Le Aquile della Lazio
LA STORIA DEL SIMBOLO PIÙ AMATO DAL POPOLO BIANCOCELESTE
Marco Impiglia
Introduzione
Il 9 gennaio del 2025, nella sala della Promoteca al Campidoglio, la Società Sportiva Lazio ha celebrato i centoventicinque anni dalla sua fondazione. Il protagonista assoluto dell’evento è stato Claudio Lotito, presidente della S. S. Lazio S.p.A., la branca calcistica della associazione. Alla presenza del sindaco Roberto Gualtieri, Lotito ha reiterato il suo desiderio di proseguire col progetto di ristrutturare il fatiscente Stadio Flaminio, così da farne la "casa" della Lazio. Un vecchio proposito, questo, giacché aveva adombrato l’ipotesi già venti anni fa, quando l’impianto non era ancora in rovina. Non stiamo qui a giudicare il pro e il contro dell’iniziativa, comunque lodevole in quanto viene a rompere una situazione di stallo non più sostenibile per la meraviglia architettonica creata al volgere degli anni Cinquanta dal genio di Pier Luigi Nervi. [Per la storia degli stadi Nazionale e Flaminio, vedi M. Impiglia, Il moderno Campo Marzio degli Agoni, in M. Fagiolo, A. Mazza (a cura di), I Monti dei Parioli e il "Nuovo Campo Marzio" della cultura internazionale, Roma 2022, pp. 360-379]. Ma che Lotito intenda andare fino in fondo alla questione lo si deduce da un dettaglio: nell’estate del 2024, l’allora falconiere della Lazio, lo spagnolo Juan Bernabé, battezzò "Flaminia" la giovane aquila reale che avrebbe dovuto un giorno prendere il posto dell’amatissima "Olympia", l’aquila di mare testabianca nata in Alaska e mascotte veterana della Società. Tuttavia, nel gennaio del 2025, il falconiere e proprietario dei due nobili rapaci si è reso responsabile di una violazione dell’etica professionale che ha mandato su tutte le furie il patron della Lazio, col risultato finale dell’interruzione del rapporto che durava da molti anni. Una vicenda alquanto bizzarra che ha sollecitato in cronaca importanti agenzie di informazione come la BBC, France 24, Euronews e il New York Times.
L’aquila genovese che arrivò in ritardo
L’aquila è uno tra i più diffusi simboli negli stemmi antichi. Questo perché quando l’usanza da parte delle famiglie feudatarie di abbellire la propria linea ereditaria mediante scudi figurati entrò in auge nell’Alto Medio Evo, di aquile ne volavano parecchie nei cieli dell’Europa. Il suo significato è evidente: essa esprime maestà, derivata dal fatto di essere stata innalzata nelle insegne dalle legioni di Giulio Cesare. Nella mitologia greca compagna di Zeus e custode del fulmine, l’aquila è l’unica creatura di cui si dice possa fissare impunemente il disco solare senza inforcare i Rayban. È vero che il passato ci chiede continuamente la sua revisione. Fino a pochi anni fa, vari siti laziali affermavano che l’aquila era stata l’emblema del club fin dalla sua fondazione. Asserzione che non ha retto alle nostre indagini, sulla scorta di una documentazione certificabile. Ed anche la prima investigazione, il libro Storia della Lazio pubblicato nel 1969 dal giornalista Mario Pennacchia, non menziona la parola aquila nelle prime cinquanta pagine. Il più antico documento con un’immagine dell’aquila risale al 17 marzo del 1906. Venne da noi scovato tra le carte dell’Archivio Storico Capitolino nel 2018, durante le ricerche che sarebbero sfociate nella pubblicazione del volume sulla Podistica Lazio. Tuttavia, la genesi della figura allegorica che sormonta lo scudo della Lazio è davvero complessa, tale che non la si può ridurre a un blocco di lettere d’archivio.
Infatti, poco dopo l’uscita di Società Podistica "Lazio" 1900-1926", libro patrocinato da LazioWiki e dalla S. S. Lazio, mentre noi si stava "surfando" il web alla ricerca di materiali vintage, ci imbattemmo nell’offerta di un oggetto stupefacente. Una spilla che, se non fosse stato per la croce di San Giorgio rossa in campo bianco impressa sullo scudo, pareva identica al più antico emblema della Lazio. Oltre agli smalti, anche il nome del sodalizio era differente, scolpito nel cartiglio tenuto nel becco dall’aquila: Sport Pedestre Genova.
Non un piccolo club, giacché gli storici dello sport sanno che allineò nelle sue file la prima stella internazionale dell’atletica italiana: Emilio Lunghi. Fondato nel 1897, l’SPG aveva i colori bianco e rosso, era affiliato alla Unione Pedestre Italiana (UPI) e lo presiedeva Giovambattista Orengo, il direttore sportivo era Giovambattista Rota. Notizie estrapolate dal settimanale illustrato torinese La Stampa Sportiva, che concede anche informazioni sul luogo del contatto tra i podisti laziali e i loro omologhi genovesi. Un meeting che avvenne nel 1905 a Vercelli nel corso di "feste sportive" includenti i campionati UPI. Tutto principiò dall’idea, occorsa a cinque tra i migliori atleti tiberini, di parteciparvi, nonostante il viaggio fosse estenuante. La comitiva partì della Stazione Termini il venerdì del 16 giugno 1905. Tra loro, due tesserati della Lazio: il corridore Pericle Pagliani e il marciatore Romano Zangrilli. Entrambi con reali prospettive di vittoria, e soprattutto Zangrilli, al quale un torinese aveva strappato il primato nazionale dell’ora stabilito l’anno avanti. Poi c’erano Colombo Salvucci, Angelo Coccia e Giuseppe Pace, tre marciatori della Società Giovane Roma; sia Pagliani che Pace di mestiere facevano gli strilloni di giornali. Possiamo immaginarceli, i cinque sudisti, giocare a carte e mangiare panini tracannando vino dei Castelli nelle venticinque ore che impiegavano i treni sulla tratta Roma-Torino-Vercelli. Tutti ottennero eccellenti risultati.
