Domenica 22 marzo 1998 - Roma, stadio Olimpico - Lazio-Piacenza 0-0
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22 marzo 1998 - 2.783 - Campionato di Serie A 1997/98 - XXVI giornata
LAZIO: Marchegiani, Chamot, Negro, G.Lopez, Favalli, Gottardi (46' Casiraghi), Fuser, Venturin, Jugovic (70' Almeyda), Boksic, R.Mancini (84' Rambaudi). A disposizione: Ballotta, Grandoni, Marcolin. Allenatore: Eriksson.
PIACENZA: Sereni, Rossi, Valoti, Delli Carri, Tramezzani, Buso, Mazzola, Stroppa (3' Bordin), Scienza, Dionigi (56' Piovani), Rastelli (82' Murgita). A disposizione: Marcon, Piovanelli, Valtolina, Tagliaferri. Allenatore: Guerini.
Arbitro: Sig. Tombolini (Ancona).
Note: ammoniti G.Lopez, Favalli e Buso per gioco scorretto, Valoti per comportamento non regolamentare. Osservato un minuto di raccoglimento in memoria del giornalista Ezio De Cesari scomparso ieri. Calci d'angolo: 9-4. Recuperi: 2' p.t., 4' s.t.
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Ai confini del sogno, la Lazio si ritrova impaurita più che determinata, quasi soffrisse d'improvvise vertigini ancora prima di toccare la vetta del campionato. Da ventiquattro anni gli innamorati biancocelesti attendono un momento così suggestivo, ma perfino le reazioni emotive e l'accompagnamento sonoro restano deludenti a sostegno di questa missione impossibile verso lo scudetto, mortificata dai guastatori piacentini. Che sfiorano tre volte il clamoroso blitz nel primo tempo, annullando pure i disagi relativi all'immediato infortunio dell'ex Stroppa (risentimento muscolare), partito come spalla di Dionigi nell'elastico 1-3-4-2 timbrato Guerini. Cosa serve d'altro per ravvivare l'estenuata primavera laziale, dopo ventuno risultati positivi? Definito "perdente di successo" causa i ricordi del crollo romanista contro il Lecce, Sven Goran Eriksson sembra giustificare certe lontane stroncature; i suoi campioni procedono senza testa né gambe, rimpiangendo l'assente Nesta nella linea difensiva e soprattutto la vitalità dell'elettrico Nedved fra i centrocampisti. Certo, verificata l'opulenza cragnottiana pure depositata in panchina (Casiraghi, Almeyda e Rambaudi entreranno troppo tardi), qualsiasi rimpianto offende le ristrettezze degli anonimi antagonisti, accentuate da alcuni rattoppi difensivi. Possibile che basti l'accoppiata Rossi-Delli Carri ad incapsulare Boksic, il Nembo Kid delle fantasticherie anti-Juve? E che Valoti immiserisca l'evanescente Mancini, mentre Tramezzani mura Gottardi sulla corsia opposta?
Capita quando manca uno straccio di gioco corale e l'organizzazione viene improvvisata aspettando il lampo risolutore di qualche artista. Non è già successo nelle puntate precedenti? Costretta stavolta ad attaccare, la Lazio si scopre vulnerabile. Lo dimostra Buso, un altro ex, mettendo un cross al centro che la sentinella Lopez rischia di trasformare in autogol nell'impeto di anticipare Dionigi. Palla che finisce sul palo, sfiorata miracolosamente da Marchegiani. Orfano di Nesta, il reparto arretrato balla paurosamente, ancora avvertito da una staffilata-Dionigi contro la traversa. L'ardore piacentino non raccoglie secondo meriti, i centrali di centrocampo Fuser e Venturin girano a vuoto, Davide sta abbattendo Golia. No, non accade: sempre Dionigi, innescato al bacio dall'ottimo Scienza, sperpera in beata solitudine. Lo stadio è sigillato in un silenzio surreale, i tifosi della curva sud proseguono motivati nello sciopero del tifo (rivendicano una lazialità non rispettata dal club stellare di Sergio Cragnotti), il fatturato biancoceleste non s'impenna. Nella partita si rintraccia giusto un diagonale scaricato in corsa dal solista Boksic, che il portiere Sereni respinge e Mancini non raccoglie; poi buio pesto e Rastelli che si diverte a puntare lo stralunato Lopez, determinando sconquassi. Perché Eriksson non trova il coraggio di ricomporre il tridente, davanti ai tonici combattenti di Guerini? Serve il provvisorio vantaggio del Parma sulla Juve per svegliare i fans laziali. Serve l'intervallo per indurre l'algido svedese ad assimilare Casiraghi, vagheggiando intensità d'assalti. Ma Guerini è furbo e inventa Mazzola libero aggiunto, spostando Marco Rossi sul nuovo arrivato. La contraerea del Piacenza è garantita, i palloni crossati da Fuser o Mancini vengono puntualmente allontanati. Ora la Lazio si allunga squilibrata, anche perché Fuser non ha le attitudini dell'interditore fisso, richiamato ad arginare i ribaltamenti fissati sull'asse Scienza-Rastelli-Buso.
