizionò in attacco. Pedrito, robusto e alto, bravo pure nella lotta libera, divenne il perno della difesa. Italo era un jolly, utile dappertutto. S’erano tesserati al biancorosso Audace Club Sportivo, che aveva la sede al Corso ed era una polisportiva importante, ma con facilità li convinsi a passare nelle file della Lazio. Per un anno e mezzo circa, "los Hermanos" costituirono l’ossatura della squadra. Immune al fascino esotico del gioco del calcio, durante tutto il 1901 Giggi si dette da fare per migliorare i suoi tempi sulle distanze lunghe. Ma, giunto l’autunno, disse di avere capito una cosa fondamentale: se non si fosse trasferito in Francia, dove c’erano piste in carbonella e operava il gotha del pedestrianesimo, non avrebbe mai appreso le tecniche moderne della marcia, quelle che gli avrebbero consentito l’upgrade. Partì dalla Stazione Termini la domenica sera del primo dicembre. Lo accompagnammo, da vicolo degli Osti fino al binario uno, io, Bruto e Arturo. Giacomo già stava a Bruxelles, per un business di compravendita di preziosi che aveva iniziato. C’era, per l’appunto, l’accordo che il fratello l’avrebbe raggiunto in Belgio.

Fu un distacco commosso. Giggi ci promise che sarebbe tornato a mostrare le meraviglie della "souplesse", la marcia alla francese. So che per vari mesi abitò a Lione e a Parigi. Non passò molto tempo che cominciarono ad arrivare notizie, per le vie più traverse. La principale fonte erano le foto che comparivano sui giornali. Ricordo un numero del 1902 de La Stampa Sportiva, il settimanale torinese che inseriva vere fotografie degli atleti. Vi si vedeva il Gigio in posa tra due fuoriclasse locali, Charbonel e Janvier. Albert Charbonel era uno degli eroi di cui parlavamo con reverenza a via Valadier, campione di Francia di maratona nel 1899, mentre l’altro doveva essere un marciatore professionista. Per stare vicino a quei due, il Puntale aveva staccato il primato continentale amateurs dell’ora sulla pista del Racing Club al Bois de Boulogne, gareggiando nei ranghi della Unione Sportive de l’Oueste ma sempre confermando a tutti che proveniva dalla "Lazio" di Roma. S’era fatto crescere una folta barba, che gli dava un aspetto maturo e deciso. Tutto bardato, con gli stivaletti di pelle morbida allacciati sopra le caviglie, come d’uso tra i marciatori, e ginocchiere a protezione delle delicate rotule, più la berretta a visiera di cuoio, in stile ciclista. Non indossava il maglioncino elastico bianco accollato, quello da lui preferito che l’avevo veduto infilare in una delle valigie.

Come promesso, un giorno tornò da noi a salutare, assieme a Giacomo, profittando che dovevano completare il trasloco a Bruxelles. Il nuovo business, ora, era una società di importazione di frutta e verdura. "Non sapete che schifezze mangiano, da quelle parti! E i cavolini di Bruxelles ve li raccomando..." diceva Giacomo. Tito Masini propose a Giggi di far parte della giuria della quarta edizione della Castel Giubileo, ridenominata Premio Lazio e che indicevamo nel giorno del Natale di Roma. Lui gentilmente si prestò. Tuttavia, non volle assolutamente farci vedere il suo stile di marcia, nel timore di svelare i segreti che aveva rubato con gli occhi a contatto con i grandi della marcia internazionale. Da certe sue frasi, dai sorrisetti sibillini, capimmo che il gap tecnico tra lui e noi s’era andato ampliando. Comunque, al momento di ripartire Giggi promise: "Amici, porterò il nome della Lazio nel mondo!" La sensazione che non scherzasse fu confermata negli anni successivi, quando leggemmo dei record strabilianti, in Belgio e in Francia. Pareva proprio che l’antico sogno di diventare un crack degli sports athletiques si fosse avverato. Non altrettanto poteva dirsi della faccenda di guadagnarsi la pagnotta, che rimaneva affidata ai commerci e ai traffici, forse anche con la mano lunga, di Giacomo. Poi, un brutto giorno, ci giunse la notizia della sua morte, avvenuta per una polmonite. Era il 1908 e, a quel punto, noi della Podistica già ci eravamo divisi in due tronconi, inevitabile conseguenza di interminabili discussioni sui carichi degli allenamenti, gli orari e le tabelle di marcia.

– Quando arrivò esattamente la spaccatura. Hai una data?

– Per favore.

– Sì, certo. Per favore, RV12SM-701.