Zangrilli, il ragazzo nativo di Norma, si aggiudicò il campionato di marcia di 30 km. In quello di corsa di 25 km Pagliani dovette inchinarsi al nuovo astro Dorando Pietri, il carpigiano che sarebbe diventato famoso per la maratona olimpica persa a causa di un cattivo dosaggio di stricnina. Ci si aiutava così, in quei tempi pionieristici: azzardate miscele casalinghe, bombe chimiche che ti portavano a un soffio dalla morte oppure ad abbracciare la dea Niké. Lo Sport Pedestre Genova, dal canto suo, trionfò nel campionato italiano di mezzofondo, stabilito in 1.500 metri. Primo giunse Lunghi, secondo Roberto Penna. Un alessandrino che l’anno dopo, di leva militare a Roma, si sarebbe esibito a Frascati con la maglia della Lazio; anche lui partecipante alle Olimpiadi londinesi, tra l’altro. Zangrilli gareggiò con una canotta bianca e celeste a larghe fasce orizzontali, riprendenti la bandiera sociale. Pagliani con una maglia bianca.
Romano Zangrilli in posa dopo aver vinto il campionato italiano di marcia a Vercelli. Emilio Lunghi ritratto durante lo stesso evento. Fonte: La Stampa Sportiva, 2 luglio 1905. |
I genovesi esibirono maglie tutte uguali, eleganti e alla moda: T-shirt a collo alto e le maniche bordate di rosso; vermiglia la banda trasversale all’altezza del cuore, con la scritta "Sport Pedestre Genova" finemente ricamata in filo d’argento. Ma, soprattutto, la dirigenza aveva stampato sontuosi diplomi e coniato spille riproducenti lo stemma del club: l’aquila che, nella sua funzione di "figura a supporto", sormontava lo scudo svizzero del blasone cittadino. Su queste basi, una volta aperto il pacchetto Amazon con dentro la spilla originale dello Sport Pedestre Genova, la domanda che ci ponemmo fu la seguente: ma non è che una spilla a fermaglio in metallo smaltato come questa, Lunghi o Penna, o qualcun altro degli atleti e dirigenti genovesi, la regalarono ai laziali? Già, perché, tre mesi dopo, in una foto scattata il primo di ottobre a Villa Borghese, la vediamo apparire sulla berretta di Bruto Seghettini. La spilla fu prodotta con buone probabilità nel settembre del 1905 nel laboratorio di Galileo Massa a via Fulcieri Paulucci de Calboli 60, nel quartiere della Vittoria. Massa era uno dei nove fondatori della Lazio e apparteneva a una famiglia di medaglisti e fonditori di assoluta eccellenza. Non dovrebbe essere stato difficile per lui eseguire una copia identica, dal momento che aveva il modello a disposizione.
Il più antico badge della Lazio è ben visibile sulla berretta di Bruto Seghettini nella foto presa durante le "feste sportive" a beneficio dei terremotati della Calabria tenute a Villa Borghese il primo di ottobre del 1905. In basso, lo scultore Galileo Massa che, nel suo laboratorio vicino Piazza Mazzini, riprodusse la spilla col nuovo disegno "laziale". Notate il dettaglio delle tre strisce bianche sullo scudo che, in termini araldici, sono "in palo", meno larghe delle quattro strisce azzurre. Nel simbolismo massonico, questo significa che esse sono "pilastri" e rispondono alla trinomia dell’Arte Reale che sostiene il Tempio: Saggezza, Forza, Bellezza. Fonte: LazioWiki.org | ||
All’epoca, presidente della SP Lazio era Fortunato Ballerini, alto funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia e massone convinto. Ballerini, fiorentino di famiglia agiata con un casato alle spalle, nonostante viaggiasse sopra i cinquanta si distingueva per essere un globe-trotter dello sport: giocava a tamburello, tirava a segno con la carabina al poligono della Farnesina, concorreva ai brevetti podistici, ciclistici e a quelli natatori invernali sul Tevere. Soprattutto, egli era un amante delle escursioni in montagna; una moda lanciata dal Club Alpino Italiano sull’esempio di quanto erano andati promuovendo i gentlemen inglesi appassionati di "mountaineering" in Svizzera. Il CAI era molto attivo al trapasso fra i due secoli. Lo fu durante tutto il periodo liberale e gli storici concordano sul suo ruolo di fattore sociale di primo piano, così come il Touring Club. Due enti che contribuirono alla scoperta, a piedi o in bicicletta, e poi in automobile, del territorio nazionale. Il CAI romano metteva a disposizione itinerari e guide, in cambio di poche lire per la tessera annuale. Ma Ballerini preferiva organizzare le sue gite podistiche, che sovente avevano richiami archeologici e culturali, con i consoci della Lazio. Una delle mete più frequenti erano i tratturi dei monti Lucretili e Simbruini, a nord-est di Roma, e lì Ballerini aveva scorto più volte le aquile reali.
