De Pierro Aldo

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Aldo De Pierro

Difensore, nato a Roma il 3 maggio 1923 e deceduto a Tarquinia (VT) in data 11 aprile 2015. Soprannominato "Zeppo".

Entrato nel vivaio biancoceleste all'età di 9 anni, ha percorso tutta la trafila delle giovanili. Alternava il calcio con il suo impiego all'Immobiliare. Ha avuto come allenatori Dino Canestri, Alessandro Popovich, Walter Alt, Karl Sturmer e Toni Cargnelli. Ha disputato 2 stagioni in maglia biancoceleste in prima squadra a partire dal 1943/44. Vinse per due volte con la Lazio giovanile il Campionato provinciale Ragazzi. Dotato di un fisico scattante e di un calcio potente, divenne presto un elemento molto affidabile della difesa e venne premiato come il migliore terzino del girone I della serie C quando andò in prestito all'Alba. La guerra lasciò un segno profondo nella vita di Aldo in quanto la sua famiglia, residente in Via Clitunno e con il padre Oreste che faceva il barbiere, ospitava prigionieri di guerra evasi, rischiando così la rappresaglia tedesca del vicino Comando delle SS. Chiamato alle armi nell'Aeronautica, partecipò al campionato militare. Nel 1943 tornò alla Lazio e disputò il campionato misto romano. Nel 1947 passò al Sora, dove rimase due stagioni e successivamente alla Viterbese, dove giocava insieme al giornalista Sandro Ciotti. Nel 1949/50 giocò con la Sogene, nel 1950/51 con l'Artiglio e, infine, dopo essere tornato al Sora, concluse la carriera a 30 anni con l'Artiglio di piazza Bologna. Con la Lazio ha collezionato 27 presenze in Campionato. Andato in pensione vive a Roma insieme alla moglie Ione e non segue con particolare attenzione le vicende calcistiche pur facendo parte dell'Associazione Vecchie Glorie di Roma e Lazio e tifando per i colori biancocelesti. Ritiene, infatti, che il gioco odierno sia troppo tattico e privo di spettacolarità. Nel tempo libero Aldo si dedica alla falegnameria artistica e costruisce mirabili miniature. Alla fine degli anni '80 fu osservatore della Lazio e, pur lavorando a titolo gratuito, gli fu ritirata, unitamente ad altre Vecchie Glorie laziali, la tessera omaggio per assistere alle partite. Fu una decisione presa dall'allora presidente Gian Marco Calleri. A tale assurda e irriconoscente decisione pose rimedio il presidente Sergio Cragnotti che restituì, saggiamente, a questi generosi ex atleti il titolo di accesso allo stadio. Dal 2012 riceveva assistenza in una casa di riposo di Tarquinia. L'11 aprile 2015 si apprende la notizia del decesso di Aldo che, in tale data, era il decano dei calciatori biancocelesti.



Palmares[modifica | modifica sorgente]

  • 1 Coppa.png Campionato Romano di guerra 1943/44



Olimpicus, con estrema cortesia, ha voluto donare a LazioWiki il racconto che segue. Esso si basa su quanto gli narrò Aldo De Pierro in un'intervista.

DERBY 1944

Questa è una storia vera. Sembra inventata di sana pianta, lo so, ma è invece tutta vera. Vera come è vero che l'uomo è lupo all'uomo. Me la raccontò Aldo De Pierro, un veterano calciatore classe 1923. Lo incontrai per caso in un parco capitolino, qualche tempo fa, un mattino d'autunno pieno di vento. Seduti su una panchina di legno verde, ricordò questa e altre vicende per me. L'ho colorita un po' ma il succo è suo, roba biologica al cento per cento, e anch'io ci ho messo poco solfito. Ma andiamo per la quale. Mi disse il vecchio: "Marciava, forse anche marciva, l'anno 1944. Roma gemeva sotto il tallone nazista. Dopo l'Otto settembre 1943 dell'armistizio unilaterale, erano giunti i tedeschi a ricordarci che, per loro, la guerra con gli americani non era affatto finita, e noi si era fondamentalmente dei traditori. Kesselring, la città aperta coi tanche cingolati dentro, le pattuglie in divisa, e ziffe e zaffe a gambe tese e mascelle dure, gli ukase bilingue sui muri che invitavano alla collaborazione e tutta quella robaccia nazista. Che schifo...". Aldo sputò per terra e stette un attimo a guardare il vuoto davanti a sé. Ma c'era in quel momento un bambino che transitava in bicicletta e che se lo guardò bene, un poco allarmato. Aldo si riscosse da quel nulla che l'aveva acchiappato e riprese a parlare, la cadenza lenta e strascicata, con un fazzolettone bianco stretto forte tra le mani grosse.

