La scomparsa di Sinisa Mihajlovic

Da LazioWiki.

Sinisa Mihajlovic
La prima pagina del Corriere dello Sport del 16 dicembre 2022
Il ricordo di Sinisa Mihajlovic sulla prima pagina de Il Messaggero del 16 dicembre 2022
La notizia della scomparsa di Sinisa Mihajlovic su Il Tempo del 16 dicembre 2022
La prima pagina della Gazzetta dello Sport del 16 dicembre 2022

La scheda di Sinisa Mihajlovic

Il giorno delle esequie


Vasta eco e profondo dolore hanno caratterizzato la notizia della prematura scomparsa di Sinisa Mihajlovic avvenuta in Roma nella giornata del 16 dicembre 2022. Gli articoli seguenti, tratti da vari organi di stampa, ci aiutano a ricordare e ci raccontano ulteriormente la figura del grande Campione biancoceleste.


• Dal Corriere dello Sport del 17 dicembre 2022:

Sinisa così fa troppo male. È morto ieri, a 53 anni, sconfitto dalla malattia. Si è battuto a lungo per ogni piccolo momento di felicità, sostenuto dal grande amore per il calcio. L’omaggio silenzioso dei tifosi, il dolore degli amici del figlio. La famiglia: "Morte ingiusta e prematura". A luglio del 2019 aveva annunciato di avere la leucemia.

Roberto Mancini se ne va dalla clinica Paideia alle sette e mezzo di sera, da solo, guidando una 500 Abarth dopo essere rimasto un bel pezzo appoggiato a una parete, a vegliare l’amico scomparso. Sinisa Mihajlovic ha lasciato tutti, i figli, la moglie, la madre, il fratello di campo, all’inizio del pomeriggio. Alle 15.08 lo annuncia l’agenzia Ansa con un comunicato della famiglia: "Una morte ingiusta e prematura". A 53 anni è certamente prematura, e ingiusta come tutte le morti del mondo. Soprattutto, una morte testarda: ha inseguito Mihajlovic fino a sfinirlo, facendogli credere per un po’ di averla seminata, raggiungendolo quando era distratto e probabilmente felice. Leucemia mieloide acuta, sta scritto sulle scartoffie che i medici portano avanti e indietro lungo i corridoi della clinica romana. Siamo foglie al vento e fogli di carta. Mihajlovic aveva conosciuto la malattia a metà del 2019, se n’era liberato grazie a un trapianto di midollo osseo ricevuto da un donatore statunitense, era tornato a dialogarci qualche tempo fa. Diciamo pure a combatterci, anche se la storia del guerriero che non si arrende fa più settimo sigillo che storia reale di un uomo concreto qual era Sinisa. Che infatti poco la sopportava. Combatteva, ma per conquistare quel passo in più di terreno quotidiano: la partita da seguire in panchina, l’allenamento personale da portare avanti, un chilometro da aggiungere piuttosto che uno da sottrarre.

La serata a parlare in pubblico di calcio e di ciò su cui il calcio secondo lui si fondava, intelligenza, qualità e, in questo caso sì, voglia di vincere contro qualsiasi speranza. Per la lotta, lasciava fare alla medicina. Meno di tre settimane fa era alla presentazione di un libro di Zdenek Zeman, con il sorriso di chi si sente bene e al posto giusto. Domenica scorsa per un improvviso aggravamento era dovuto tornare alla Paideia, la clinica dove si era sempre curato sin dall’inizio del periodo alla Lazio. Stava vicino a casa sua, poi si è spostata nella sede attuale. Un candido poliedro regolare spezzato da cornicioni orizzontali, con i muri interni rivestiti di materiale azzurro. All’esterno, pannelli luminosi attraversati da nevicate di luce ricordano che è quasi Natale. Dentro, le stanze somigliano a camere d’albergo spaziose e comode. Ma sempre stanze d’ospedale sono. Odorano di medicinali e disinfettante. Mihajlovic era nella numero 326, al terzo piano. Ieri riposava, infine, con il viso segnato dall’infezione che lo aveva colpito, proprio nel momento in cui le sue difese non reagivano. Hanno visto i figli seduti in terra intorno al letto, la moglie Arianna accanto a lui, la madre sul divano del salottino attiguo alla camera. Un dolore intenso, composto ma non represso, non distante. E Mancini appoggiato alla parete.

Pochi amici della vicenda recente di Mihajlovic - come Massimo Ferrero, tuttora proprietario della Sampdoria, e dirigenti della Lazio di una volta - si sono avvicinati alla salma, mentre in tanti erano andati a salutare l’amico nei giorni scorsi, quelli della lotta finale per un respiro, per qualche parola. E in tanti torneranno oggi se, come sembra, la camera ardente verrà allestita nella stessa clinica in forma privata. Per domani è allo studio un omaggio pubblico in Campidoglio e il funerale è programmato per lunedì alle 11 nella basilica di Santa Maria degli Angeli, in Piazza della Repubblica a Roma. C’erano i tifosi, però. Qualcuno. Intimidito, discreto, rispettoso di un dolore che là, sotto il poliedro candido, si poteva soltanto intuire. A tarda sera in tre hanno tentato di portare una maglia della Lazio alla famiglia. Non li hanno lasciati entrare. Se ne sono andati senza protestare. Non erano lì per sé stessi, bensì per rendere omaggio alla memoria di un giocatore che li aveva glorificati e di un allenatore che ha tentato di glorificare altri ma sempre rivendicando, con pacato orgoglio, la sua specificità: non ho nulla contro la Roma e ovviamente contro nessuno, diceva, però io mi sento profondamente laziale. E diceva anche: nella vita serve coraggio e bisogna avere personalità.