Con l’apertura alare di due metri, l’aquila reale entusiasma chiunque al solo mirarla in volo spiegato, e così era stato per il grande presidente. Quando l’aveva vista sbalzata sulla spilla genovese, il suo assenso aveva tratto l’ispirazione dalle escursioni montane e dall’amore che nutriva per la natura. Contemporaneamente alla nascita dello stemma con l’aquila, Ballerini istituì infatti una sezione escursionistica. Nell’autunno del 1904 egli aveva nel frattempo inaugurato la prima bandiera della SPL, a strisce orizzontali bianche e celesti, in onore della Grecia che aveva riportato in auge le Olimpiadi. Lo stesso Ballerini stava tentando, assieme ad altri gentiluomini piemontesi, di fare della Città Eterna la sede della quarta Olimpiade, prevista nel 1908. Edizione dei Giochi Olimpici moderni che tuttavia, per la rinuncia espressa dalla classe politica italiana, il barone Pierre de Coubertin avrebbe ricollocato a Londra.
Il presidente della S. P. Lazio, Fortunato Ballerini, in un’immagine del 1909. Fonte: LazioWiki.org. Il libello che pubblicò nel 1903 a sue spese per promuovere la quarta Olimpiade a Roma. Fonte: Biblioteca Universitaria Alessandrina. |
Per una legge araldica, le strisce orizzontali del vessillo divennero verticali nello stemma, con le tre centrali bianche che rappresentavano i pilastri delle logge massoniche: Saggezza, Forza e Bellezza. Un’altra ragione per cui, quattro anni dopo la sua nascita, la SPL acquisì gli attuali colori fu data dal tipo di camicia inaugurata a Piazza d'Armi la domenica del 15 maggio 1904 dai footballers: metà bianca e metà celeste. Una scelta dettata, come ricorderà molti anni dopo il pioniere Sante Ancherani, dalla convenienza e dalla casualità. Già abbiamo detto di Ballerini in altri scritti [vedi M. Impiglia, Fortunato Ballerini e la sua azione per la diffusione dello sport a Roma (1876-1939), in R. Carocci, D. D'Alterio, T. Menzani (a cura di), La modernità imperfetta. Lavoro, territorio e società a Roma e nel Lazio tra Ottocento e Novecento, Roma 2021, pp. 181-208.], definendolo un ecologista ante-litteram; al punto da atteggiarsi a crudista e vegano nell’alimentazione, ben prima che i suddetti termini fossero coniati. Ballerini, nell’autunno-inverno 1905-1906, diede ordine affinché il disegno della spilla venisse trasposto sulla carta intestata del sodalizio. In questo modo, l’aquila assurse al ruolo di figura allegorica che incoraggiava i soci della Lazio a scalare le vette più alte del loro potenziale sia fisico che spirituale.
Inoltre, il fatto che le strisce sullo scudo fossero sette ricordava il simbolismo massonico assai caro a Ballerini. In accordo con la dottrina di Pitagora, il sette, essendo l’unico numero senza una "madre" e, allo stesso tempo, "vergine" (non produce e non divide altri numeri tra l’uno e il dieci), ha il valore di un monito: l’unico valore per l’Uomo è la sua Coscienza, che ci rende tutti di eguale dignità. Un grido, quello della "nostra" aquila, che certi tifosi odierni del football dovrebbero ascoltare: giusto amare la Patria, stupido e controproducente perseguire ideologie razziste.
Il più antico documento ad oggi conosciuto con l’immagine dell’aquila, datato 17 marzo 1906. Secondo il parere di Fabio Bellisario, esso presenta alcuni sofisticati artifizi grafici che riportano direttamente alla maniera massonica. Fonte: Archivio Storico Capitolino. A destra, la tessera con lo stemma voluto da Ballerini. Fonte: Collezione Ancherani. |
Qualcuno, a questo punto, magari un sostenitore della A. S. Roma, potrebbe alzare il dito e porre la classica domanda: ma perché la Lazio scelse l’aquila in ritardo e non, da subito, la Lupa con i Gemelli? La risposta verrà automatica come un disco da jukebox: esisteva un’ordinanza che vietava ai privati l’uso sia della Lupa sia dello scudo gotico verrmiglio coronato, con la croce greca e la scritta a scalare in oro SPQR, mentre nulla proibiva d’inserire nello stemma un’aquila. E, in proposito, ricordiamo che dal 28 maggio 1899, su concessione del re Umberto I, un’aquila d’argento "abbassata" campeggiava al centro del gonfalone della Provincia, partito di rosso e d’azzurro. All’epoca, seguendo la deriva massonica, alcune tra le più note istituzioni sportive recavano nell’arme la stella a cinque punte oppure l’aquila: citiamo la Ginnastica Roma, la Rari Nantes Roma, la Società Romana di Nuoto e, per l’appunto, il CAI sezione capitolina. Come l’etologo inglese Desmond Morris afferma nel suo saggio "The Soccer Tribe", durante l’Era Vittoriana la maggior parte dei club sportivi britannici ed europei assunse come stemma il blasone araldico delle comunità locali. Tuttavia, a causa del desiderio di distinguersi, essi tendevano ad adottare una singola figura di sicuro impatto, che poteva essere un oggetto ma più sovente era un animale, facile da riconoscere anche da lontano. Animali totemici che, quasi sempre, davano luogo al soprannome del sodalizio.