"Io avevo vent'anni. Abitavo coi miei genitori, mio padre faceva il barbiere a via Clitunno, vicino Villa Ada. Dopo l'Otto Settembre, papà s'era preso in casa, a pensione diciamo, due soldati inglesi fuggiti da una prigione. Avevano la mia stessa età ed eravamo diventati buoni amici. Simpatici. Ci intendevamo a gesti e, col poco italiano che masticavano, si rideva pure. A volte, li portavo a spasso: per evitare di venire scoperti, fingevano d'essere muti. Li ho condotti pure a vedere le partite di pallone allo stadio. Gli piaceva un frego, il football. Erano inglesi! Beh, essere sudditi britannici a Roma, in quel '44 di merda, non costituiva un benestare per il Paradiso. C'erano molti diavoli vestiti di nero, in giro, che gli inglesi li cercavano col forcone. Ma anche i nostri soldati non li vedevano meglio. Dopo la resa, gli ex in grigioverde che non avevano aderito alla Repubblica Sociale se ne rimanevano rintanati nelle case di amici, e in molti, la sera, stavamo con le orecchie incollate ad ascoltare Radio-Londra, con gli indovinelli in codice che non si capiva un accidenti (neppure i miei pensionati inglesi ci capivano un granché...). I controlli della polizia militare erano frequentissimi, si viveva nell'incubo dell'arresto e della conseguente traduzione nei campi di prigionia in Germania. Noi, poi, con due tommie nascosti in casa, rischiavamo che peggio non si poteva. In città s'era fermata quasi ogni attività civile, ma fortunatamente il calcio no. Fu un inverno buio, colmo di angoscia. I tedeschi invasori avevano bisogno del calcio per svagare la popolazione, insieme a qualche cinema e a un paio di compagnie teatrali (ricordo Aldo Fabrizi, magro come uno stecchino, che vidi al Manzoni in un musical "Aria di Roma"). Io ero un calciatore della Società Sportiva Lazio. Tutta la trafila: da pulcino a titolare, per la prima volta in quella stagione 1943-44; più una veloce passata nella squadra dell'Aeronautica".

"Noi giocatori di buon livello – laziali, romanisti, della Mater, dell'Alba, del Trastevere eccetera – avevamo bisogno del pallone come scusa per non arruolarci al servizio dei crucchi, e per stiracchiare qualche liretta con gli incassi che ci spartivamo. È vero che ci toccava sobbarcarci anche la vendita ai botteghini: m'è capitato. Io ero terzino nella Lazio, che con la Roma e altre poche formazioni raffazzonate alla meglio stava disputando un torneo tipo campionato. L'incontro della domenica consentiva di dimenticare per un paio d'ore i bombardamenti delle fortezze volanti americane, col loro rombo cupo e maledetto, le sirene che ululavano nella notte, il coprifuoco la sera, la paura sempre presente come una cagna senza padrone che ti guarda in un angolo della strada, e la benedetta, benedettissima tessera del pane. C'era talmente tanta fame e tanto poco pane, che ho magnato un monte di vegetina e castagnaccio, e almeno in una dozzina di occasioni mi sono avventurato fuori porta a cercare erbe di prato. Pure la cicorietta selvatica, le sorbe e le spighette di qualsiasi cosa verde commestibile erano diventate oro che luce, in quei mesi. C'era gente che andava a rifornirsi d'acqua potabile alla fontana vicino al Vaticano, lì al principio della salita di via Gregorio VII. Aspetta: ricordo un trafiletto sul Messaggero, che forse ti dice meglio quello che stavamo passando. Il trafiletto faceva cucù nella pagina degli annunci e diceva testuale: 'Chioccia gallina pronta per uova cercasi, anche prestito. Telefonare...'. Quel giorno di marzo – che non m'ha lasciato più e m'angoscia ancora, sapessi quanti sogni brutti ci ho fatto, stavo recandomi al cinodromo della Rondinella, su a nord lungo la Flaminia, per l'allenamento solito del giovedì. Funzionava un tramvetto che partiva da piazza del Popolo. Con me c'erano Amedeo, il portiere della squadra, ed Edoardo, pure lui terzino, ma dall'altra parte, a sinistra. Io ero il terzino destro, te l'ho gà detto mi pare...".