Per esempio, Guido De Angelis racconta di quando Mihajlovic e Stankovic fuggivano in macchina dai bombardamenti in Serbia e Stankovic piangeva e Sinisa gridava: che cavolo piangi? E casualmente tutto finì trasmesso direttamente in radio. Per questo e per il resto, Mihajlovic era un personaggio verticale e trasversale. Divisivo nella misura in cui voleva esserlo, per pura onestà sentimentale e intellettuale. Da pomeriggio a notte, immerso in un’umidità sempre più cattiva, ha stazionato sul marciapiede opposto a quello dell’ingresso della Paideia un gruppetto di ragazzi. Guardavano verso la finestra della camera di Sinisa, da cui di tanto in tanto qualcuno ricambiava gli sguardi e i gesti. Tifosi anche loro, certo, ma senza bandiera. I più della Lazio, qualcuno della Roma. Tifosi per caso. Erano gli amici di Nicholas, uno dei figli lasciati da Mihajlovic. Non aspettavano alcuna resurrezione, neppure concettuale, di un idolo calcistico che aveva completato il suo percorso terreno, aveva vinto e perso, gridato e rotto serrande nei momenti di insofferenza, consolato e sostenuto in quelli di pedagogia, e Mihajlovic ne viveva perché sentiva di avere visto molto e di averne di cose da insegnare. No, quei ragazzi aspettavano soltanto che scendesse Nicholas, per incoraggiarsi insieme ad andare avanti. Nel frattempo, lo spiazzo davanti alla clinica si era svuotato. Sull’asfalto umido si riflettevano le scritte dei pannelli natalizi e la neve di luce continuava a cadere.


► "Ho perso un fratello". "Io e Mihajlovic abbiamo condiviso quasi trent’anni di vita insieme: lo portai alla Samp con un anno di ritardo, perché la Roma riuscì ad anticiparci. Grazie a lui ho fatto il gol più bello della mia carriera".

Non trova le parole, perché è tutto così difficile. Lo aveva capito da giorni che avrebbe perso il suo amico del cuore, ma poi è successo e anche se ti sei preparato non sai come affrontare il dolore e la nuova vita senza Sinisa. "Pochi giorni fa, prima che lo ricoverassero, avevamo visto insieme una partita del Mondiale. Ridendo e scherzando, stava abbastanza bene, era uno di quei momenti in cui non pensi a quello che stai affrontando e vivi come se nulla fosse". Roberto Mancini è sconvolto, non si era allontanato da Roma per stare accanto ad Arianna e ai suoi figli. "Sono cresciuti con i miei, abbiamo percorso tutte le tappe della nostra vita insieme, almeno quelle più importanti. Per me era un fratello, sì ho perso un fratello perché siamo andati oltre l’amicizia. Inevitabile quando condividi tante emozioni l’uno accanto all’altro". Niente sarà come prima. Tanti anni fa, Mancini pianse per la morte di Paolo Mantovani, un presidente-padre. Era il 1993 e Roberto con la Samp aveva vinto uno scudetto e perso una finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona a Wembley scrivendo la storia blucerchiata. L’anno successivo alla scomparsa del padrone della Samp, arrivò a Genova proprio Mihajlovic e non per caso. Lo rivela proprio l’attuale ct della nazionale italiana, che iniziò a fare mercato per i suoi club molto prima di arrivare a Roma e di collaborare con Sergio Cragnotti.

Decisivo, nel ‘99, quel consiglio al finanziere della Lazio: "Se deve cedere Vieri a Moratti, prenda Simeone perché ci farà vincere lo scudetto". Anche a Genova, molto più giovane, ebbe la vista lunga e oggi il ricordo assume un valore emotivo diverso. "Vidi Mihajlovic giocare con la Stella Rossa l’anno in cui vinse proprio la Coppa dei Campioni, consigliai alla Samp di acquistarlo subito. Si trattava di un giovane di vent’anni che giocava come un veterano e in più aveva un sinistro da favola. La Roma fu più brava di noi e ce lo portò via, ma due anni dopo finalmente riuscimmo a prenderlo. Da quel momento è iniziata la nostra grande avventura". Quasi trent’anni insieme, anche se le rispettive carriere di allenatori li aveva separati dal punto di vista logistico. Mihajlovic aveva cominciato al fianco di Mancini all’Inter, come vice, ma aveva una personalità prorompente e un’ambizione pari a quella da giocatore per lavorare in coppia. Da solo iniziò nel novembre del 2008 a Bologna, guarda caso la società e la città in cui Roberto aveva iniziato a giocare. "Era inevitabile che le strade si dividessero, ma insieme abbiamo condiviso tanti anni con la Samp, con la Lazio e con l’Inter. Abbiamo vinto molto, quasi tutto, in un percorso condiviso. Il nostro non era un clan, era un grande gruppo di amici. Difficile catalogare i ricordi, come sarebbe mai possibile? Ce ne sono a centinaia, difficile anche fare una scelta".

Nessun rimpianto, se non quello di averlo perso per sempre. "Ma solo dal punto di vista fisico, perché Sinisa è sempre stato accanto a me e lo sarà anche adesso che non c’è più". C’è un lampo negli occhi di Mancini in una giornata così triste e devastante. Un pensiero improvviso, come se volesse allontanare il dolore o il pensiero che Mihajlovic non c’è più. "Sinisa mi ha fatto fare il gol più bello della mia carriera, come potrei avere dei rimorsi? Di tacco ne avevo fatti tanti altri, ma quello resta unico". Era il 17 gennaio del 1999, Parma-Lazio al Tardini: angolo di Sinisa, magia di Roberto, palla all’incrocio dei pali e abbraccione con Bobo Vieri, incredulo di fronte a tanta bellezza. "Oggi posso dire che è il più bello davvero" sussurra il ct che rende onore all’amico appena perso. C’era anche il gol di Napoli, al San Paolo, con la maglia della Samp ma l’emozione è diversa. "Non è giusto che una malattia così atroce si porti via un ragazzo di 53 anni. Sinisa ha lottato come un leone fino all’ultimo istante, come faceva in campo. Lo ricorderò per sempre così, tosto e coraggioso, le qualità per cui l’ho sempre voluto accanto a me".