La bandiera della Provincia di Roma inaugurata nel 1898 dal re Umberto I. L’emblema del Club Alpino Italiano all’abbrivio del XX secolo. Fonte: Archivio Centrale dello Stato di Roma. |
L’avvento dell’aquila marcata Podistica Lazio, modestamente appollaiata sullo scudo come a difesa del nido, giunse in contemporanea con l’acquisizione di una bella sede, concessa in usufrutto dal Comune nei primi mesi del 1906 all’interno di Villa Borghese, e precisamente l’Uccelliera al Parco dei Daini. L’aquila e l’uccelliera: buffo no? Pensate che pure Trilussa, il poeta dialettale, per scherzo e voglia di travestirsi come suo solito, un giorno vi si recò e si fece immortalare con una canotta della Lazio indosso, novello maratoneta. Sul petto uno stemma a strisce verticali bianche e celesti, senza l’aquila però, perché l’emblema completo a cucirlo sulle divise sportive era una faccenda costosa.
La straordinaria foto del poeta Carlo Alberto Salustri, in arte "Trilussa", scattata alla Casina dell'Uccelliera. Non si conosce la data, ma possiamo ipotizzare gli anni attorno al 1908-1912, sull’onda dei successi colti dal maratoneta Dorando Pietri. Fonte: LazioWiki.org.
L’aquila alpina della Lazio, o appenninica se preferite, figura araldica naturale femminile in quanto non vi è traccia dei genitali maschili, rimase in servizio una ventina d’anni, più o meno. Un importante cambiamento apparve nell’autunno del 1913. Lo scudo, con le sue sette strisce verticali che celavano il duplice messaggio massonico, mutò dalla foggia svizzera a una sagomata, inscritto in un cerchio dove campeggiava il nome per esteso del sodalizio. Il disegno dell’aquila, pure, cambiò completamente. La figura venne posizionata centralmente allo scudo, gli artigli poggianti su una base recante la parola ROMA scolpita a caratteri capitali. Il nobile uccello non più a riposo, bensì colto nell’atto di spiccare il volo, "sorante", la testa rivolta alla sua sinistra, ovvero alla destra dello spettatore.
Il nuovo modello di stemma, in uso nel periodo 1913-1926, visibile in una lettera indirizzata nel 1918 da Ballerini al sindaco di Roma, principe Prospero Colonna. Fonte: Archivio Storico Capitolino.
Questo tipo, che ritroviamo sulla carta intestata unitamente al vecchio modello, sparì dalla circolazione subito sopo la fascistizzazione dell’apparato direttivo della Podistica, processo che si consumò negli anni 1925-1927. Due, soprattutto, furono gli avvenimenti rilevanti nel periodo suddetto: il 19 giugno 1926 un’assemblea stabilì il cambio da SP Lazio a Società Sportiva Lazio (SSL). L’8 giugno 1927 a Benito Mussolini fu proposta la tessera di socio vitalizio. Il duce accettò l’omaggio. I suoi due figli Vittorio e Bruno da tifosi dell’Ambrosiana-Inter passarono a seguire ogni domenica la squadra della Lazio, accompagnati di solito dal gerarca Giorgio Vaccaro. Dopo di che, nel 1928 un fascio littorio venne inserito "in palo" (centrale dal "capo" alla "punta") di uno scudo a foggia svizzera composto da quattro strisce verticali bianche e due celesti. In questa maniera, lo schema dei tre pilastri fu distrutto dal fascio, ora in controllo dello stemma così come del sodalizio sportivo. Per raggiungere lo scopo, i gerarchi non dovettero neppure alterare lo statuto più recente, approvato in assemblea il 9 aprile del 1923, che non menzionava affatto l’aquila.
La lettera indirizzata l’8 giugno del 1927 a Benito Mussolini dal presidente della SS Lazio, il generale della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale Ettore Varini, contenente l’invito ad accettare la tessera onoraria di socio vitalizio. Come si può notare, la carta intestata non reca più lo stemma con l’aquila, rimasto in auge dal 1905 al 1926. Fonte: Archivio Centrale dello Stato di Roma. In basso, la tessera personale della principessa Mafalda di Savoia (nella foto), col dettaglio del cordino riproducente il nuovo stemma a colori della SSL, così com’era al volgere degli anni Venti e nei primi anni Trenta. Fonte: Collezione S. S. Lazio e LazioWiki.org |
L’aquila reale, con le sue sottili implicazioni che Mussolini di certo non gradiva, fu in tal modo mandata in pensione. I principi massonici non andavano d’accordo col regime di stampo totalitario che il dittatore stava instaurando. Come corollario a questo trend stabilito attraverso canali politici, anche nel settore del merchandising, ad esempio le figurine dei calciatori inserite nelle confezioni di caramelle e cioccolatini, l’aquila lasciò spazio ad un personaggio che nulla aveva a che vedere col linguaggio araldico: la "Ciociara". In un numero del settimanale Guerin Sportivo del 10 ottobre 1928, Carlin Bergoglio aveva intanto inaugurato la sua "araldica dei calci", affibbiando uno stemma gentilizio a ogni club della massima serie. Alla Lazio il disegnatore e giornalista torinese aveva concesso la "Bufala". Bufala in tutti i sensi, giacché i lettori non gradirono affatto, osservando come la più gloriosa aquila fosse il vero simbolo. Bufala o Ciociara, inutile dire che la valenza quirite del club veniva di molto sminuita, al confronto con la AS Roma dignitosamente rappresentata dalla Lupa etrusca allattante Romolo e Remo.