Il vecchio, a quel punto, mi guardò come per un sospetto improvviso. Il vecchio era un bravo cristiano, ma dava l'impressione di un'allerta perenne, come se stesse sul chi va là che da un momento all'altro lo potevano acciuffare. Ma chi? Chi lo poteva acchiappare, se non la Morte stessa, pensavo tra me. Passarono due carabinieri a cavallo. Belli impettiti. Anche loro se lo scrutarono ben bene per qualche attimo. Proseguirono oltre, giù per la discesa alberata sotto i pini. Io gli feci sì col capo, come a dire che andava tutto liscio, e lui continuò il racconto interrotto, sospirando di sollievo. "A Edo noi lo chiamavano Er Zagaja, perché balbettava a tutt'andare, in specie quando s'innervosiva. Qualche tifoso maligno diceva che balbettava idem col pallone, nel senso che non disponeva proprio della classe di Piola. A proposito, il Silvione non giocava più con la maglia biancoceleste, sapevamo solo che era tornato su a casa sua. Qualche battuta a caccia con Piola, i miei compagni più grandi, l'avevano pure fatta. Piola era un appassionato pazzesco. Ma adesso, gli unici che andavano a caccia erano i nazisti, e purtroppo cacciavano noi romani. Ma scusa la divagazione, noi che abbiamo un'età perdiamo il filo facilmente, sai... Insomma, dopo una ventina di minuti di viaggio, scendemmo dalla predella del tram, la linea uno, e ci avevamo lo stadio della Rondinella proprio davanti. Non s'era acquetato lo stridio dei freni che udimmo una voce stentorea, col classico timbro crucco leggermente in falsetto. Ci intimò: 'Alt! Documenti!' Era il capitano d'un plotone di SS, quelle con le lettere a forma di fulmine. I fanatici di Himmler, il peggiore incontro possibile nella città del papa in quel 1944 boia. E non è tutto: era giusto il giorno dell'attentato a via Rasella (il 23 marzo, ma noi non sapevamo ancora nulla della cosa...) e coi tedeschi c'erano due camicie nere fasciste che gli servivano da interpreti. Quel triste gruppetto stava pattugliando alla caccia dei colpevoli. Alla ricerca di qualcuno a cui farla pagare. M'irrigidii subito, perché ero terrorizzato. I miei due compagni lo erano altrettanto. M'accorsi che Amedeo stava immobile e tirato in viso come quando puntava i piedi sulla linea di gesso della porta in attesa che il centravanti gli sparasse contro il calcio di rigore. Er Zagaja, parimenti, era pallido come un cencio lavato tre volte. La mia faccia non doveva essere migliore. A proposito, a me mi chiamavano Zeppo. E tuttavia, io fui il primo a riprendere il controllo dei pensieri. Perché, devi sapere, non c'è niente di meglio d'un tedesco in divisa che te fulmina con gli occhi celesti, per bloccarti il flusso razionale ed infliggerti una spiacevole sensazione di guai imminenti".

Per fortuna, siccome sono un tipo per natura previdente e, con gli inglesi in cucina, sapevo come fare per sfangarla, avevo avuto l'accortezza di procurarmi un lasciapassare autografato dal generale Kesselring. Mentre Amedeo, col riflesso pronto che lo contraddistingueva, ebbe la magnifica idea d'esibire la tessera azzurrina della SS Lazio. Il capitano tedesco, biondo e giovane, simile di lineamenti a Miro Klose, con quegli occhi tondi che sembrano innocenti ma forse non lo sono, dinanzi al documento, sul quale era impressa un'aquila ancora più grifagna e imperiale di quella che mostrava sul berretto, s'inchinò docile e salutò col liberatorio Javol! Ma sfiga volle che il povero Edo non ci tenesse in tasca né un documento di riconoscimento né la tessera laziale, e nemmeno la tessera annonaria. Immaginate la smorfia del capitano Klose. Diventò all'istante un blocco di ghiaccio; già si potevano indovinare le incrinature, su quel ghiaccio bianco e nordico, e nel buco chi ci sarebbe cascato dentro?" Il vecchio spalancò gli occhi, che anche lui li aveva celesti e tondi, ma acquosi e poco sani. Si immobilizzò come una sfinge in attesa d'una mia risposta. Io gli puntai la mano come una pistola, col dito indice che faceva da canna, forse una Luger, e il pollice che era il grilletto. Lui mi chiuse la pistola nella sua manona callosa. Si soffiò rumorosamente il naso. Sorrise, infine, e riattaccò la sua storia. "Sei un nazista pure tu... Ma quelli erano nazisti veri, sai, tedeschi di Adolfo Hitler, e chiesero spiegazioni al Zagaja. Figurati! Il mio disgraziato amico e compagno di gioco, in cinque lunghissimi minuti non riuscì a dire nulla di sensato. Iniziò a balbettare, a tremare e a sussultare con la testa e il petto e le braccia che pareva uno shaker a manovella dei tempi del proibizionismo a Chicago. A un dato momento, le camicie nere si stufarono, s'alterarono alquanto e l'accusarono, senza mezzi termini, d'essere un partigiano, anzi, proprio uno degli attentatori. Un tipo alto e secco, col fez e i baffetti alla Amedeo Nazzari, minacciò di passarlo per le armi. Ci aveva un pugnale alla cintura e lo tirò fuori, con un gesto e un ghigno che dicevano molto. Amedeo e io cercammo di difendere er Zagaja. Lui era innocente e noi eravamo pronti a seguirlo agli arresti".

