Barghiglioni Carlo
Nuotatore, ciclista e podista. Detto "Zuavo" per via dei pantaloni molto larghi che usava in gara. Nato a Roma il 25 gennaio 1885 in Via di Montoro e battezzato a San Carlo dei Catinari. Deceduto a Roma il 3 gennaio 1976
Partecipa, con successo, a molte gare sul Tevere intorno al 1905. Ha partecipato anche a gare che prevedevano fasi podistiche, ciclistiche e natatorie (antesignane del moderno Triathlon). Nel 1903, insieme ai consoci laziali Macchi e Levantini, si aggiudicò il trofeo di "Marcia Classica". Diplomato come geometra. Era molto amico di Luigi Bigiarelli. Nel marzo 1914 si trasferì per lavoro a Marsiglia ma fu presto costretto a far ritorno in patria per lo scoppio della guerra. Combattente in prima linea nella Grande Guerra nel corpo degli Aerostieri, ha lasciato componimenti poetici da lui scritti in cui narra la dura vita al fronte. Ne pubblichiamo uno gentilmente donatoci dal figlio Egidio.
Fu insignito di Medaglia di Bronzo al V.M..
Si può ragionevolmente affermare, sulla base di ricerche e studi attualmente in corso da parte di LazioWiki (2018), che Barghiglioni possa essere stato uno dei soci che fondarono la Lazio.
Nel primo dopoguerra torna all'attività sportiva amatoriale partecipando ad alcuni Audax.
Ricognizione oltre il Piave
19 Giugno 1918
Stavo alla mensa, sceso dar pallone
che me chiama ar telefono er maggiore:
“deve recarsi come osservatore
Alla trincera,….a norde der Montello”.
Legai er cane, mannai a cercà Tranquilli,
montammo tutt’e due ‘n bicicletta
e pedalammo giù, verso Crocetta.
Era ‘r tramonto, ‘n ber tramonto d’oro,
sulle colline tutte ‘npennacchiate
er fumo grigio aveva l’orli rosa,
l’ombra ‘n basso invadeva già ‘gni cosa,
nell’aria sibilavan le granate.
Er nemico era stato già fermato
e piano piano ripassava er fiume
e je rodeva morto er tenerume
pe’ cui batteva co’ l’artijeria
tutte le strade della retrovia.
Le donne ritornavan dar lavoro
e qualcuna mancava tra de loro,
le brave donne morte ‘n mezzo ar grano.
Tornavano, e quarcuna canticchiava
le canzoni imparate dai sordati.
Rilucevano l’occhi innamorati,
biancheggiavano i denti ner soriso.
Arivati ar comanno era già scuro
er capitano co’ la pipa ‘n bocca
ci aspettava davanti alla bicocca
che je serviva pe’ dormi’ e p’ufficio.
Dar ponte de Vidor fino ar Montello
er fiume s’allargava nella curva,
tanti isolotti dalla rena furva
formavano le grave dette Ciano;
davanti a quelle le trincere nostre,
difese da elementi più avanzati
e da ‘n fregone de reticolati,
nell’offenziva aveveno tenuto.
Scendemmo ar fiume pe’ ‘na stradicciola
e se fermammo drent’un baracchino
sotto l’argine e lì da ‘n finestrino
guardammo avanti nella notte chiara
piena de stelle. Dalla riva opposta
era ‘n continuo balenio de vampe
e a tratti s’accenneva sulle rampe
delle colline. Là, dalla Serraglia,
un projettore, che guardava dritto
verso l’antro versante der Montello
verso Nervesa, dove ‘n ponticello
mezzo scassato dall’artijeria
serviva p’er passaggio della truppa
in ritirata, che passava er fiume,
er projettore je faceva lume.
Incontr’ a noi silenzio e tutto nero,
manco ‘n razzo pe’ completa’ la festa.
Bisognava sape’ che succedeva
e da lontano nun ce se vedeva;
se decise d’anna’ dall’antra parte.
Tranquilli, ner senti’ parla’ dell’acqua
da frascatano vero arricciò er naso,
pe’ cui me feci presto persuaso
ch’era mejo lassallo ‘n terra ferma.