Un set di figurine con la "Ciociara" a sostenere lo scudo in luogo dell’aquila. Fonte: Collezione Borri. Il brutto simbolo della "Bufala" elaborato da Carlin Bergoglio nel 1928 per la sua "araldica dei calci". |
L’emblema della SS Lazio cambiò ancora nel 1936, quando nelle lettere intestate cominciò ad apparire uno scudo "a bandiera" a sette strisce verticali bianche e azzurre. Esso si componeva di una "pezza onorevole in capo" recante il nome del sodalizio e, sul "cantone sinistro", un fascio littorio inscritto in un cerchio. In araldica, il capo indica l’autorità alla quale la città è sottomessa, in questo caso il regime fascista. Ma nel 1940, sospinta dai venti di guerra, l’aquila fece il suo rientro, allorché la Società coniò una medaglia per i quarant’anni di vita. Ma com’era mutata! Che cosa diversa era diventata! I trionfi africani, e una stretta di mano del Benito all’Adolfo, l’avevano trasformata in un rozzo volatile artigliante un fascio. Il becco volto alla vittoria, che poi sarebbe stata una terribile sconfitta. Immagine non dissimile dal vessillo della nazifascista Repubblica Sociale Italiana.
Il nuovo emblema della seconda metà degli anni Trenta, uno "scudo a bandiera" caricato del fascio littorio posizionato nel "capo" sul "cantone sinistro". La medaglia celebrativa del quarantennio con al centro l’aquila e il fascio. Due documenti del 1939 e 1940. Fonte: Collezione Ancherani. |
L’aquila che volò sulle maglie dei calciatori
Passarono altre intense stagioni. Roma città aperta. I tedeschi e quindi gli anglo-americani, un po’ liberatori e un po’ invasori. Le am-lire e le camionette militari a passeggio attorno al Colosseo, con lo stellone e la ragazza bruna sul cofano bollente. Gli sfollati dall’Istria e dalla Dalmazia ex italiane. La fame dei bambini straccioni senza più genitori, la miseria, la speranza e tutta quella roba lì. Ed ora, né il re Vittorio Emanuele III né "Lui", di nuovo i preti a comandare e a ricevere oboli e mea culpa. I cattivissimi comunisti, loro invece, a friggere anche stavolta, le armi della Rivoluzione Rossa nascoste dentro casse in buchi sottoterra. Del Mussolini Dux, ci si meravigliava fosse rimasto dritto l’obelisco strafallico e culminato d’oro, al centro della cittadella sportiva del Foro Italico. Ma considerate che non pochi erano quelli che, senza rivelarlo se non nel confessionale di una chiacchiera tra amici, fascisti nell’animo rimanevano. La Lazio del dopoguerra, un poco nera nel suo apparato dirigenziale lo era. Niente di eclatante. Quasi tutti, la blusa d’orbace e il fez da centurione, i distintivi e la tessera del Partito, li avevano gettati nel secchio dei rifiuti al momento giusto. Ma, come già mezzo secolo fa rimarcava Luigi Preti nel suo romanzo Giovinezza Giovinezza, la gioventù era stata fascista e quello non lo si cancellava.
In tal modo, quando ripresero regolari le tenzoni calcistiche, la S. S. Lazio non poté fare a meno di rispolverare l’aquila. Che non cavalcava più bellamente il fascio, Dio ci scampi! Né tanto meno era un grazioso uccelletto che badava cautamente agli affari suoi. L’aquila stava ora a supporto di uno scudo gotico a sette strisce celesti e bianche col titolo del sodalizio "in capo", e guardava alla sua destra. In un’assemblea tenuta il 12 febbraio del 1949, la prima a modello democratico dal 1926, essa venne "rivoltata", la testa mirante al lato mancino. Il nuovo disegno mantenne le ali in posizione "volante", a formare una V alla congiunzione. Piuttosto chiare le implicazioni psicologiche, più o meno percebili a livello conscio: il vento era cambiato ed ora l’aquila guardava esattamente nel verso opposto. I tre pilastri massonici definitivamente svaniti dal campo dello scudo gotico, per lasciare il posto a sette strisce alternate bianche e azzurre. Infatti, gli smalti sociali pure erano mutati: dal bianco e celeste si era passati al bianco e azzurro. "Biancazzurri", cominciarono a chiamarsi i circoli di tifosi nascenti nei bar a Roma e in vari paesi del ridente Lazio.
Il primo emblema post-bellico in una figurina del 1947. Fonte: Collezione Borri. Lo stemma ufficiale approvato nel 1949 e riprodotto in una tessera degli anni Cinquanta. Fonte: Collezione Ancherani. |
Questo modello di aquila, un po’ in stile Aeronautica Militare, rimase in auge fin quasi alla fine degli anni Sessanta, pur con una variazione nelle dimensioni tra lo scudo e l’aquila, lievemente stilizzata, e l’inversione degli smalti: quattro strisce azzurre e tre bianche come nel dopoguerra. In alcune occasioni, lo troviamo appaiato al motto "concordia parvae res crescunt", dal verso di Sallustio che Ballerini aveva mutuato dalla Federazione Italiana Rari Nantes. (Concordia, nove lettere, il numero perfetto dei massoni). E stiamo parlando di documenti ufficiali, non di altro. Perché sulle cartoline e figurine era spesso la "Ciociara" l’immagine che identificava la più antica squadra di calcio della Capitale. E ricordiamo bene che, nelle bandiere in vendita al Flaminio, quando la Lazio faceva l’altalena tra la A e la B, il simbolo dell’aquila era sì presente, ma a volte simile alla colomba dello Spirito Santo; o a un "piccione dall’aria spaurita", come obiettai a mio padre nel momento in cui egli comperò da un venditore ambulante l’amato vessillo. Ma intanto, il 15 luglio del 1963, era avvenuto un cambiamento epocale: la nascita della Associazione delle Società Sportive Lazio.