Impegnato nel centrare il miracolo salvezza, Guerini esibisce una formazione di reparti ravvicinati, messa bene sul campo, assortita proprio per evidenziare la sindrome da primato degli avversari. Due sballate conclusioni di Boksic e un salvataggio di Delli Carri sempre sul croato (lanciato dal panchinaro Almeyda, proposto laddove latitava Jugovic), chiudono l'intossicante assalto al regno juventino. E Sven Goran ammette sconsolato: "Ci siamo espressi davvero male, forse non meritavamo neppure il punto racimolato. Andiamo avanti: sabato prossimo a Udine capiremo meglio se siamo cotti; o se esistono ancora le condizioni fisiche necessarie ad alimentare plausibili speranze. La sfida all'Udinese risulterà decisiva e servirà per chiarire cosa dobbiamo scegliere, quali traguardi rimangono raggiungibili". Il Piacenza, intanto, esce dall'Olimpico fra gli applausi. Il suo primo giocatore ammonito, Buso, riceve il cartellino giallo a sei minuti dall'epilogo, recupero compreso. Il particolare aiuta a capire che i laziali non sono mai stati pericolosi. Non è facile rimuovere i problemi della grandezza, quando manca l'abitudine.
La Gazzetta dello Sport titola: "La Lazio dorme sul più bello. Bloccata dal Piacenza, fallito l'aggancio alla Juventus. Biancocelesti, privi di Nedved, Nesta e Pancaro, in balìa del pressing avversario. La squadra di Guerini decimata in difesa perde pure Stroppa. Marchegiani riesce a evitare la sconfitta".
Continua la "rosea": La Lazio si sgonfia sul più bello. Nel giorno dell'aggancio alla Juventus che può diventare clamoroso sorpasso. Merito del Piacenza, che la inchioda sullo 0-0 come all'andata e potrebbe pure andare oltre, se per due volte i legni della porta di Marchegiani non rispedissero al mittente le occasioni propiziate da Buso e Dionigi. Blocco psicologico, stanchezza fisica, assenze importanti. Difficile stilare la diagnosi dell'improvviso ma evidente male biancoceleste, ma certo un po' di tutto questo ha influito, in ordine sparso. Lazio dominata nel primo tempo e al disordinato arrembaggio nella ripresa dopo che negli spogliatoi s'era presa piena coscienza di quanto andava accadendo a Parma. Lazio tuttavia capace di impensierire solo due volte Sereni, portiere del Piacenza, coi tiri da lunga gittata di Boksic. Per il resto, un paio di colpettini di testa di Negro e Casiraghi. Davvero troppo poco per creare presupposti anche statistici d'una vittoria che sarebbe stata un autentico furto. Blocco psicologico a un passo dal prestigioso traguardo, sia pure di tappa? Forse. Più ancora stanchezza mentale. Cosa che non promette niente di buono visto il ciclo terribile che aspetta i biancocelesti. Stanchezza fisica? Sicuramente sì. Mai vista la Lazio così lunga e così in balia dell'altrui pressing. Eppure Jugovic, Casiraghi, Chamot e Lopez non erano stati sottoposti alla faticaccia di martedì scorso ad Auxerre. Avrebbero dunque dovuto mostrare una freschezza che invece è mancata nell'insieme prima ancora che nei singoli. Brutto segno. Le assenze importanti? Beh, certo quella di Nedved si è rivelata fondamentale, perché il centrocampo ha mostrato rilevanti limiti di fantasia e dinamismo. Per non parlare delle conclusioni a rete. E quelle di Nesta e Pancaro hanno ugualmente avuto il loro peso, perché in difesa si è tornati a ballare, non rivelandosi Chamot e Lopez assolutamente all'altezza, al punto da coinvolgere Negro nel marasma generale.