► Sinisa e Roby per sempre. Insieme cambiarono la storia della Lazio.

Se n’è andato via proprio come aveva vissuto, dal primo all’ultimo giorno, lottando contro tutto e contro tutti e sempre senza paura. Sì, perché Sinisa non ha mai avuto paura di niente, non ha avuto paura delle bombe a Belgrado e di confessare che aveva dato del negro a Vieira, non ha avuto paura di una curva che lo sfidava e di una malattia che non lo aveva mai messo in ginocchio, fino a qualche ora fa. Stavolta ha dovuto affrontare un nemico che non si poteva schiacciare, è rimasto in trincea e lo ha combattuto a viso aperto, come faceva con gli avversari più veloci di lui, che Eriksson trasformò in un difensore capace di intuire prima che cosa avrebbe fatto il suo avversario. Non era rapido? E chissenefrega, spesso lo anticipava o addirittura lo spaventava, perché era un duro e non tutti avevano il coraggio di affrontarlo. Della Lazio era diventato un simbolo, un’icona, un’immagine vincente, anche se poi avrebbe scelto l’Inter per chiudere una carriera ricca di successi: fu invitato ad andarsene da Roma e il desiderio di seguire l’amico del cuore, Roby come lo chiamava lui, è stato più forte dell’amore per una squadra che gli era entrata nel cuore. Ogni volta che Mihajlovic è tornato a Roma, è stato accolto come un grande amico, mai come un nemico. Sotto la Nord, a mani giunte, per ringraziare la sua gente che oggi lo ricorda come Maestrelli, come Chinaglia, come Bob Lovati e Re Cecconi, come Wilson, Pulici e Governato, come tutti i campioni scomparsi con la maglia biancoceleste sulla pelle.

Sinisa era arrivato nell’estate del ‘98, qualche mese dopo il crollo della Lazio a Parigi, nella finalissima di Coppa Uefa contro l’Inter di Ronaldo. Fu proprio Mancini a suggerire prima a Eriksson e poi a Cragnotti l’acquisto del difensore della Samp, ancora prima di imporre l’arrivo di Simeone nell’operazione Vieri. "Non siamo cattivi, non abbiamo la mentalità per vincere, una Coppa Italia non può bastare: presidente, porti Sinisa a Roma". Mihajlovic era stato un terzino della Roma, ma nessuno osò ricordare il suo passato perché Sinisa era già proiettato nel futuro. Aveva un carisma che ti conquistava. Sbruffone, ma dolcissimo. Cattivo, ma onesto. Coraggioso, ma anche antipatico: se non entravi in sintonia con lui, non potevi capire le sue provocazioni, i suoi messaggi, le sue pretese ma anche le sue concessioni. Sinisa era tutto e il contrario di tutto, nel bene e nel male. Era talmente testardo nella difesa delle proprie idee, da interrompere per oltre un anno anche l’amicizia con Mancini, che invece era e sarà il suo amico per sempre. Non si erano capiti: Sinisa aggrappato come sempre alla sua Arianna, Roberto lontano da Federica per una dolorosa scelta di vita. Si sono ritrovati quando è comparsa la malattia, ma già avevamo intuito tutti che si sarebbero riabbracciati, come a Genova, come a Roma e come a Milano. Sempre l’uno accanto all’altro: Mihajlovic, in campo, per Roby era diventato un nuovo Vialli perché per vincere non bastava il talento, serviva qualcosa che non tutti i giocatori possiedono.

Proprio per questo Mancini lo aveva consigliato alla Lazio, dove Sinisa diventò un comandante. C’era il clan dei sampdoriani e c’era il clan degli argentini, nella squadra con cui Mihajlovic ha vinto uno scudetto, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea, 2 Coppe Italia e due Supercoppe scrivendo pagine indimenticabili della storia biancoceleste: ricordava la Lazio del ‘74 per gli umori e per gli amori. C’erano moltissimi campioni di cui potevano innamorarsi i bambini che andavano accompagnati dai genitori allo stadio. Di Padre in Figlio per sempre, ricordò Pino Wilson nella storica notte in cui riempì lo stadio Olimpico riunendo generazioni di laziali vincenti e perdenti: e non sapete quanti amavano, tra quei bambini, uno come Sinisa, che quando sorrideva senza sfidarti diventava tenero e irresistibile. Ti poteva regalare una maglia all’improvviso (rigorosamente la numero 11), oppure incazzarsi perché non credevi al suo pensiero. Nello stadio del Chelsea, lo Stamford Bridge, Mihajlovic segnò un gol storico, regalando alla Lazio una vittoria indelebile; il 13 dicembre del 1998 realizzò tre gol consecutivi su punizione contro la sua vecchia Samp, conquistando un record storico e forse imbattibile in eterno. Ma Sinisa ha anche calpestato Mutu e offeso Vieira, ha minacciato Nedved e consigliato a Boskov di lanciare Francesco Totti, con cui si sarebbe ritrovato nella Questura di San Vitale nella notte in cui il derby del 2004 venne sospeso per questioni di ordine pubblico: erano i capitani della Lazio e della Roma e dovevano rivelare i contenuti dei loro colloqui con gli ultrà in mezzo al campo. Mihajlovic era un angelo e anche un diavolo, ma non abbastanza cattivo da battere l’ultimo nemico, talmente infame da non sfidarlo pubblicamente: altrimenti avrebbe vinto Sinisa.


"Per sempre uno di noi". La promessa di Conceiçao: "Veglieremo sulla tua famiglia". Couto e Fiore: "Ti saremo sempre grati". Eriksson: "Quel sinistro d’oro". Lotito: "Esemplare".