Nella sostanza, la dozzina di sezioni praticanti le varie discipline – dal nuoto al rugby all’escursionismo – avevano acquisito autonomia amministrativa, rimanendo comunque legate da una fratellanza che aveva il suo fermaglio nella Podistica sorta nel 1900. Un processo innestato dalle differenze insuperabili sul piano finanziario tra la ricca sezione calcistica e le povere sezioni consorelle. Da qui in avanti, avremo pertanto una duplicazione del simbolo dell’aquila: da una parte la dilettantistica ASSL, dall’altra la professionistica società per azioni. Il passaggio a S.p.A., su espressa indicazione della Federcalcio, occorse il 27 aprile del 1967 quando presidente, ovvero socio azionista di maggioranza, era Umberto Lenzini. A stretto giro di posta, lo stemma della Lazio mutò anch’esso. Come e perché? Beh... La storia è particolare e per nulla conosciuta. Tutto parte dal "sor Umberto", imprenditore italo-americano cresciuto nel Colorado ma sentimentalmente legato alle origini della famiglia nel Modenese. Accade che Lenzini, nella prima partita del girone di ritorno del campionato di Serie B disputata allo Stadio "Alfredo Viviani" di Potenza il 4 febbraio del 1968, fa la conoscenza di un ventottenne tifoso, già lottatore di greco-romana: Angelo Tonello.
La simpatia è istantanea e, siccome Tonello è geometra, Lenzini lo coopta nella sua azienda che sta partecipando all’edificazione di due aree periferiche a nord di Roma: Valle Aurelia e la Pineta Sacchetti. Non solo, Tonello entra nello staff della S.p.A., rispettato braccio destro del presidente. Un giorno, entrato in possesso di un album di una trentina di fotografie di squadre di calcio, Tonello – un po’ come aveva fatto Carlin quattro decadi prima – si diverte a disegnare a mano libera gli stemmi, inserendoli nelle foto stesse. Lo stemma della Lazio piace a Lenzini al punto che, all’avvio della stagione 1968-69, lo scudo di foggia francese antica del geometra scalza il precedente, rendendo l’arma più accattivante. L’aquila, ora imponente, artiglia con baldanza lo scudo stilizzato che presenta tre coppie di strisce verticali bipartite di bianco e d’azzurro; nella sostanza, la riapparizione dei tre pilastri massonici. La circostanza che il "coming back" sia opera di un cittadino statunitense non deve in fondo meravigliare: i simboli dei massoni stanno perfino nel dollaro! Il nuovo emblema ufficiale della Lazio – interessando esso sia la quota calcistica che la casa madre, entrambe con la sede a via Col di Lana 8 – scaturisce da un’operazione naif, così come a modello familiare è l’intera organizzazione della società per azioni diretta dal segretario Nando Vona, e così a nessuno viene in mente di registrare il logo.
Il general manager Angelo Tonello ritratto assieme ad alcuni giocatori nei primi anni Ottanta. Tonello fu l’autore del disegno del logo con lo scudo cosiddetto "heater", a ferro da stiro, che acquisì ufficialità nell’estate del 1968 e fu protetto col copyright dalla polisportiva negli anni Ottanta. Collezione Tonello.
Passarono altri due lustri. Finalmente nel 1979, e sempre con Lenzini alla presidenza, la Lazio S.p.A. varò la prima aquila protetta da copyright. Una silhouette azzurro scuro applicabile sulle divise e sulle tute: il logo da lanciare nel marketing. Quell’anno, la squadra aveva scelto come sponsor tecnico la Pouchain, un maglificio che stava a Borgorose, nella Valle del Salto ai confini tra il Lazio e gli Abruzzi. La Pouchain serviva anche la A. S. Roma, che nella stagione 1978-79 aveva inaugurato il "lupetto" di Piero Gratton. Il designer milanese, dopo il digrignante lupo romanista, partorì dunque l’aquila laziale, lui stesso non nutrendo preferenze zoologiche. L’aquila azzurra, volante e fortemente stilizzata, si posizionò sulle casacche dei calciatori, dalla parte del cuore.
Sapete che l’araldica e il marketing sono scienze che s’incrociano facilmente, ma di rado la seconda ubbidisce alla prima. Fu così che l’aquila laziale, dacché era nata nobile, massone e alpestre, dimenticò i suoi codici e si destrutturò. Dalla natura alla guerra, allo sport, e infine a vivere d’arte al servizio del business. Evviva l’aquila di Gratton, ancora oggi nel 2025 libera di volare sulle maglie dei nostri campioni!