Eriksson, coi mezzi improvvisamente risicati a disposizione, le ha francamente provate tutte. Andando a cercare il pel nell'uovo gli si può forse rimproverare di aver tenuto troppo a lungo in campo (84 minuti) Mancini, che col Piacenza (accadde anche all'andata) non la becca proprio mai. Rambaudi, dopo le staffette Gottardi-Casiraghi e Almeyda-Jugovic, avrebbe meritato più tempo a disposizione. L'altra perplessità riguarda la disposizione del centrocampo, Gottardi-Fuser-Venturin-Jugovic da destra a sinistra con l'evidente progetto di trovare in Jugovic il replicante di Nedved. Progetto fallito, con l'aggravante di perdere, insieme a Nedved, anche il direttore d'orchestra Jugovic. Guerini è stato bravissimo, peraltro, nell'opporre gioco e pressing anziché barricate. E nel leggere con grande lucidità un match che tra un contrattempo e una modifica tattica non era facilissimo: privo di Vierchowod, Sacchetti e Polonia, cioè di buona parte della difesa, ha schierato con efficacia Rossi libero, Valoti su Mancini, Delli Carri su Boksic e Tramezzani su Gottardi finito praticamente all'ala destra. Quando dopo appena tre minuti ha perso Stroppa stirato, ha ridisegnato col subentrato Bordin (piazzato su Jugovic) il centrocampo. Ma il meglio lo ha dato all'inizio della ripresa, quando l'ingresso d'un secondo lungo (Casiraghi) nella Lazio sembrava destinato a mettere in difficoltà i "corti" Tramezzani e Valoti. Ecco allora il prestante libero Rossi diventare secondo stopper, Mazzola passare dal centrocampo a libero, Tramezzani salire in mediana per contrare Fuser. Una bella rivoluzione.
Graziata nel primo tempo dai pali (prima il quasi autogol di Lopez con deviazione di Marchegiani, poi il bel tiro da fuori area di Dionigi) e ancora da Dionigi che mentre a Parma segnava Stanic spediva sull'esterno della rete da favorevole posizione, la Lazio si mostrava capace di mettere insieme solo una bella conclusione di Boksic respinta da Sereni. Non c'era velocità e nemmeno convinzione. Il pressing ospite aveva buon gioco contro avversari lunghi e in certi momenti perfino svogliati. Solo nella prima metà del secondo tempo, complici le altrui novità (anche se la Juve aveva cominciato la rimonta) e i movimenti attuati dalla panchina, la Lazio ha messo in autentica difficoltà il Piacenza. Mai, tuttavia, che si avesse l'impressione d'un gol imminente. Perdurando il blackout di Mancini, e combinando poco anche il subentrato Casiraghi, i grattacapi a Sereni arrivavano puntualmente da Boksic. Di parate veramente doc, una soltanto. Eriksson ha allora cercato col cambio Almeyda-Jugovic di modificare le cose a metà campo, portando Fuser a sinistra. Una mossa della quale il giocatore s'è giovato, trovando in Bordin un interlocutore assai in affanno. Tutto per un assist in pieno recupero, costruito a misura della testa di Casiraghi. Che colpiva sbilenco. Pallone lontano. E scudetto pure.