"Poi mi passò per la mente la felice idea di mostrare a quegli aguzzini una copia del Littoriale, il giornale sportivo a un foglio solo che tenevo ripiegato in quattro nella tasca interna della giacca, e nel quale figurava una foto della Lazio, con l'Edo bello sorridente. La mossa, impreveduta certamente, sortì un certo effettaccio. I nazisti e i fascisti esitarono. Allora ci prese l'animo di Pulcinella ed attaccammo a recitare pressappoco così..." Il vecchio si rattrappì tutto mentre mimava la sua scenetta. Pareva davvero che avesse davanti a sé di nuovo dei tedeschi, alti, biondi e in divisa, che è la specie peggiore dei tedeschi, non come quelli mezzi turchi di oggi campioni del mondo, e io allungai un braccio sulla panchina, all'indietro, per gustarmi meglio la recita. I carabinieri ripassarono davanti a noi, a due metri, questa volta in salita, sempre impettiti, e non ci degnarono d'uno sguardo. Noi calciatori Lazio, noi fascisti, noi giocare fussball, noi camerati... Noi brava gente. Noi atleti della Patria... Heil Hitler! Heil Hitler! Viva Mussolini! Eia eia alalà! Non ci crederai: la cosa funzionò. Sconcertati, quelli accettarono la probabilità che non avessimo niente a che vedere con le bombe di via Rasella. Improvvisamente, però, una delle due camicie nere, sempre quella coi baffetti biondi, esclamò: 'Qui sono in gioco i destini della Patria!' Questi tre li portiamo in caserma per gli accertamenti e domenica sera esamineremo il loro caso!' Per noi si fece allora buio pesto tutto d'un botto, nonostante fosse pomeriggio pieno e il sole brillasse alto, indifferente alle disgrazie umane. Ci sentimmo come il Cristo in croce col ladrone pentito e il ladrone cattivo, nell'istante in cui le nubi si chiudono e arriva il terremoto. Er Zagaja riprese a balbettare violentemente, si capiva che intendeva dire qualcosa d'importante, di vitale per la sua stessa sopravvivenza, ma non ce la faceva. Tremava come un salice. Scoppiò a piangere a dirotto, in preda a una crisi di nervi. E fu in quell'attimo che il buon Dio s'interessò al nostro caso. Infatti, mandò sul posto alcuni dirigenti della SS Lazio, che arrivarono in tram, anche loro lì per assistere all'allenamento. Quelli ottennero, parlando con calma e comunque con gravi difficoltà, la nostra liberazione. La camicia nera stronza si rassegnò all'epilogo. Ma, prima d'andarsene, pronunciò una tremenda minaccia. Non so perché la buttò là, sul momento mi parve quasi una battuta, uno scherzo".

"Disse esattamente: 'Tanto domenica perderete... laziali de 'sto c...!'. Evidentemente era un giallorosso. Un lupo, però, cattivo profeta, perché la partita la domenica la vincemmo. E il derby contro di loro, alcune settimane dopo, lo bloccammo sullo zero a zero, che andava bene per aggiudicarci il torneo di un punto sulla Roma. Fu una vicenda che, a sentirla adesso, sembra una piccola commedia alla De Filippo. Eppure, ogni volta che ci ripenso, mi viene da vomitare. Da vomitare amaro e da purgarmi l'anima a credere che un tifoso romanista ci aveva quasi condannato a morte per fucilazione perché eravamo tre giocatori laziali. E solo per vincere un campionato di calcio". A questo punto, il vecchio si fermò: la sua storia era finita. La sorpresa del finalino m'aveva lasciato di stucco; e credo che la cosa si notasse sulla mia faccia. Allora il vecchio rise. La risata partì lenta e bassa, poi tremolò un poco, come un motore che s'imballa, divenne presto una specie di rantolo, morì in un singulto catarroso. "Ma è tutto vero?" gli chiesi. Per tutta risposta, il vecchio infilò la manona gonfia nel taschino interno della giacca e tirò fuori un portafogli sgualcito. Dentro, ancora più sgualcita, ci teneva una tesserina azzurra, con un'aquila in un angolo e il suo nome stampato sopra. Poi, senza una parola di saluto, se ne andò via dalla panchina. Il fazzoletto bianco stretto nella mano destra e l'altra mano sulla tesa del cappello borsalino, a non farlo scappare nel vento.






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