– Allora... vediamo... scorriamo un po’ questi fantomatici libri: verde, turchese, vermiglio, arancio, giallo canarino, nero polvere da sparo, bianco stronzio: ci sono! Dobbiamo partire dall’estate del 1903, quando ci fu la novità dell’apertura al pubblico in forma permanente e gratuita di Villa Borghese, ribattezzata Umberto in memoria del re assassinato. Divenne subito uno dei posti buoni per il football. Scegliemmo dapprima il Galoppatoio, proprio sotto alla Latteria Bernardini, e quindi, due o tre anni dopo, arrivò il Parco dei Daini, uno spiazzo erboso a due passi da Porta Pinciana. A piazza d’Armi, intanto, il socio Alberto Canalini, che di mestiere col fratello Giuseppe faceva il falegname e aveva la bottega a via Valadier, costruì due vere porte di legno. Esse mandarono in pensione i mucchi di vestiti impilati a mo’ di pali, che inevitabilmente si inzaccheravano di fango e pioggia. Le porte di Canalini seguivano alla lettera le misure suggerite dal nuovo regolamento adottato dalla Federazione ginnastica, che aveva fatto piazza pulita di molte delle assurde norme precedenti, tipo il gioco diretto da una giuria, e introdotto le ultime acquisizioni del Board scozzese, come l’area di rigore rettangolare e il penalty kick dagli undici metri.

I due tempi di gara, però, rimanevano di trenta minuti. Ricordo che c’era un ragazzino, Amedeo Coraggio, al quale affidavamo la guardiania dei vestiti. Questo perché non mancavano i raid dei teppistelli di Borgo e Prati, che senza soste tentavano di rubare i portafogli e le chiavi di casa, e poi, se delusi, davano la caccia ai preziosi palloni per squarciarli con i coltelli. Ad un dato momento, guidati da Arturo, ci recammo al commissariato dei Prati a impetrare protezione. Facemmo così la conoscenza di un tizio panciuto, il maresciallo Pippo, che ci ascoltò con malcelata impazienza e infine sbottò: "E voi perché li provocate con questi calci? Che calci e calci, andate a casa mascalzoni!" E ci cacciò come se i delinquenti con la molletta fossimo noi. Allora, vista l’abulia delle forze dell’ordine, consigliai ad Amedeo di difendersi dagli assalti degli aspiranti bulli tirando pugni con le chiavi messe in un certo modo fra le dita. La cosa funzionò abbastanza. Il mobbing della teppa era possibile perché ancora il gioco lo conoscevano in pochi in città. Tra quei pochi c’era una unit formata da una quindicina di aristocratici che erano andati appresso ad alcuni sportsmen forestieri, costituendo il "Roman Football Club". Il loro campo di manovre era il Galoppatoio. Ma quando li avvicinammo, si rifiutarono sdegnosamente di ruzzare con noi. Precisamente, un buggero alto e biondo mi disse: "No sir. You cannot stay here. This is a private party. Please, leave the area marked off by the yellow and red flags immediately".

– Era la futura Associazione Sportiva Roma, i "romanisti", non è così?

– Hai centrato in pieno il leopardo, Bobo: erano proprio gli antenati dei romanisti! Infatti, uno di loro aveva portato da Londra delle maglie invernali jersey rosso porpora, filettate d’oro al collo e alle maniche: gli smalti imperiali. I calzoncini li avevano bianchi, le calze nere con i risvolti giallorossi. Tutta autentica fornitura sportiva da negozio, e non rimediata o adattata. Trasvolavano a Villa Umberto, gli arroganti. Una banda di principi, conti, marchesi e baroni, con un gendarme a cavallo a controllare. Mai visti nella plebea piazza d’Armi. Li guidavano due svizzeri, i fratelli Meille. La prima squadra con la quale si abbassarono a mischiarsi, alla fine, fu proprio la nostra. Intendo la Virtus. Ma già i sangueblu non c’erano più.

– Hai detto Virtus? Come "Virtute siderum tenus", il motto di Terminus-M? Per favore, spiega meglio.

– Il Club Sportivo Virtus venne fondato alla fine di novembre del 1903, per ripicca. Precisamente, su uno strappo di Carlo Venarucci e dopo un litigio con Romano Zangrilli. "Lallo" era uno studente figlio d’un medico, l’altro stava al primo anno d’Ingegneria. Si scambiarono frasi affilate a più riprese, per cui alla fine non trovarono di meglio che semplificare il colloquio con una scazzottata. Ma non credere che il sentimento di fratenità e le vecchie onorate abitudini fossero per questo tramontate alla Lazio, negli ultimi tempi della mia militanza. C’era sempre "pizza e burro”: un soldo di pizza e uno di burro spalmato sopra. C’era "l’ultimo che arriva chiude la porta!". C’erano le carte napoletane macchiate di unto e le piccole sfide e poste. C’era la liretta da risparmiare per la pigione. Ed erano tutti sacrifici personali che ci univano, ponendoci nella nobile condizione di passare il tempo insieme in allegria. Venti o trenta, sbucavamo di corsa da via Valadier per i Mellini, attraversando via Cavour uscivamo come bolidi su via di Ripetta. Lì c'era il negozio di castagnaccio con i pinoli. L'ultimo pagava per tutti... se aveva i quattrini. Poi, nel maggio del 1903, Sante trovò la nuova sede della Lazio, a via Pompeo Magno civico 86, sempre ai Prati. Troppo comodo restare in zona, a un tiro di schioppo da piazza d’Armi e dalla "pista" di viale delle Milizie.