In un altro articolo del quotidiano sportivo è riportato:
Un sorpasso si aggira per l'Olimpico. In casa Lazio tutti lo vogliono, tutti lo aspettano, tutti lo sognano. Qualcuno crede di vederlo subito, quasi prima di cominciare. Comunque verrà di sicuro, tanto che s'annuncia con un primo boato di prova, il "quasi gol" del Parma trasformato in gol per qualche attimo, poi con un secondo, addirittura con un terzo. Ma chi è costui? Naturalmente sua eccellenza il sorpasso. Per la verità qualcuno sostiene di averlo incontrato vicino allo stadio che diceva: "se davvero mi meritate, faccio sempre in tempo". Quando? Tra due settimane, per Lazio-Juventus. Ma c'è anche chi non ci crede, chi diffida.. Strano il pomeriggio dell'Olimpico. Intanto lo stadio è meno pieno di quanto si possa immaginare per una squadra seconda in classifica con qualche possibilità di diventare prima. Forse c'è qualcuno che risparmia i soldi per Juve, Milan, Atletico Madrid. Forse. Ma siccome gli assenti hanno sempre torto, chi c'è, in campo e fuori, è convinto che sia la domenica giusta. E la sequenza dei boati che raccolgono le notizie da Parma sembra un'anteprima, un segnale, un indizio che preannuncia una prova imbattibile (cioè il gol della Lazio, quel gol che non ne vuole sapere di arrivare). Ma il tempo passa, lo 0-0 resta tale, non molla.
E all'inizio della ripresa lo stadio si ammutolisce, viene rapito dal silenzio, è come se abituato a una ricca abbuffata, non riesca a capacitarsi di questo imprevisto digiuno. Cala pure un po' di freddo e non è soltanto una questione di temperatura. Se la squadra viene imbrigliata da un Piacenza ordinato e orgoglioso, lo stadio fa lo stesso, anzi peggio: come se avesse preso un cazzotto all'improvviso e non ce la faccia a riprendersi per incitare la squadra, per cercare di essere davvero quello che una volta si chiamava - oggi non si dice più - il "dodicesimo uomo". C'è pure qualche fischio ingeneroso: 0-0 con il Piacenza non è la fine del mondo, ma se viene dopo una lunghissima striscia di partite utili tra coppe e campionato, forse merita almeno qualche scorta di pazienza. Insomma, se la Lazio - come dice Eriksson - dovrà dimostrare a Udine di non essere cotta, il suo pubblico deve essere in grado di starle più vicino, non può sgonfiarsi alla prima difficoltà, non può perdere la parola o farsi prendere dai tanti (e bugiardi) "l'avevo detto". Un "l'avevo detto" che non avrà sicuramente pronunciato Marcello Cola, maestro di kung fu, presentatosi allo stadio con uno striscione dell'"Italian Athletic Club San Francisco", integrato dalla scritta "Forza Lazio". "Ogni settimana vediamo le partite su Rai International. Quanti laziali ci sono nel club? Veramente soltanto io. Ma farò proseliti". Che fedeltà.
La Repubblica titola: "Delusione Lazio, brutta frenata".
L'articolo prosegue: L'occasione per il primo posto è passata e se n'è andata, la Lazio non l'ha saputa prendere, adesso deve sperare che capiti di nuovo da queste parti. Ma a fine partita c'era la palpabile sensazione di essere finiti in una di quelle partite di tennis dove se sprechi un matchball non ne rivedi uno per tutta la finale, la rimonta della Juve a Parma ha stordito il pubblico più della boccheggiante Lazio di questo pomeriggio. Se l'è giocato male il suo pomeriggio più importante dopo 24 anni, doveva essere la prova di maturità, la dimostrazione di una irresistibile ascesa ma la squadra di Eriksson ha trascorso novanta minuti smarriti, sempre lontana dal suo eldorado. Ed è vero che la striscia si allunga a 22 partite di imbattibilità e che un pareggio non è un'indecenza, in fondo è successo anche alla Juventus contro il Napoli. Ma ci sono partite che contano di più, che devono mettere l'affanno agli avversari, far sentire loro che sono braccati. Da questa giornata sono gli juventini a imparare che anche la Lazio può arenarsi. Il Piacenza, venuto qui con una difesa inventata per le assenze di Vierchowod, Sacchetti e Polonia, ha compiuto un piccolo capolavoro che naturalmente ha suscitato minore interesse nel pubblico dell'Olimpico tutto preso dai calcoli del sorpasso. Ma la squadra di Guerini ha avuto tre lineari chance per il vantaggio, quali la Lazio non ha mai avuto per tutta la partita. Al 12' Buso superava Favalli, il suo cross era deviato all'indietro da Lopez, con un pronto riflesso Marchegiani riusciva a parare i danni e a deviare sul palo. Al 18', un tiro dal limite di Dionigi finiva contro il sette della porta laziale, a significare che anche in una giornata di luna storta, il peggio era scampato.