Si sentono solo silenzi che non riescono a parlarsi davanti alla clinica Paideia, sotto la camera 326 che custodisce le spoglie di Sinisa, l’ultimo leone. Roberto Mancini è accanto a lui da ore, fermo in un’immagine d’infinito. Gli altri vecchi amici di sempre ci sono senza esserci. Parlano i ricordi, echi di parole arrivano da tutta Europa mentre la pioggia a singhiozzo viene giù da un cielo confuso. Alessandro Nesta chiama Sinisa "mister", erano una coppia di amici e di centrali inimitabili: "Sei stato un guerriero. Un esempio per tutti noi e soprattutto per me". Dal Portogallo chiamano per conto di Couto e Conceiçao, chiedono informazioni su quando ci saranno i funerali: "Fernando e Sergio sono pronti a partire". Couto dice solo "grazie di tutto amico mio". Conceiçao, su Instagram, posta uno scatto con Sinisa, hanno le maglie della Lazio: "I veri trofei che conservo sono momenti come quelli che abbiamo vissuto insieme. Hai una famiglia in Portogallo che veglia sulla tua". Frammenti di vita arrivano addosso a tutti gli ex compagni di Sinisa. Anche Stefano Fiore ringrazia: "Sei sempre stato un esempio da seguire".

Lo scudetto. Sven Goran Eriksson ha la voce rotta, chiese Mihajlovic a Cragnotti per vincere lo scudetto e scudetto fu nel 2000 anche grazie alle sue "bombe": "Per me era molto più di un giocatore. E’ stato importantissimo per quei successi. Le punizioni, i rigori. Uno spirito enorme. E’ stato uno dei migliori al mondo, il suo sinistro era d’oro". Negli effetti ed affetti speciali della Lazio di Sinisa vivono ancora oggi i laziali. Sergio Cragnotti era il presidente di quei miti: "Sinisa ha dato un grande contributo ai trionfi della Lazio trascinando tutti con coraggio". A Cragnotti si è unito Claudio Lotito, il presidente della Lazio: "Di questo combattente dal grande cuore resterà una traccia indelebile nella storia della Lazio. Lo ricorderemo come merita, con l’abbraccio infinito della sua squadra e della sua gente". Il diesse Tare su Instagram: "Riposa in pace. Grande persona e grande campione". Tutta la Lazio è in lutto. Maurizio Sarri, appena terminata l’amichevole contro l’Hatayspor, ha rivolto un pensiero a Sinisa: "Ho i miei ricordi e vorrei mantenerli vivi. Un uomo di questo spessore ne lascia a tutti". Alessio Romagnoli è stato lanciato da Sinisa, piange: "Mi ha voluto alla Sampdoria e al Milan. Era una delle poche persone vere che ho conosciuto in questo mondo". Ciro Immobile ha vissuto la sofferenza degli ultimi giorni: "Umanamente è stata una delle persone con cui mi sono trovato di più a parlare. Ci incontravamo nella clinica dove andavo a fare terapie. L’avevo visto sofferente, mi faceva male al cuore". La Lazio, il Bologna. Riccardo Orsolini ha aperto il suo cuore: "Mi hai cresciuto sia come uomo che come calciatore, te ne sarò per sempre grato". Joey Saputo, presidente del Bologna, l’aveva esonerato a settembre, oggi lo piange: "Perdiamo un uomo straordinario, sapeva alternare i suoi celeberrimi atteggiamenti burberi ad una dolcezza fuori dal comune". Il cordoglio di Gabriella Bascelli, presidente della Fondazione S.S. Lazio 1900: "Immenso dolore".

Gli altri omaggi. Comunicati e messaggi s’alternano alle presenze in Paideia. Arriva Massimo Ferrero, ex presidente di Sinisa alla Samp: "Un super uomo. Cosa posso dirvi? Che non meritava l’esonero a Bologna? Non lo meritava". E scappa via in lacrime. S’intravede Vincenzo Cantatore, ex pugile, ex collaboratore di Sinisa a Bologna. Nella stanza al terzo piano c’è Maurizio Manzini, storico team manager della Lazio, ambasciatore della storia: "La sua grandezza, i consigli che sapeva dare". Il cordoglio di Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli: "Se ne va troppo presto un grande uomo. Un allenatore che in passato avevo pensato di portare a Napoli...". Fabio Capello e i derby più accesi: "Non si piegava, voleva rispetto e dava rispetto". La dedica di Gianni Morandi: "Passare tanti momenti insieme è stato un grande regalo". "Ciao Sinisa", il saluto di Vasco Rossi. Oggi siamo più soli, Vasco.


► La sua squadra più forte. Con Arianna un colpo di fulmine durante una trasferta a Roma. Hanno combattuto insieme. La moglie, i figli e la nipotina: tutti sempre al suo fianco.

"Ci siamo innamorati subito, ci siamo guardati e non ci siamo staccati più". Se la forza dell’amore bastasse a cancellare il male e il dolore, dovremmo prendere la storia tra Sinisa Mihajlovic e Arianna Rapaccioni e diffonderla in questo benedetto mondo. C’è davvero tanto amore dietro questo dolore. Più forte che mai in queste ultime ore, così difficili e strazianti. Arianna non si è mai tirata indietro, è sempre rimasta al fianco di Sinisa. Lo aveva fatto sempre, nella buona e nella cattiva sorte. Il giorno che Mihajlovic aveva annunciato al mondo la sua malattia in una conferenza stampa: seduta in prima fila, a dargli la forza, c’era lei. E così aveva fatto dopo: andando in pellegrinaggio fino a San Luca per pregare; entrando e uscendo dall’ospedale Sant’Orsola; restando sveglia nelle lunghe notti di apprensione. E quando era stato dimesso la prima volta dall’ospedale di Bologna, a novembre 2019, dopo il terzo ciclo di cure, un’immagine era entrata dentro di noi: la foto che Arianna aveva postato su Instagram. Loro due, abbracciati. "Più bella cosa non c’è", c’era scritto.