Noi del CS Virtus – oltre a me erano entrati Massa e Monarchi, e poi Tomassini, Garroni e Zanchi –, come primo atto stabilimmo la sede a via Orazio 13, non molto distanti dalla Podistica. Ora, devi sapere che "Cirunave" si distingueva per essere uno stilista meraviglioso, che usava la sola punta del piede per appoggiare ed esibiva una falcata elegante ed elastica. Nel marzo di quell’anno, aveva rosicato moltissimo per il quarto posto al Gran Premio Lazio, lui che s’era illuso di trionfare a mani basse. Nella sconfitta aveva però fatto bingo, perché il vincitore, un certo Ferri, l’aveva messo al corrente dei sistemi di training adottati al nord, tratti da manuali inglesi e francesi. A posteriori (molto a posteriori), posso dire che quella fu la scintilla da cui partì l’incendio. Siccome non tutto il male viene per nuocere, la presenza delle "vu nere" della Virtus – io stesso mi feci cucire una V enorme su due magliette, una rosa e l’altra bianca – stimolò non solo gli esercizi di corsa e marcia ma anche il football. Venarucci, dopo un rapido giro di consultazioni, decise d’impiantare il team, convinto che non nuocesse alle attività atletiche. Bastava cambiare il modello delle calzature: scarpette nere, leggere e a punta, modello Spalding per chi ci aveva i denari, per gli amateurs' podisti; solidi scarponcini di cuoio, rinforzate le suole da placchette metalliche con i chiodi imbullonati, per i signori footballers.


UN DRAPPO E UN’AQUILA

– Per favore, RV12SM-701, mi sapresti dire qualcosa su Fortunato Ballerini. Dalle Cronicles, risulta un personaggio che ha influito sulle sorti della Società Podistica Lazio.

– Ci stavo giusto arrivando, Bobo. Sua eccellenza il commendator Ballerini entra in scena nel 1904. O, almeno, fu quello l’anno in cui l’incontrai per la prima volta. Accadde a fine gennaio, quando noi gruppi dediti agli open games ci consorziammo nel Club Podistico Romano. La riunione avvenne a via Pompeo Magno e c’era Ballerini a dirigere. Lui lavorava al Ministero di Grazia e Giustizia ed era un pezzo grosso della Federazione ginnastica, tutti lo conoscevano nell’ambiente sportivo cittadino. Lo vedevi ai concorsi e raduni polisportivi, ai brevetti sia podistici che ciclistici, e anche a quelli di nuoto invernale. Giocava bene a tamburello, la sua passione assieme alle escursioni in montagna, forse perché era nativo di Firenze. Frequentava il poligono alla Farnesina e, in pratica, lo potevi chiamare un globe-trotter dello sport, a dispetto del fatto che viaggiasse sui cinquanta. Il nuovo ente, secondo Ballerini, doveva regolare l’ambaradam, appianare gli eventuali dissidi tra di noi. Mi pare furono due le riunioni, e alla seconda accettò la presidenza. Vicepresidente eleggemmo Romualdo Birri, un insegnante che all’Esquilino aveva dato vita a un circolo, il Fulgur, che poi assorbimmo nella Virtus. Nel CPR io stavo alla segreteria assieme a Venarucci e a Golini, che ancora era uno della Lazio. L’onesto Masini fungeva da tesoriere. Tito era diventato il vicepresidente della Podistica, mentre la presidenza la teneva il cavalier Giuseppe Pedercini, un lombardo che abitava ai Prati. Nel primo direttivo c’era Guido Baccani, il futuro manager del football.