L’aquila azzurra creata nel 1979 dal grafico Piero Gratton su incarico del presidente della S. S. Lazio S.p.A. Umberto Lenzini. Fonte: Collezione privata. |
Da questo punto in avanti, la vicenda più che centenaria dell’aquila laziale ha una sua escalation impressionante, in omaggio alle necessità del merchandising. All’inizio degli anni Ottanta, indicativamente nel 1981-82 con Renzo Nostini presidente, la polisportiva finalmente registrò l’emblema del 1968. Il 9 dicembre 1982, dopo averla mostrata in anteprima il 22 luglio al Circolo Canottieri Lazio, la S.p.A. rispose con "l’aquila marchio", adornante le maglie dei calciatori sia come scudo che come fregio trasversale. Un modello, quello 1982-83, poi ripresentato nella stagione 1986-87 e assai ricercato ancora oggi dai collezionisti sotto il nome di "maglia-bandiera". Prodotta da due differenti sponsor tecnici, la ditta Ennerre per la prima versione e la Tuttosport di via Morgagni in seconda battuta, la maglia-bandiera possedeva un impatto visivo che è rimasto nell’immaginario del popolo biancoceleste. Molto curioso il fatto che a confezionare materialmente le divise furono delle suore di Montesilvano, cittadina in riva al Mare Adriatico a nord di Pescara. Questa bellissima aquila blu/azzurra, che guarda verso la destra dello spettatore, venne ideata dal grafico Otello Cecchi, per conto della ditta fiorentina Marksport di Cesare Benincasa e su incarico del grande presidente, di famiglia lazialissima, Gian Chiarion Casoni. Racconta Cecchi:
Il classico stemma della Lazio con l’aquila ad ali spiegate, che sormontava lo scudetto a strisce biancocelesti, era già stato registrato dalla S. S. Lazio come marchio e quindi non era modificabile. Un logo molto simile, inoltre, è anche adottato dall’aeronautica militare ed è presente su molti dei tombini di Roma, unitamente al noto acronimo SPQR. La forma stilizzata di nuova concezione alla quale mi ispirai in prima battuta fu quella del logo di Armani, ma doveva esssere una nuova stilizzazione utilizzabile a fini commerciali e quindi mai registrata né dalla S. S. Lazio né da altri. L’effetto che volevo dare all’aquila era che si muovesse sul campo. Sulla maglia le ali giravano attorno alle braccia del calciatore in azione, mutuando il movimento del rapace in volo; un simile effetto, allo stesso modo, dovevano produrre le bandiere destinate ai tifosi. La maglia con l’aquila sul petto originariamente fu pensata di colore celeste a tinta unita con l’aquila stilizzata bianca contornata da un bordino blu scuro, allo scopo di renderla maggiormente visibile. Alla fine, si decise di optare per la maglia bandiera con l’aquila blu che divideva la parte inferiore celeste da quella bianca superiore. Capimmo fin da subito di avere realizzato qualcosa di particolare, che non fosse esclusivamente di proprietà del club, ma uno stemma immortale nel cuore di tutta la gente laziale.
L’"aquila-marchio" e la "maglia bandiera", eccezionali creazioni del grafico Otello Cecchi, si ispirarono al brand Armani. Illustrazione di Maurizio Martano tratta dal volume curato da Luca Aleandri e Fabio Argentini: La maglia del cuore, Roma 2005. |
Gli ultimi venticinque anni: tre aquile per la "Lazio"
Avete mai ballato il valzer? Arriva un momento in cui vi tocca eseguire la doppia giravolta completa, stando bene attenti che la vostra compagna non vada giù per le terre. Nel 1987, per mano del presidente Gianmarco Calleri, lo stemma post-bellico riapparve sulle divise dei calciatori. Nella rivisitazione grafica, il nuovo sponsor tecnico torinese Robe di Kappa Sport disegnò, per la stagione agonistica 1987-88, uno scudo "ritondato" a cinque strisce verticali biancocelesti sormontato da un’aquila rivoltata. Nel frattempo, per iniziativa dall’ex presidente Giorgio Chinaglia, la squadra aveva guadagnato un inno che i tifosi potevano intonare prima delle partite: Vola Lazio vola. Testi e musica di Tony Malco, col verso centrale che recitava: "Vola un’aquila nel cielo..."
Il logo creato nel 1987 dalla Robe di Kappa Sport per la squadra di calcio su incarico del presidente Gianmarco Calleri.
A questo punto della storia, ci sembra appropriato aggiungere chiarimenti sulla terminologia araldica sin qui adottata. Forse qualcuno dei gentili lettori l’avrà trovata "pedante", ma invece era solo "necessaria". Innanzitutto, notiamo che cinque sono i colori che si propongono in continuazione negli emblemi ufficiali: bianco, celeste, azzurro, blu e giallo-oro. Per chiarirvi invece le idee sulle posizioni e gli smalti dell’aquila, non sempre presi in considerazione dai grafici essendo l’aspilogia una scienza costrittiva, nel linguaggio blasonico l’aquila dorata è emblema della fama conseguita per la virtù; quando è d’argento essa ama l’indipendenza; l’aquila dal volo abbassato, piegato o chiuso indica prudenza; l’aquila spiegata o "sorante" (che spicca il volo) esprime slancio sublime o la meditazione di una grande impresa; l’aquila volante ha il valore di chiarezza di fama, giacché osserva il mondo dall’alto. Per quel che concerne i modelli ufficiali di scudo che si sono succeduti nelle varie epoche, ne possiamo enumerare pure cinque: svizzero, sagomato, a bandiera, francese antico o "heater" come dicono gli inglesi (gotico nella sua versione più snella) e spagnolo (ritondato). Il restyling dell’emblema societario proseguì senza tregua allorché nel 1993, ad opera del nuovo presidente della S.p.A., l’imprenditore Sergio Cragnotti, arrivò un ulteriore upgrade: l’aquila si uniformò nelle dimensioni rispetto allo scudo, che mutò dalla foggia spagnola a quella francese antica, acquisendo linearità grazie a una lieve stilizzazione. Le strisce verticali ora erano appena tre: due celesti e una centrale bianca, a formare uno scudo cosiddetto "interzato". Nel 2000, in occasione del centenario sociale, questo modello di aquila, tuttora in vigore, campeggiò sul logo celebrativo.