Il Piacenza avrebbe avuto un'altra possibilità al 34' quando ancora Dionigi arrivava pericolosamente al tiro. La Lazio mancava di Nesta e Nedved, chiaramente insostituibili in questa fase, anche se nell'analisi finale, Eriksson faceva notare che "tutta la Lazio era sotto tono, anche quelli che non hanno giocato martedì a Auxerre". Il riferimento era a Jugovic, protagonista forse della sua peggiore gara della stagione. Il ceco sarebbe stato utile per disarticolare la difesa piacentina e su un paio di contropiede il suo affondo sarebbe stato più tagliente. Dopo un primo tempo dominato tatticamente dal Piacenza la Lazio ha cercato il risveglio ed è andata avanti per forza d'inerzia, peraltro creando poco e rischiando ancora tanto. Lunga, molle, sempre in ritardo sulla palla, la squadra si è trascinata fino alla fine, mentre l'ultimo tiro era ancora di Scienza. Al fischio finale del bizzarro Tombolini partiva addirittura qualche fischio: ma le curve rispondevano con un applauso anche nel giorno più nero. Il Piacenza ha dovuto rinunciare a Stroppa dopo la prima azione, nella ripresa, con l'ingresso di Casiraghi, Guerini mandava Rossi in marcatura sul centravanti e retrocedeva Mazzola a libero. La squadra è stata sempre compatta e generosa, mai catenacciara. La Lazio è andata a sbattere ciecamente contro la sua voglia di non retrocedere, nella circostanza superiore alla voglia di scudetto della Lazio. La Lazio sapeva che il primo mezzo passo falso l'avrebbe gettata nella depressione, a inseguire non si può sbagliare mai. Eriksson cerca ora di mantenere sgombra la mente. "Questa occasione persa può pesare se uno comincia a parlarne. Ma se siamo intelligenti e guardiamo avanti non avrà strascichi".
Ma ora la rincorsa deve partire da sabato prossimo a Udine, in una gara durissima. Eriksson è ancora convinto che la Lazio non sia in calo, per quanto possa essere stata vuota di gambe e di testa in questa domenica. "Io non ho dubbi, non siamo cotti, ho fiducia al 200% in questa squadra ma è totalmente inutile che ne parli. Abbiamo la possibilità di dimostrarlo subito contro l'Udinese". Anche l'essere in corsa ancora in tre competizioni appare improvvisamente un peso, avere un paio d'impegni di meno in questo momento darebbe fiato a un gruppo che non ha tregua. "Voi dite che bisogna scegliere qualcosa? Va bene, andiamo a Udine, facciamo una grande partita, vediamo come va a finire e dopo ne parliamo". Sic transit gloria mundi, dopo un pareggio ecco che si sta a pensare a qualche abbandono, ma il rischio di perdere tutto è una paura che si è materializzata sull'Olimpico. Tutti questi fantasmi ha suscitato questo matchball sbagliato.