La situazione del football, in quei mesi a Roma, viveva una specie di stallo. Il professor Tifi, e con lui gli altri della SGR, si andava sempre più disinteressando al gioco, per il fatto che il velodromo Salario era in fase di demolizione e vi si poteva entrare solo di straforo. Inoltre, via via che le regole si uniformavano con quelle vere, i ginnasti capivano che la fantasia, l’individualismo e l’avventura, non l’ordine militaresco, conferivano varietà e slancio al gioco. Le altre squadrette di studenti, seguendo la deriva della "Roma", s’erano sciolte come neve al sole. Per quel che ricordo, rimanevamo solo noi della Virtus e il gruppo della Lazio; più il Roman Football Club, che giocava all’inglese e ci schifava alquanto. Dagli incontri del CPR, scaturì la volontà comune di allestire una prima sfida Lazio-Virtus. Noi vu nere ci sentivamo abbastanza pronte, giacché avevamo in poco tempo raggiunto una cifra doppia di soci rispetto a loro, che a malapena superavano i trenta. Tanti tesserati equivalevano a tanta grana nelle casse sociali. Suggerii allora di procurarci un set di tenute da footballer. Ce le facemmo spedire dal negozio Viganò di Torino direttamente al magazzino delle Sorelle Adamoli, che stava a piazza Venezia al piano terra del palazzo dal quale un giorno si sarebbe affacciato Benito Mussolini.

Ricordo che quando aprii il pacco stralunai: quindici splendide, nuove fiammanti, maglie di flanella di lana all’ultima moda, ovvero metà bianche e metà nere col colletto rovesciato. Le pagammo una bella cifra, ma appena le sciorinai sul tavolo, i miei consoci si buttarono a provarle come signorine debuttanti in società col vestito per il ballo. Per farla breve, non resistemmo alla tentazione di indossarle subito. La prova andò in scena a piazza d’Armi. Immagino che uno della Podistica stesse lì attorno, perché Sante diede l’incarico alle sue sorelle di cucire maglie simili, per non fare la figura dei perdedores sin dinero. Si sapeva che molti amici si sarebbero radunati per assistere al grande match. Così fu, in effetti. La domenica mattina del 15 maggio, sui prati di piazza d’Armi, i miei ex soci si spogliarono dei vestiti borghesi e mostrarono i soliti knickerbockers militari neri con la banda bianca. Più questi rozzi camicioni bianchi e celesti! Alcuni a scacchi, altri bipartiti come le nostre maglie, che però avevano i colletti flosci a due colori e i bottoncini lungo tutta la blusa, come nelle giubbe degli ufficiali. Ma loro s’erano semplicemente arrangiati, le sorelle di Sante costrette tutta la notte a lavorare di ago e filo. Le brave signorine avevano usato la flanella di cotone delle bende per i neonati, un celeste molto acceso che, sul momento, ispirò una presa per il culo da parte di Carlo: "Oh, guarda un po’, mo’ so arrivati li bebbè!". Maglie scombinate e disuguali, sì, epperò con due bottoni a chiudere i colletti, le maniche lunghe, un buon lavoro tutto sommato.

Bardati in quel modo, che sembravamo jockeys professionisti alle Capannelle, tutti e ventidue salutammo al centro del campo, avvedendoci che c’erano all’ingiro almeno centocinquanta anime belle, comprese le signore e le signorine con i parasole e i bambini in braccio o al piede. Immagino che fu in quell’occasione che il tifo di matrice calcistica fece la sua primissima prova a Roma. In precedenza, il fenomeno aveva riguardato le esibizioni di lotta e di scherma, e ovviamente gli spettacoli agonistici col totalizzatore: corse su pista di ciclisti e di cavalli, il gioco del bracciale, il tamburello toscano e la pelota negli sferisteri. Noi della Virtus avevamo contattato un noto studio affinché mandasse qualcuno ad eseguire fotografie col treppiedi. Visto che di una sfida si trattava, e quindi necessitava una posta in palio, proposi a Masini che il team sconfitto avrebbe saldato la parcella. Pizzarda si consultò con Sante e l’accordo venne siglato. Sull’andamento della partita, non ho che frammenti confusi. Come arbitro loro avevano trovato un insegnante della Ginnopodistica Esperia, Vittorio Quagliotti si chiamava. Decise d’imperio che il gioco sarebbe durato quattro tempi da venti minuti l’uno, con un intervallo centrale di dieci. Il nostro unico "inglese", Gregoire, che in realtà era un russo che aveva vissuto a Parigi, più bravo a rugby che a football, si oppose alla cosa. Ma intervenne Balestrieri a ribadire, con la sua solita parlantina efficace, che l’accordo era quello e basta. Quagliotti diresse alla voce, come fossimo suoi studenti.