Tutti. È difficile usare metafore nei momenti bui, ma certo la famiglia per Mihajlovic è stata davvero la squadra più forte. Arianna, romana, la mamma dei loro cinque figli: Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas. A questi si aggiunge anche Marko, nato da una precedente relazione. Forse è vero che Sinisa ha avuto molti più figli e nipoti di quanti possiamo immaginarne; i suoi giocatori, che erano diventati il suo rifugio negli ultimi tempi. Soprattutto quelli che avevano vissuto l’agonia della malattia, e che avevano pianto con lui, che lo avevano visto sofferente. E così, dopo l’annuncio della leucemia, la sua casa era diventata l’Italia, poi il mondo: una famiglia allargata. Lui ha sempre ringraziato, ma è della sua famiglia, quella grande ma ristretta, che Mihajlovic si è sempre preoccupato. A tavola sempre tutti insieme, stessi posti, niente cellulare. "Sono un padre affettuoso, perché so cosa vuol dire avere genitori che non ti abbracciano", aveva raccontato una volta. E infatti Viktorija e Virginia lo hanno sempre descritto come un padre speciale, unico. E andando sempre oltre la retorica. Viktorija lo aveva raccontato in un libro, "Sinisa, mio padre", e lo aveva definito dolce, affettuoso e vero. Virginia gli aveva dato una nipotina, Violante, e tredici mesi fa Mihajlovic aveva scoperto la felicità di essere nonno.

Arianna. La famiglia Mihajlovic ha definito la morte "ingiusta e prematura", ed è davvero così. Il 4 aprile scorso Arianna aveva postato una foto ancora con loro due, stretti e sorridenti: "Come quando torni a casa e posi le chiavi all'ingresso e sorridi perché sai di essere al sicuro". Si erano conosciuti nei gloriosi anni Novanta: lei soubrette a Luna Park, vent’anni, bellissima; lui calciatore di Serie A, campione, faccia da duro. Era il 1995. Il locale si chiamava "L’ultima follia", ma non c’è più. Sinisa giocava nella Sampdoria, quel giorno era Roma per vedere un amico. "Lui è arrivato - ha sempre scherzato Arianna -, io ho lasciato il programma a metà: mi ha stroncato la carriera". Sinisa e Arianna non erano solo indivisibili, belli, insuperabili, felici; erano anche la faccia vera dell’amore. Dopo che lui era uscito dal tunnel della leucemia la prima volta, i due avevano cominciato a girare tutti i format tv, le trasmissioni, i gala. Nessuna vanità. "Ci vogliamo solo divertire un po’", aveva raccontato Arianna una volta, che addirittura era riuscita a convincere Sinisa a ballare un tango a Ballando con le stelle. A Domenica In era stata Mara Venier a dire tutta la verità: "Siete la coppia più bella del mondo". E Sinisa aveva sorriso, con quel sorriso radioso e aveva detto: "Arianna è sempre più bella".


► Miha, duro come la vita. Da un Paese in disfacimento ai vertici d’Europa, sulla scia delle sue punizioni da 160 km/h. Eriksson gli cambiò ruolo e lui anche da tecnico divenne un precursore del calcio di oggi. Ha conosciuto la guerra, poi in Italia ha imparato a piangere e persino ad accettare gli scherzi dei suoi giocatori.

Non era la faccia brutta e cattiva del calcio. Queste baggianate lasciamole ai maestri della vita altrui. Sinisa Mihajlovic del calcio era la faccia seria e per questo rara. Forse anche sporca, perché no, convinto com’è sempre stato che per rimanere presenti a ciò che si fa bisogna portarsi dietro tutto il corpo e tutta l’anima, in ogni situazione. Anche in quelle evidentemente sbagliate. Anche quando insultò Vieira tirando in ballo il colore della pelle, quando camminò sulla faccia di Mutu e lanciò una bottiglia contro un delegato dell’Uefa. Tutte cose atrocemente sbagliate vent’anni fa e addirittura inaccettabili oggi che siamo cresciuti. Si comportava così, pagava e poi sosteneva di non essere pentito, bensì addolorato di non essere stato sé stesso in quelle circostanze. Siamo cresciuti tutti, anche lui. L’ho capito quando ho imparato a piangere, diceva. Da calciatore scalciava, da allenatore i suoi allievi lo guardavano spauriti. Per un po’. Poi comprendevano che sotto la corazza di freddo e urla c’era ironia, c’era sensibilità e c’era conoscenza. Allora cominciavano persino a fargli scherzi telefonici, che lui spesso coglieva al volo e annientava sul nascere. Chi voleva offenderlo lo chiamava zingaro, e Mihajlovic si offendeva perché capiva l’intenzione.

Non fosse per quella, si sarebbe limitato ad annuire. Metà croato metà serbo, figlio di un’operaia e di un camionista, l’apocalisse jugoslava gli esplose tra le mani. "Vidi i miei parenti che si ammazzavano tra loro". Per sua fortuna era già calciatore all’epoca, anche se aveva faticato a diventarlo. Quando era bambino i genitori uscivano di casa alle sei della mattina e un giorno il padre gli aveva regalato un pallone per non farlo annoiare. Giocava da solo, stando attento a non far uscire il cuoio dall’erba in modo da non rovinarlo. Quando riuscì ad avere un pallone di scorta, si mise a calciare contro la serranda di un vicino di casa. Che a buon diritto avrebbe potuto reagire male e invece profetizzò al ragazzino un futuro da professionista. Ma questa è aneddotica. A lui non dispiacerebbe, visto che amava raccontare queste cose e le ha ribadite in un libro. Il Mihajlovic dalla faccia seria e sporca e dal sinistro a tifone dei nostri ricordi cresce nella squadra di Borovo che adesso è Croazia, poi passa al Vojvodina, quindi alla Stella Rossa, che pochi anni prima lo aveva bocciato e con lui vince una Coppa dei Campioni. Non siamo ancora nell’epoca dello scouting semiautomatico, però tra successi internazionali e punizioni violente gira la voce di questo ragazzo poco più che ventenne, centrocampista feroce.