Tratte dal quotidiano romano, alcune dichiarazioni post-gara:
Eriksson: non siamo cotti il paradiso può attendere. Depressione generalizzata. Sono depressi i tifosi, appannati e senza fiato come la squadra (neanche i due gol del Parma li scuotevano da un inspiegabile torpore: colpa della primavera?); è depresso Cragnotti, che lascia lo stadio a testa bassa e labbra serrate; è depresso Zoff, che bofonchia "è tutto merito del Piacenza" ma in realtà ce l'ha con i suoi; è depresso Eriksson, allarmato al punto da dichiarare: "Sabato a Udine dovremo dimostrare di non essere cotti" (come se un rallentamento dopo cento giorni vissuti di corsa fosse assolutamente imprevedibile e ingiustificabile); sono depressi i giocatori, consapevoli dell'occasione sprecata (aggancio alla Juve): il tecnico, negli spogliatoi, ha cercato invano di consolarli (come poteva, se il più inconsolabile era proprio lui?). E' inviperito, invece, Josè Antonio Chamot, che manda a quel paese i giornalisti e non si sa perché: di sicuro l'emissario del Liverpool arrivato a Roma per visionarlo non presenterà una relazione positiva. L'unico a sorridere è Radomir Antic, tecnico dell'Atletico Madrid, la formazione che contenderà alla Lazio la finale di coppa Uefa: "Ho visto una squadra stanca, appannata. L'assenza di Nedved è stata molto importante. Ho studiato i movimenti di Boksic e Mancini e gli inserimenti dei centrocampisti. Sarà una gran partita: la nostra difesa, vedrete, non è quella che sabato si è fatta segnare cinque gol dal Salamanca". Neanche la Lazio è quella vista oggi, che riesce a creare solo un'azione da gol in 90 minuti contro il Piacenza.
Di sicuro l'allarme è scattato, azionato da un Eriksson preoccupato: "La squadra era vuota di testa e di gambe, almeno nel primo tempo. Abbiamo rischiato di perdere. Anzi, una partita così quattro mesi fa l'avremmo persa di sicuro. Una giornata storta, certo. Il pareggio è giustissimo. Ora, sabato a Udine, abbiamo una grande occasione per dimostrare che non siamo finiti". Perché è questa la grande preoccupazione di Eriksson: che la squadra sia alla frutta, mentalmente e psicologicamente, dopo una corsa a perdifiato che ha portato 22 risultati utili consecutivi ma anche un accumulo di stress non trascurabile. Cerca di tirarsi su: "Ma no, sono convinto che non siamo cotti, a Udine faremo una grande partita", sussurra, ma il timore disegnato sul volto paonazzo, quello resta. E' spietata, l'analisi di Eriksson. "Hanno giocato tutti sottotono, compreso Jugovic. Nell'intervallo mi ha detto di sentirsi strano, forse ha l'influenza, poi l'ho dovuto sostituire. No, non credo che con Nedved sarebbe cambiato qualcosa. Adesso l'importante sarà non fare processi e reagire con intelligenza, altrimenti questo pareggio finirà col pesare sul nostro cammino. Visto la Juve? Ha sette vite: la schiacci, sembra morta ma improvvisamente riemerge, viva". Insomma di positivo, in una domenica così, c'è lo storico record di Marchegiani (595 minuti di imbattibilità, superato Fiori) e il punto: "Sì, oggi mi va benissimo", chiude Eriksson con lo sguardo spento. Sembra che un pareggio abbia azzerato tre mesi indimenticabili: l'ambiente-Lazio è fatto così. A rendere più cupo il quadro, la confusione dei giocatori. "Non so spiegarmi una prestazione così negativa", dice Casiraghi, che in pieno recupero ha sprecato l'unica, vera occasione da gol costruita dalla Lazio. "Non siamo riusciti a esprimerci, ma non credo sia colpa della stanchezza".
Negro la pensa diversamente: "Beh sì, eravamo un po' stanchi per la trasferta di coppa". Il difensore ha una teoria originale: "Questo pareggio può farci bene: intorno a noi c'era troppa euforia". Tutti sono d'accordo su una cosa: "Abbiamo perso una grande occasione", dicono in coro uscendo dagli spogliatoi. Il meno turbato è Roberto Mancini: "E' stata una giornata storta, può capitare. In fondo non è cambiato niente, la Juve ha pareggiato, siamo sempre a due punti dalla vetta e mancano ben otto partite. Non è proprio il caso di drammatizzare". Non lo fa neppure Fuser, il capitano, anche se ammette che "la stanchezza è una spiegazione plausibile per giustificare questa prestazione. Ma per me non scatta alcun allarme, né fisico né mentale". Di sicuro, a questo punto, la partita di sabato diventa fondamentale. Lo sottolinea anche Eriksson: "Vediamo come andrà a Udine, poi valuteremo se sarà il caso di fare una scelta", cioè rinunciare al campionato per concentrarsi sulle coppe. A confortare il tecnico, la possibilità di preparare la sfida con l'Udinese senza impegni infrasettimanali. Eriksson ha il dubbio-Jugovic (impegnato con la sua nazionale in Colombia, tornerà giovedì sera) ma potrà contare sui rientri di Pancaro, Nesta e Nedved: gli ultimi due sono uomini imprescindibili per una squadra che può ancora sognare il Grande Slam. Adesso, però, l'obiettivo è esorcizzare la Grande Depressione.