Nella tasca della giacca, arrotolata con una cordicella, teneva una copia della Domenica del Corriere nella quale s’intravedeva una tavola a colori sulla guerra russo-giapponese in Manciuria. E quel manganello improvvisato, ogni pochi minuti, minacciava di calarlo sulle nostre zucche se non obbedivamo ai suoi ordini! Pure senza los Hermanos, il buon Sante e i suoi mates ci sovrastarono nel ritmo. Lo devo ammettere. S’erano allenate, le carognette, correvano come lepri e zompavano come springboks. Il primo quarto segnarono due volte. Sante ne imbucò un terzo nel secondo quarto. Dopo l’intervallo non mutò lo score, perché la fatica aveva rallentato tutti. L’errore fu piazzare Edoardo Cammarota in marcatura su Ancherani. Edo era un gigante rosso di barba, amico di Carlo e anche lui aspirante ingegnere meccanico. La passione per il volo l’avrebbe condotto di lì a poco a una morte tragicissima sui prati di Centocelle. Ma anche quel giorno il precipizio gli fu fatale, perché la preda gli scappava da tutti i pizzi e non aveva tra le mani un potente Express per fulminarla. Sante aveva questa sua dote speciale dello scatto breve, per cui guadaganva quei due metri utili al tiro in porta. "Camma" no. Da bravo muscolare, aveva bisogno di mettere in movimento il lungo compasso delle gambe. Ma intanto, l’altro s’era portato via la palla e si presentava al nostro goalkeeper. Monarchi, Venarucci e Corrado Corelli, loro sì agili e veloci, tentarono in tutti i modi di fermarlo, ma senza risultati. Alla fine, Sante fu issato in trionfo. Immagino che il vermouth d’onore, poi in sede, sia stato obbligatorio.

– Un camicione bianco e celeste, hai detto RV12SM-701. Solo una coincidenza, oppure fu quella giornata che determinò i colori futuri della "Lazio"?

– Hai fatto centro un’altra volta. Credo proprio che l’orsacchiotto, lì nell’angolo alto, te lo meriti, Bobo. Successe che Ballerini rilevò Pedercini alla presidenza e, in quattro e quattr’otto, cominciò una nuova storia per la Lazio. Esperto com’era di direzione di società ad altissimo livello, quello comprese al volo che una delle prime azioni, per recuperare la situazione, fosse varare un vessillo, un simbolo unificatore. Finita l’estate, in una quarantina si ritrovarono al ristorante campestre La Sora all’Olmo. Stava alla fine di via Angelica, in riva destra a nord del ponte: posticino simpatico, economico e battutissimo dai canottieri; anche noi della Rari Nantes ci svolgevamo il convivio che apriva la stagione agonistica. All’Olmo, Ballerini presentò il drappo, a strisce bianche e celesti orizzontali col ricamo "Società Podistica Lazio" in filo d’oro. Disse che la bandiera era giustificata dalla maglia dei "calcianti" ma, soprattutto, imitava quella della Grecia. La Grecia che aveva riportato in vita le Olimpiadi che lui, assieme ad alcuni suoi amici nobili piemontesi dei quali mi sfuggono i nomi, intendeva ospitare a Roma nel 1908. Cosa che non riuscì per niente.

I politicanti misero i bastoni fra le ruote, la Federazione ginnastica ritirò l’appoggio e, nonostante una visita personale del barone de Coubertin, che Sciaboletta condusse a Piazza di Siena, la Città Eterna nel 1906 diede forfait. Ballerini parlava di ideali amatoriali e principi spirituali legati al movimento olimpico, che la Lazio doveva fare suoi; il tutto grazie a una bandiera che non aveva l’eguale nel regno. E sai una cosa? Io sono stato il primo ad ammirarla. Infatti, tutte queste informazioni le ebbi da Massa, che un pomeriggio invitò me e Bruto a casa della fidanzata, Anna Tobia, dalle parti di piazza Mazzini. Trovammo la ragazza seduta a un tavolino con la Singer sotto una finestra, che stava giusto ricamando la bandiera, grande e veramente magnifica; nonché parecchio simile a quella del Racing Club, come osservò subito Bruto. Appoggiate su uno sgabello pendevano, a sfiorare il tappeto, fasce bianche e celesti del tipo a tracolla. Sulla punta della flag, Anna aveva annodato un nastro biancoverde, che significava l’unione dell’Esperia alla Lazio. Assorbimento che era stato pilotato da Ballerini e che fu la trasfusione salvavita per la società. Triplicò i tesserati e le donò un campione del valore di Pericle Pagliani, lo strillone sabino che vendeva giornali per strada correndo a perdifiato.

– Perfetto, RV12SM-701. La "Lazio" divenne "olimpica" nel 1904, dunque. Una cosa ammmirevole, sulla scorta degli studi che ho eseguito riguardo alla storia degli Olympic Games. Tuttavia, non mi è chiaro come mai la società assunse un’aquila come simbolo.