L’università di Belgrado gli misura il tiro a 160 chilometri orari. La Roma, che ha negli archivi mentali il sibilo delle punizioni di Agostino Di Bartolomei, lo porta in Italia. Funzionerà, non solo per le punizioni, ma anche per l’evoluzione del giocatore Mihajlovic, che di colpo, come Di Bartolomei appunto, da centrocampista diventerà centrale arretrato, direttore generale della difesa, istintivo precursore della costruzione dal basso. Funzionerà, ma non alla Roma. Funzionerà alla Sampdoria e alla Lazio, dove lo porta sempre con sé, come fosse una coperta di Linus, Sven Göran Eriksson. E pure all’Inter, dove Sinisa chiude la carriera di calciatore nel 2006, prendendosi a tavolino il suo secondo scudetto dopo quello in biancoceleste. È serio. È lucido. È la fonte della sapienza nei club che frequenta e in Nazionale, dove segna meno ma traccia la strada degli ultimi fuochi della Jugoslavia, attraversando i cambi di denominazione geografica e le spartizioni e le dissoluzioni. Durante una partita in cui la Lazio viene bloccata e affettata come un salame da avversari particolarmente in forma, Eriksson si lascia scappare, ad alta voce: "Sempre così, quando manca Sinisa". In Serie A ha segnato 28 gol su punizione e sembra sia un record. Tre in una singola partita, com’è riuscito anche a Giuseppe Signori.

La potenza e la precisione possono passare con il tempo, la perizia tattica no. Diventare allenatore per Mihajlovic è uno sviluppo naturale, una volta che ha imparato a piangere e ad accettare gli scherzi degli uomini e della sorte. E non è un cammino da poco il suo. Studia da vice di Roberto Mancini all’Inter e se ne va quando arriva Mourinho. Non è che i due non si piacciano, è che mescolare due ingredienti così non è prudente. Poi Sinisa ha voglia di sperimentarsi in proprio. Cominciando dal Bologna, che aveva bisogno di una iniezione di punti e lui glieli procura prima di essere esonerato. Vive tutte le vicissitudini dell’allenatore medio in Italia, non importa quanto prestigioso o quanto messianico. Lo usano, lo mandano via, se ne va lui scuotendo la polvere dai calzari come a Catania. Continua alla Fiorentina, sfiora l’Inter, diventa ct della Serbia ma non raggiunge il Mondiale. Alla Sampdoria ha segnato il territorio e infatti lo richiamano come tecnico. Con il Milan va in finale di Coppa Italia, con il Torino fa il record del girone di andata, con lo Sporting Lisbona quello della rescissione rapida, nove giorni dopo l’ingaggio. E torna a Bologna. Sempre con in testa quell’idea di aggredire più che attaccare, di miscelare la qualità con la forza di spirito. Di non lasciare mai indietro il corpo e l’anima. Sarà banale ma questo era Sinisa Mihajlovic, che non ha mai preteso di essere la luce del mondo. Semmai un vento libero.


• Da Il Messaggero del 17 dicembre 2022:

► Audacia e fragilità il destino in comune con gli “eroi” del ‘74. Bandiera laziale. Come fai a non pensarci, adesso? Adesso che anche Sinisa Mihajlovic se l'è portato via quel male.

Muore nella stessa clinica in cui si spense, dopo un’altra rinascita che era stata illusione, Tommaso Maestrelli. Maestrelli e lui se ne vanno a 54 anni (la vita di Tom è durata solo quattro mesi in più). E come l’allenatore più amato dai laziali, cento anni quest’anno, un passato breve e di scarso successo nella Roma e poi solo gloria nella Lazio. E lo scudetto a sorpresa, una vittoria da impazzire: nel 1974 come nel 2000. Allora dalla sua stanza di degenza alla Collina Fleming Tommaso osservava Wilson e gli altri allenarsi con il binocolo. Mihajlovic a Bologna aveva i tablet per queste cose. A Sinisa il destino non ha concesso un ritorno che forse solo lui avrebbe voluto: è stato vicino al ritorno alla Roma, da allenatore. Non si sarebbe fatto tanti problemi: "Ho vissuto due guerre vere, avrei sopportato gli insulti come ho fatto sempre". Ma il filo che lo legava a Roma è comunque laziale anche per il dramma della malattia. Ha girato tante squadre, non ha mai girato intorno: "Sono tifoso biancoceleste". Una singolare sintesi di destini belli e maledetti, di abbracci e lacrime quella che unisce alcuni eroi di queste epopee: in campo, infatti, Sinisa era un... Chinaglia. Giocatori con il coraggio di prendere anche le strade sbagliate per non arretrare: guasconi e fortissimi, sfrontati e provocatori fino a varcare i limiti dell’autolesionismo. Come catalogare l’amicizia di Miha con uno come Arkan, il criminale di guerra serbo cui fece dedicare uno striscione dalla curva Nord? O immaginare il gesto provocatorio di indicare la curva nemica dopo un gol segnato in faccia o mandare a quel paese un ct in mondovisione (e questo lo fece Chinaglia, nel 1974).