Dalla Gazzetta dello Sport:
L'attimo fuggente è svanito. Ed ora bisogna capire quanto questo peserà nella testa dei giocatori della Lazio. Perché una cosa sono i silenzi ufficiali, ma nel gruppo tutti credono allo scudetto e pensare ai punti persi con il Piacenza, 4 su 6, potrebbe essere un tormentone. Dopo lo 0-0 dell'andata, ecco il bis al ritorno ed il primo risultato pari casalingo per la Lazio. L'atmosfera in casa biancoceleste non è delle migliori, Cragnotti lascia lo stadio amareggiato e si limita solo a salutare i giornalisti, a labbra serrate. Chi perde un po' le staffe è Chamot, che uscendo dallo spogliatoio risponde in malo modo a qualche collega che provava ad avvicinarlo. Ma è solo una parentesi, deprecabile, ma da ricondurre al difficile carattere del giocatore. Sven Goran Eriksson sfodera invece un sorriso dei suoi ed invita tutti a non perdere la calma: "Fra sei giorni ad Udine dimostreremo che non siamo cotti. Ma in questi momenti le parole contano poco. Sarà in campo, in Friuli, che bisognerà mostrare che la Lazio non è finita. Io credo al 200 per cento in questa squadra, che potrà far bene sia in campionato che nelle Coppe".
Sulla partita il tecnico svedese non cerca scuse: "La squadra era vuota nella testa e nelle gambe, specie nel primo tempo, quando il Piacenza ha giocato molto bene e potevamo trovarci sotto. Anche perché eravamo molto "lunghi" in campo. Quando ho visto anche gente come Jugovic, che martedì non aveva giocato, esprimersi sottotono ho capito che non andava. E non c'entrano le assenze: tutti hanno giocato al di sotto del loro standard. Poi nella ripresa è andata un po' meglio, anche se non abbiamo creato grandi occasioni. E' stata una giornata mezza storta e si può essere contenti anche con un solo punto conquistato. Purtroppo è così". Lo psicologo Eriksson adesso sta curando i particolari: "Ho parlato già con i ragazzi, dopo la partita. Quando capita una situazione del genere, meno male che si pareggia. In realtà non è cambiato nulla in classifica: 4-5 mesi fa avremmo perso una gara del genere. L'importante è che al nostro interno non si comincino a fare i processi, perché altrimenti peserebbe tanto questo risultato. Se siamo intelligenti pensiamo solo a Udine: sono convinto che lì giocheremo una grande partita".
Roberto Mancini guarda oltre, vuol continuare a sognare e crede senza remore e senza cedimenti in questa Lazio con lo sguardo sempre incollato alla testa della classifica. "Capita una giornata storta. Può capitare. Ma non cambia nulla in classifica, perché i punti di distacco restano invariati ed ancora mancano 8 turni. Cioè ci sono ventiquattro punti in palio. No, non c'è stata la sindrome da radiolina, per via del risultato della Juventus a Parma. E poi, dopo questa lunga volata, un po' di stanchezza ci può stare". Intanto la Lazio vede di ricompattare il gruppo per il prossimo difficile impegno di Udine. E' probabile il rientro di Pavel Nedved. Il nazionale ceco non andrà con la sua selezione mercoledì, ma dovrebbe essere in grado di assorbire per sabato la sua distorsione alla caviglia. Oggi invece parte per la Colombia Vladimir Jugovic, impegnato con la nazionale jugoslava mercoledì a Bogotà. Il suo rientro è previsto per la serata di giovedì, dunque anche lui sarà ad Udine, insieme ai rientranti Nesta e Pancaro. Anche se avrà nelle gambe un'andata e ritorno con tanto fuso orario da smaltire. E non è uno scherzo, visti i ritmi di questo finale di campionato, vista la tensione di questo finale di stagione.
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