– Per l’aquila, un po’ c’entra il caso e un po’ il commendator Ballerini. La storiella me la raccontò Bruto quando, ai primi di autunno del 1905, a una riunione polisportiva a Villa Umberto, si presentò con un distintivo biancoceleste appuntato alla berretta. Cos’è quello? chiesi. E lui: Non lo sai? Questa spilla è il nostro nuovo stemma. A Zangrilli, quando ha vinto la gara dei trenta chilometri di marcia alle feste sportive di Vercelli, uno dello Sport Pedestre Genova gli ha regalato il suo distintivo, uguale a questo ma biancorosso. Romano l’ha mostrato a Masini, che ne ha parlato al Presidente. Ballerini, quando ha visto l’aquila, ha detto che era perfetta per la Lazio. Perché l’aquila vola alta sopra le miserie umane ed è l’unica creatura sulla Terra che può fissare il sole impunemente. Allora siamo andati con la spilla al laboratorio di Galileo, a via de Calboli. Abbiamo consegnato ai lavoranti il bozzetto disegnato in sede sul consiglio del Presidente. Quelli, bravissimi, hanno copiato la spilla pari pari, con l’aquila che regge il cartiglio nel becco. Solo, invece della croce rossa in campo bianco, sullo scudo abbiamo messo le sette strisce verticali alternate bianche e celesti. Una cosa massonica, pare: ci sono dentro i tre pilastri della Forza, Saggezza e Bellezza. Non è bellissima? Ma non te la posso dare, perché è riservata a noi della Lazio. Ritorna nel nido e l’avrai.

Naturalmente, la spilla di metallo smaltato non era sufficiente per ritesserarmi alla Podistica. Tra l’altro, con Carlo ci allenavamo bene, avevo eguagliato il primato italiano sui 400 metri piani e mi sentivo un dio, con quella V nera sul petto. Inoltre, alla fine di quello stesso 1905 arrivò alla Virtus come segretario Balestrieri, che aveva mal digerito gli organigrammi di Ballerini. Disse che a via Pompeo Magno si sentiva "imbalsamato". Immagino alla stessa stregua di quel povero boscimane che vidi a Johannesburg, esposto in vetrina come una bestia rara, all’ultimo piano della Downhill Tower. Col regime di Apartheid instaurato dai nazionalisti afrikaner, anche un’aberrazione di quel genere era concepibile [15]. Ballerini, con i suoi metodi spicci da burocrate, con le ampie conoscenze di generali dell’esercito, alti funzionari del Comune e politicanti di cui disponeva, avrebbe formato una super società, negli anni che seguirono. Mentre Arturo emigrò a Milano a fare il giornalista sportivo, così che noi, nel giro di un lustro, chiudemmo baracca e burattini. Quindi ci fu la guerra di Libia, quella con i bersaglieri che da Trastevere partivano per il bel suol d’amore. Blimey! Già ero renitente alla leva, e allora me ne andai pure io in Africa; epperò in quella nera, col pericolo d’incontrare gli Gnam Gnam, come mi burlava quel mattocchio di Righetto Toti [16].

– Va bene, RV12SM-701. Credo che per questa sessione basti. Solo un’ultima domanda: perché la differenza di colori e simboli tra le due squadre, la "Società Sportiva Lazio" e la "Associazione Sportiva Roma", fu sufficiente, vent’anni dopo le vicende che mi hai narrato, per scatenare un odio duraturo, seguendo una modalità assai diversa da quella che intercorreva tra la Lazio e la Virtus?

– Sì, è vero. Del fatto che i "laziali" e i "romanisti" si guardassero in cagnesco – e intendo i tifosi non gli atleti – ebbi la conferma nel 1928, quando tornai a Roma a sbrigare certi affari rimasti in sospeso. Fu allora che m’imbattei per la prima volta nelle legioni dei supporters della "Roma", che si beffavano di quelle della "Lazio". Dicevano ai loro nemici di non essere veri romani, accusandoli di sostenere un club che, al suo nascere, aveva tradito gli smalti dell’Urbe e il suo glorioso simbolo: la Lupa etrusca con i gemelli Romolo e Remo. Però, vedi, quella era fondamentalmente gente ignorante. Ai tempi miei e dei miei amici podisti, era vietato dalle autorità comunali usare il simbolo della città per conferire rispetto a una ditta o a una società, sportiva o meno che fosse. Questo era il motivo per cui nessuno innalzava la Lupa. Stelle tante, ma Lupa niente! La AS Roma poté fregiarsene perché, sotto il regime fascista, tutto era mutato. La Lazio, addirittura, non esibiva più l’aquila sullo scudo, ma un fascio. Per quel che riguarda i colori, te l’ho rivelato: la colpa fu mia. Se poi è da considerare una vergogna scegliere una divisa sky blue, come il mattino quando è limpido e odora di buono! La verità è che non bisogna dare retta agli altri, o farsi condizionare dagli avvenimenti decisi dai capricci del Fato. Occorre essere consapevoli di quel che si è: If you can meet with Triumph and Disaster and treat those two impostors just the same. E ora mettimi pure a nanna, Bobo, che ho sonno. Non mi svegliare più: il tuo mondo non è il mio.