L’emblema corrente della S. S. Lazio S.p.A., lanciato da Sergio Cragnotti nel 1993.
Ma... c’è un ma, un piccolo segreto: un dietro-le-quinte che riguarda Renzo Nostini, uno tra i dirigenti più importanti nella storia dello sport italiano. Al volgere del XX secolo si verificò, nel silenzio dei media, un’epocale battaglia di brand all’interno della Lazio stessa. Due campioni entrarono in giostra, e la Dulcinea piumata stette ad assistere allo scontro di lance. Eletto presidente della S. S. Lazio nel novembre del 1992 (lo era stato già negli anni Settanta e Ottanta), Nostini, ex asso della scherma e presidente onorario in carica del CONI, s’impegnò a diffondere un’immagine della polisportiva coerente con la sua eccelsa tradizione. Il suo obiettivo era di farla conoscere nell’ambiente del calcio professionistico e al recalcitrante Cragnotti, che non voleva concedere alcuna unione di intenti o sinergia finanziaria. Questa cosa del rilancio del brand accadde proprio mentre, nel luglio del 1994, usciva l’aggiornamento del libro di Pennacchia, col titolo Lazio Patria Nostra. Storia della Società biancoceleste, che pochissimo spazio concedeva alle vicende della polisportiva dal 1969 in poi. E allora, che cosa successe? Semplicemente che Nostini, forte del suo discreto know how in materia di marchi e brevetti (oltre che ex campione di scherma e brillante manager sportivo era pure un ingegnere edile), nell’autunno del 1995 incaricò Massimo Pezzana, legale della S. S. Lazio, di svolgere indagini all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi sui loghi pregressi, incluso quello che a suo tempo aveva fatto registrare. Gli planò sulla scrivania un fritto misto di disegni riguardanti le singole società affiliate.
Quindi, al termine di un quadriennio di infruttuosi tentativi volti a indurre Cragnotti a sovvenzionare la polisportiva, nel maggio del 1999, avvalendosi del lavoro di Pezzana e del suo braccio destro, il segretario generale Antonio Buccioni, Nostini registrò il marchio "S. S. Lazio 100". Forse non un capolavoro di grafica, con l’aquila alpina copiata da un documento del 1912, ma che comunque sortì l’effetto di una bomba sganciata sulla sede della Lazio Calcio a Formello. Vanamente, i legali del tycoon si affannarono ad indagare sulla frase schermistica del presidente della "Associazione": l’affondo li aveva centrati in pieno petto, per cui tornarono dal loro sire a recare la non lieta novella: la polisportiva era arrivata prima, per quel che concerneva il logo del centenario, e non c’era più nulla da fare se non transigere e scendere a patti. Alla fine, l’impari braccio di ferro lo vinse Cragnotti. Nostini ritirò il suo logo e lasciò campo a quello della S.p.A.; in cambio, ricevette vaghe promesse di un’azione congiunta poi mai mantenute. Dalle carte del "Fondo Renzo Nostini", liberamente consultabile presso LazioWiki.org, emerge l’evidenza che, a partire dalla stagione 1999-2000, la SS Lazio dispose di un blasone doppio, composto da stemmi separati: quello del 1905 e l’altro del 1968.
Il presidente della S. S. Lazio, Renzo Nostini, fu l’uomo che, alla vigilia del centenario, riesumò lo stemma del 1905, affiancandolo a quello del 1968. Fonte: Fondo Nostini. |
Il "doppio stemma" inaugurato dalla Polisportiva per i festeggiamenti del Centenario in due documenti del 2000 e 2005 visionabili nel "Fondo Renzo Nostini". |
L’ingegner Nostini morì nel 2005, senza lontanamente immaginare che la sua doppia aquila di carta stava per incarnarsi in una singola creatura vera. Il 22 settembre del 2010, prima di un Lazio-Milan di campionato, Olympia meravigliò tutti col suo volo inaugurale sopra lo Stadio Olimpico. L’idea era venuta al presidente Claudio Lotito, che aveva visto in azione all’Estadio da Luz a Lisbona le due aquile del Benfica Football Club. La squadra aveva già una mascotte di pezza, "Skeggia", amatissima dai ragazzini delle scuole calcio. Si promosse un sondaggio online per trovare un nome al rapace. Fra i quattro in lizza – Libera, Vittoria, Skeggia e Olympia – vinse un po’ a sorpresa quest’ultima.
Un adesivo con la mascotte "Skeggia". L’aquila "Olympia" in visita a un degente all’Ospedale Pediatrico "Bambino Gesù" di Roma. Fonte: Collezione S. S. Lazio.
L’ultimo capitolo ci dice che, all’incirca una dozzina di anni fa, la S. S. Lazio ha registrato l’ennesimo marchio proponente un’aquila dorata e rivoltata, a supporto di uno scudo a foggia francese antica con un bordo celeste/blu e i tre "pilastri" partiti di bianco e celeste costruiti con linee blu; in pratica, il miglioramento grafico dell’emblema elaborato nel 1968 da Tonello e il ritorno – non sappiamo quanto voluto – a suggestioni massoniche. Interessante è il dettaglio del celeste "acceso", al quale si è giunti dopo indagini sulla bandiera della Grecia. L’aggancio della Lazio col movimento olimpico è stato vieppiù ribadito nello statuto societario: unico esempio al mondo di un club sportivo di fama internazionale che riconosce di avere esemplato gli smalti da uno stato straniero.
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