Gente, quelli come Sinisa e Giorgione, che si sono sempre assunti le responsabilità delle scelte: avrà giovato alla carriera di Sinisa presentarsi in campo a Roma con il disegno di un bersaglio sulla maglia quando Belgrado era bombardata dalla Nato? O dire tutta la verità quando scoppiò il putiferio in campo in Champions League con Vieira (diventò anche suo allenatore all’Inter)? No, ma Sinisa le cose le diceva e le faceva. Miha ammette e si prende la squalifica: "Gli ho detto negro di m. perché lui continuava a dirmi zingaro di m." No, non gli ha giovato, ma a dire la verità e presentarsi sempre con il mirino in petto ha significato tanto per i compagni, i tifosi e anche gli avversari. Uno capace di reinventarsi tante volte nella vita partendo sempre dal suo piede sinistro, ma a scuola era così secchione da aver imparato, per non subìre punizioni, come fare tutto anche con il destro. Quel piede sinistro, però, gli ha regalato il record di punizioni segnate della serie A. Centrocampista offensivo, ala, difensore centrale: sempre leader. Anche nella malattia: lui, che serio sono nè stato mai, si è fatto serio. Ha lasciato lo spazio al cuore grande da multi-papà (sei figli, un grande amore per Arianna, sua moglie) e condiviso la tenerezza che riservava a pochi: i messaggi sempre giusti, l’esempio trasmesso finché ha potuto ai suoi giocatori. E a tutto il mondo, che ora glielo riconosce con le lacrime agli occhi per una speranza spezzata di rinascita contro l’ennesimo nemico fortissimo. Stavolta più forte di tutto e di un cuore che non voleva smettere di battere.


► Ciao Sinisa. Ha lottato in campo e nella vita. L’addio di Mihajlovic a 53 anni: da tre combatteva con la leucemia. La sua battaglia ha commosso il mondo del calcio (e non solo).

Lo ricorderemo sempre per la fierezza con cui ha combattuto, per tre anni, il male che l’aveva colpito. E per l’atroce ruolo che gli era toccato rappresentare, quello più drammatico, purtroppo da Galata morente, dell’uomo che vanamente si ribella al destino fino all’ultimo istante, ma è costretto a soccombere. Perché alla fine Sinisa Mihajlovic ci ha lasciati ieri, a Roma, nella clinica Paideia in cui ha trascorso gli ultimi giorni. Se ne va giovane, a 53 anni, per colpa di una leucemia mieloide acuta che l’aveva aggredito all’inizio del 2019, l’uomo che non si era mai piegato né spezzato, di fronte a nessuno. Era il suo bello, la sua unicità, il suo orgoglio. Ha ceduto solo a una malattia assassina e inesorabile, ribellandosi con furia, cadendo e rialzandosi dopo due pesanti cicli di cure, chissà se presago della fine, ma indomabile sempre, circondato dalla sua meravigliosa famiglia: la moglie Arianna, i 5 figli (e un altro avuto da una relazione in età giovanile), da poco anche una nipotina. Ma non c’è stato niente da fare, contro la bestia che gli aveva avvelenato il sangue. Un paio di settimane fa lo si era visto per l’ultima volta, affaticato ma ancora lucido e divertente, alla presentazione del libro di Zdenek Zeman, a Roma.

Un combattente da record. Quando la malattia si era manifestata, Sinisa l’aveva annunciato a modo suo, ma umanamente impaurito da ciò che lo attendeva. Era di marzo, nel 2019: "Ricevere la notizia è stata una bella botta, mi sono chiuso due giorni in camera a piangere e a riflettere. Mi è passata tutta la vita davanti... Ora che farò? Rispetto la malattia, ma la guarderò negli occhi, la affronterò a petto in fuori e so che vincerò questa sfida. Vado subito in ospedale, prima comincio le cure e prima finisco. La leucemia è in fase acuta, ma attaccabile: ci vuole tempo, ma si guarisce. Non voglio far pena a nessuno, ma spero che tutti capiscano due cose: nessuno è indistruttibile e la prevenzione è importante. Nella mia vita ho sempre dovuto combattere, nessuno mi ha regalato nulla e sono sicuro che da questa esperienza ne uscirò come un uomo migliore". Si cura, e mentre si cura continua ad allenare la squadra, anche in videoconferenza dall’ospedale, poi torna, la riprende in mano, finirà la stagione 2019-2020 con la salvezza, sempre mostrandosi, senza paura, senza vergogna, anche col volto segnato. È stato un esempio, e Bologna l’ha eletto cittadino onorario. La sua battaglia contro il male e la sua fierezza nell’affrontarla, lo hanno fatto amare e apprezzare molto più di prima, perché non era più il nemico antipatico da affrontare in campo, era un uomo che soffriva e pativa come tanti altri. Tutti gioirono quando sembrò che il peggio fosse alle spalle, e Sinisa andò pure a "Ballando con le stelle", insieme alla moglie Arianna, in imbarazzo perché il ballo non era il suoforte.

Mentre in campo, beh, in campo.È stato uno dei più straordinari combattenti della serie A, un uomo-squadra come ne sono esistiti pochi, e al tempo stesso il sinistro più portentoso che si ricordi, era davvero un ciclone il sinistro di Sinisa, quando sorvolava le barriere e si schiantava in rete: è tuttora suo il record di gol su punizione diretta in serie A, ben 28, a pari merito con Andrea Pirlo. Ma Sinisa non è stato certo solo i gol che ha segnato, o che ha evitato di far incassare nella sua lunga carriera da difensore centrale, dopo gli inizi da esterno sinistro. Né è stato le polemiche, anche dure, anche estreme, in cui è stato coinvolto, o in cui lo coinvolgevano. Deprecabili quelli che dalle curve gli davano dello "zingaro", ma a volte era lui il primo ad accendere le micce in campo: duro, a volte scorretto oltre i limiti, prese anche le sue belle squalifiche per gesti e gestacci. Uno sputo a Mutu gli costò 8 giornate dall’Uefa, un’altra volta rivolse un epiteto razzista a Vieira di cui si scusò, ed è rimasta celebre la sua amicizia col criminale di guerra Zaliko Raznatovic, la "Tigre di Arkan", mai rinnegata, perché, diceva Sinisa, risaliva a molto tempo prima che il conflitto in Jugoslavia scoppiasse. Ma soprattutto, Sinisa è stato un uomo che ha sempre caratterizzato le squadre in cui ha giocato, che non erano mai banali o sciatte, visto che avevano lui dentro il cuore. Squadre che hanno lasciato segni: la Stella Rossa di Belgrado, addirittura campione d’Europa per la prima e unica volta nella sua storia nel 1991 con un Mihajlovic appena 22enne, la Lazio di Eriksson che fu la più vincente di sempre nella storia del club, persino l’Inter dove chiuse giocando poco(e ne era assai stizzito), insieme al suo amico Mancini diventato allenatore, che in quei due anni ricominciò a vincere. Molto della sua tempra scaturiva dalle vicende vissute in patria. Nella sua Vukovar, dove i serbi come lui erano in minoranza rispetto ai croati, si scatenò l’inferno quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, e Sinisa vide parenti in armi l’uno contro l’altro, improvvisamente, anche nella sua famiglia, e la sua città distrutta. Anni terribili chel’hanno segnato: "Io sono uno che ha fatto due guerre, cosa volete che siano per me le polemiche del calcio?". La sua vita cambia quando arriva alla Roma, e in un negozio del centro conosce Arianna, sua moglie. Poi la Samp, quattro anni a Genova in cui da terzino sinistro diventa difensore centrale, l’incontro fatale con Eriksson e Mancini, il sodalizio che continua nei sei anni alla Lazio prima della chiusura all’Inter. Poi la carriera di allenatore, il Bologna e il Catania, poi la Fiorentina, un anno alla guida della Serbia (dove caccia Ljajic, che non voleva cantare l’inno), la Samp, la grande occasione al Milan (solo un anno, e rapporti mai facili con Berlusconi), il Toro, fino agli ultimi tre anni al Bologna.