EPILOGO

Era galattica standard 100,261, data 20-8, refectorium del centro di studi storici superiori di Terminus-M. Discorrono, seduti a un tavolo, l’esperto di storia romana antica Jul-zensa e il suo amico e collega Gal-ard.

– Allora, non mi hai ancora detto com’è andata l’intervista al rivivificato del ventesimo secolo, quella su cui puntavi tanto.

– Il risultato è stato soddisfacente, perfino superiore alle aspettative. Il soggetto si è dimostrato collaborativo, salvo rifiutare di continuare i colloqui verso la fine. Ora l’abbiamo rimesso in criostasi. Potrebbe tornare utile a Zivec-gor per le sue ricerche sulle persecuzioni razziali in Africa.

– Eccellente! A quando l’uscita del saggio?

– Non so, ho un’incertezza sulla teoria di base: le violenze di questi cosiddetti "supporters", i fanatici per il gioco del football così pervasivo nell’Ultima Era, sono da considerarsi una canalizzazione surrogativa delle tendenze omicide della specie, oppure una semplice conseguenza collaterale delle stesse? E per quale motivo a Terminus-M la contrapposizione raggiunse un impatto così profondo a livello sociale? Lo sai che, nel ventunesimo secolo, i simboli delle due fazioni, la "SS Lazio" e la "AS Roma", adornavano le sepolture? Una volta che avrò risolto questo dubbio, inizierò senz’altro il saggio.

– Se ti può aiutare, nell’epoca della Roma imperiale dei secoli I-IV, di cui come sai mi occupo, si possono riscontrare fenomeni similari. Su una sepoltura monumentale, e anche in letteratura, ho rinvenuto elogi a un vincitore di corse delle bighe, lo spettacolo pubblico che, andando in scena in grandiosi edifici chiamati "circhi", precorse il football degli "stadi" di cui tu mi dici [17]. E anche lì, esistevano franchigie distinte tramite i colori che i fantini portavano sulle vestimenta. Le percezioni variabili della luce che, a cagione dell’ampio spettro visuale di cui dispongono gli Homes, hanno sempre rivestito molta importanza nella loro società.

– Interessante, caro Jul. Dobbiamo assolutamente dedicare tempo alla discussione di questi nostri temi comuni. La Storia è un viaggio sempre affascinante e misterioso, no? E le specie aliene di questo specifico settore della galassia sembrano le più difficili da decifrare. Il football, ordunque, che sarà stato mai? Forse solo un nuovo espediente a paradigma religioso, escogitato per non cadere preda dell’orrore del Vuoto. Intuizione che abbiamo visto percepita anche dalle specie senzienti le più primitive. Sei d’accordo, Jul?

– D’accordissimo, caro Gal. Necessitiamo di approcci multiscalari per fare ordine nel passato degli Homes. Passami un altro po’ di quel Garum, per cortesia. La cucina qui è ottima, come lo doveva essere secoli umani fa. Almeno per questo, siamo nel posto giusto.



Note:[modifica | modifica sorgente]