Me presi allora quattro bell’arditi
de quelle parti, notatori boni
e sordati co’ tanto de cordoni;
se spojammo, restammo ‘n mutandine,
armati solamente de pugnale,
scarpe de feltro, bone, assai leggere,
che porteno le donne de Masere,
‘na lampadina e poi ‘na corda bona.
Ce salutammo, lì cor capitano,
sussurrai la parola alla vedetta
e dar reticolato, pe’ ‘na stretta
ce dirigemmo verso l’antro varco.
Se camminava piano ‘n fila indiana
e traversammo, senza inconvenienti,
vari canali e vari sbarramenti;
l’acqua era arta e la corente forte.
Nella sabbia frammenti e macchie scure,
dalla puzza capivi quer che d’era
e io me regolavo de maniera
de nun annacce addosso, pe’ paura
de qualche giocarello non esploso.
Sulla riva dell’urtimo canale
largo e profondo che nun c’era male,
se fermassimo ‘n po’ a riprenne fiato.
A destra, a valle, giù verso Nervesa
pareva er finimondo pe’ davero,
sullo sfonno der cielo tutto nero
de fumo, arrossaveno le rive
parecchi incendi e scoppi de granate,
un boato continuo e profonno
intronava l’orecchie e laggiù ‘n fonno
dalla riva sinistra, sulla strada
percorsa dalle truppe ‘n ritirata
er projettore a tratti riluceva.
La groppa der Montello se vedeva
nera nera, sur cielo illuminato
dalle vampe dei pezzi e dall’incendi
e punteggiata era la trincera
dalle fiammelle della mitrajera.
Nudi nell’aria fresca della notte
rabbridimmo silenziosamente.
Feci legà la corda ad un paletto
e risalimmo per un ber pezzetto
pe’ nun fasse porta’ dalla corente
e ce buttammo tutt’e cinque ‘nsieme.
La corda era pesante e ce tirava
e tutt’ e cinque assai se faticava.
Come Dio volle, arfine presi terra
ed aiutai l’arditi, poveracci;
legata poi la corda ben tirata
e assicurata ormai la ritirata,
doppo ‘n po’de riposo c’inoltrammo.
A pochi passi ‘n gran reticolato
ce costrinze a cambià de direzione;
risalimmo ‘n pochetto a pecorone
e ce buttammo tutti faccia a tera
che ‘n’ombra silenziosa s’avanzava,
s’arzava e s’abbassava ad intervalli;
quanno ce fu vicino, penzò Galli
co’ ‘na botta a sbattello giù pe’ tera.
Dalla trincea qualcuno aveva ‘nteso,
subito ‘n razzo sibilò nell’alto
e illuminò d’un tratto tutto quanto;
a noi quer razzo fece bene assai,
che potemmo vede’ dove stavamo
e, guardanno ar di là della bariera
vedemmo pure bene la trincera;
quanno fu scuro ce movemmo piano.
Imbavagliato bene, er priggioniero
attaccato alla corda, passò er fiume,
un’artro razzo ce fece ancora lume.
Eravamo bocconi, sulli sassi
della riva sinistra, Galli ed io,
‘na raffica passò sopra la testa
ed a momenti ce facea la festa;
finì la luce e ce buttammo in acqua.
Sartamo tutte le peripezie
der difficile viaggio de ritorno,
perché a momenti se faceva giorno
e la mitrajatrice, risvejata,
ce seguiva co’ qualche sventajata
e ‘na batteria nostra, da Crocetta
cominciò a sparà forte e pe’ disdetta
er priggioniero se sentiva male.
Come Dio volle, ritornammo a casa.
Er priggioniero, dalla cacarella
cantò assai mejo de ‘na raganella,
era ‘n telefonista e ne sapeva.
Me magnai dalla fame, ‘na pagnotta
drent’ar caffè, me presi ‘n bicchierino
e consolai quer poro ragazzino
de Tranquilli, tremante dalla pena.
Abbracciai Galli e l’antri tre compagni
e ritornai alla “nobile bavutta”
‘n tempo pe’ magna’ la pastasciutta.
Me fece er cane d’antro po’ de lagni.
Carlo Barghiglioni