  1. Albero molto comune nelle aree subtropicali africane o brasiliane, con fiori violacei riuniti a grappolo.
  2. Ignis era il soprannome di Roggero Musmeci Ferrari Bravo, spadaccino di pelo rosso, noto anche come "Bravo bis!". La sua tomba sta al Verano, a poche decine di metri da quella di Fortunato Ballerini. Originario di Palermo, vestito con un cappellaccio scuro che lo faceva somigliare a un moschettiere della regina, habitué dei caffé del centro, Ignis era parecchio ambito come padrino nei duelli. Su di lui circolava un aneddoto: una volta, gli capitò di subire un fendente che gli determinò una quarantina di punti di sutura dal bordo dell’occhio sinistro alla mascella. Ma per non dare soddisfazione all’avversario, appena colpito si limitò a profferire una sola parola, non accompagnata da alcun gemito di dolore. Disse: "Toccato!", e la storiella divenne subito famosa.
  3. La "scuola della Cicciata" stava dietro il Pantheon; lì s’insegnava l’arte della puntura di coltello che non arrivava agli organi vitali, ma un paio di centimetri sotto l’epidermide. Nella Roma umbertina, i bulli avevano la cicciata e i signori il duello alla sciabola. Pochi si avventuravano per le strade, di notte, con la spada o la rivoltella, armi senz’altro più letali.
  4. Mesones ha fatto una battuta, evidentemente non compresa da Gal-ard. Nel secolo XIX il Tevere, prima di essere contenuto dai muraglioni nella sua parte urbana, inondava le aree centrali dei vecchi rioni. Per cui si usava apporre lapidi che indicassero l’altezza raggiunta nei casi più eccezionali dalla piena. Vi si leggeva: a questo punto salirono le acque del fiume, ecc. La celebre statua parlante Pasquino, che impersonava il carattere filosofo e ironico dei romani, s’attaccava a tutto pur di fare dello spirito. Donna Olimpia Pamphili, cognata del papa Innocenzo X, aveva per amante, ossia tra i suoi amanti, un certo conte Fiume. Un giorno, alla statua di Pasquino fu posto un quadro a lapis rosso, rappresentante una donna nuda che si toccava con un dito della mano sinistra le parti pudende. E sotto, si leggeva: Sin qui arrivò il fiume.
  5. I tre stili che andavano per la maggiore prima dell’avvento delle "notate buzzurre", ovvero il trudgeon, l’over-arm-stroke e il crawl. La "notata allargata" era una sorta di rana, tipica dei marinai; il "braccetto", di gran lunga il più popolare, si faceva con le gambe a rana e la passata laterale di un braccio, sosta, e l’altro braccio; la "notata dritta", o "di punta", era quasi in verticale, con un braccio solo. Infine, se ci si voleva riposare, c’era la "notata sul dorso", anche questa con gambe a rana ma senza passo alternato delle braccia all’indietro, come si esegue oggi.
  6. Crediamo che Mesones qui alluda alla leggenda del viaggio di Enea in Italia formulata da Damaste, uno storico oriundo della regione di Troia. Secondo Damaste, Odissseo e Enea si erano recati insieme nelle aree del Mediterraneo occidentale occupate dalle colonie greche, e Rhome era stata la donna troiana che aveva posto fine ai viaggi bruciando i vascelli dell’infaticabile eroe. Damaste era confidente dell’ammiraglio di Pericle, Diotimo, il quale conduceva una intelligente politica di espansione a ovest e quasi fu il fondatore di Neapolis, dove istituì il dromos per la sirena Partenope. Così, chi afferma che Roma sia femmina, in fondo ha ragione.
  7. Si riferisce a Dorando Pietri, il maratoneta carpigiano che assurse a fama mondaile dopo avere "vinto e perso" ai Giochi Olimpici di Londra del 1908. Dorando emigrò in America dove fece il professionista di corse sulle lunghe distanze, guadagnando tanto da aprire un albergo di lusso a Carpi. Il grande presidente della Podistica Lazio, Fortunato Ballerini, lo conobbe bene ai Giochi londinesi, e lo definì un essere moralmente spregevole, per la sua tendenza a mercificare lo sport.
  8. Il più famoso cocktail di matrice peruviana, che combina il distillato d’uva Pisco col succo di limone, lo sciroppo di zucchero di canna, l’albume d’uovo e il bitter.
  9. Si trattava dell’ex Mecklenburg, un’imbarcazione da trasporto passeggeri costruita a Stettino e di proprietà della Società Italiana di Navigazione Marittima e Fluviale.
  10. Mesones sta citando il poeta Federico Garcia Lorca.
  11. Per uno strano caso del destino, quel punto corrisponde oggi all’ingresso del Circolo Canottieri Lazio.
  12. La Podistica Lazio si aggiudicò tre titoli tra il 1906 e il 1908, di cui uno per scratch. La FIRN iniziò a indire campionati ufficiali di pallanuoto dal 1912, senza riconosceree le vittorie delle società capitoline del periodo pionieristico. La sfilza dei titoli nazionali parte col successo del Genoa Football Club, i celebrati grifoni rosso-blu campioni di football che avevano aperto la sezione di waterpolo nel dicembre del 1911, grazie all’arrivo di Sanders dalle file della Rari Nantes Genova.
  13. Mesones qui accenna al Velodromo "Roma" al Salario, inaugurato nel 1895 per dare il là al business delle corse velocipedistiche. Il suo ingresso principale stava a via Isonzo, aveva uno spazio centrale sterrato di ventimila metri quadri, la pista intorno, tribune per un totale di ventimila spettatori e un impianto di illuminazione elettrica. Vi si disputò la prima esibizione di football durante un concorso ginnico, da parte di due formazioni di liceali di Udine e Rovigo. Venne demolito al volgere del 1904.
  14. Il footballer della Forza e Coraggio si chiamava Ulderigo Tatta, ed era un diciannovenne nativo di Sutri. Il torneo si svolse la domenica del 27 gennaio 1901. Per un secolo se ne persero le tracce. E non sembra che le Cronicles l’avessero recuperata, l’informazione storica, almeno fino all’intervista con Mesones.
  15. Mesones opiniamo qui accenni a una torre di comunicazioni degli anni settanta dello scorso secolo, alta 270 metri.
  16. Possibile che si riferisca al viaggio di esplorazione in Africa che Enrico Toti svolse in bicicletta in quegli stessi anni.
  17. Il riferimento potrebbe essere a Flavius Scorpus, il campione della scuderia imperiale di Domiziano che assommò oltre duemila vittorie con i carri al Circo Massimo. Marziale lo cita nei suoi Epigrammi.'



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