A marzo la ricaduta. Quando la leucemia si è ripresentata, Sinisa l’ha annunciato di nuovo a testa alta, lo scorso marzo. Ma il secondo ciclo di cure al Sant’Orsola di Bologna, non ha ottenuto gli effetti sperati, e negli ultimi mesi si era fatto tutto troppo duro. L’esonero doloroso del Bologna, lo scorso settembre, da molti criticato, in realtà parve un atto dovuto, più pietoso che crudele. Sinisa se ne va di 16 dicembre come un altro laziale, Felice Pulici. Un giorno, parlando di un suo giocatore che pativa il peso della fascia di capitano del Torino, osservò: "È fatica alzarsi alle 4.30 e andare al lavoro alle 6, farlo tutto il giorno e non arrivare a fine mese. Questa è fatica vera. Essere capitano del Toro è solo un orgoglio e un piacere". Sinisa era questo qui, e un milione di altre cose ancora. Indimenticabili.


► La moglie: "Morte ingiusta, era un uomo esemplare".

Mille sono le parole che provano – invano – a restituire una forma alla sofferenza, a darle una prospettiva, ad attribuirle un ordine. "La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic". Ingiusta e prematura. Dondola sulla saldezza di due voci la pena del mondo dello sport. Ingiusta. E prematura. "Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato", ha proseguito la famiglia. "È stata davvero una perdita notevole",ha ricordato Dino Zoff, che di Mihajlovic è stato anche l’allenatore nella Lazio. Ed ecco l’ex patron Sergio Cragnotti, il presidente dello scudetto del 2000. "È una grande sofferenza. Sinisa era un grande uomo". Ad attardarsi nel ricordo sono stati in particolare i compagni di squadra della Lazio campione d'Italia. "Sei stato un guerriero. Un esempio per tutti noi e soprattutto per me... Non ti dimenticherò mai", ha scritto il capitano di allora Alessandro Nesta.

La fragilità della vita. E ancora. "Mio fratello maggiore, compagno di mille battaglie, che tristezza la verità. Baci in cielo amico mio, ci mancherai tanto", ha aggiunto Juan Sebastian Veron. E poi. "Com’è terribile la fragilità della vita, oggi se ne va un grande giocatore, grande compagno di squadra e grande persona",ha detto il cileno Marcelo Salas. E certo non sarebbe potuto mancare il ricordo di Claudio Lotito: "Un grande laziale, un guerriero in campo e nella vita. Il suo coraggio sul terreno di gioco è stato secondo solo a quello dimostrato di fronte a una grave malattia". E a seguire. "Sono profondamente addolorato, è un giorno triste per il calcio italiano. Sinisa è stato un protagonista dentro e fuori dal campo, un esempio di passione, determinazione e coraggio, in grado di ispirare e di emozionare", ha dichiarato il presidente della Figc, Gabriele Gravina. E l’intero mondo del calcio – giocatori, club, arbitri – ha voluto tributare a Mihajlovic un applauso, e regalargli un ricordo. "Era uomo intelligente e capace, oltre che un padre eccezionale, innamorato della famiglia. Cosa lascia? La sua grinta, la volontà di non mollare mai", ha sussurrato Emanuele Tornaboni, il proprietario del circolo sportivo Due Ponti a Roma, lì dove spesso Sinisa giocava a padel. "È stata la più bella persona che abbia conosciuto in vita mia. Mi resta la sua sincerità, la sua amicizia", i pensieri di Vincenzo Cantatore, ex campione dei pesi massimi leggeri, uno degli amici più stretti di Mihajlovic. E Gianni Petrucci, numero uno della Federbasket: "Era un uomo straordinario" .Sospira Giovanni Malagò: "Siamo tutti molto tristi e più poveri".


► L’intervista: Sven-Goran Eriksson. "Sognava di guarire e allenare la sua Lazio". Il tecnico del titolo vinto nel 2000: "Dentro aveva il fuoco di chi era passato dalla guerra".

In lacrime, Sven-Göran Eriksson. Ha appena ricevuto la notizia in Svezia e parla con la voce tremula al telefono, singhiozzi interrompono più volte i suoi ricordi. Riavvolge il nastro, racconta ma, fra un ricordo e l’altro, piange ancora a dirotto. Perché, negli ultimi anni lo aveva sentito di meno, ma ha sempre considerato Sinisa Mihajlovic un figlio acquisito, uno dei principali artefici del suo scudetto alla Lazio: "Sarà impossibile dimenticarlo, è uno dei giorni più tristi della mia vita perché Sinisa non si meritava questo destino. Era un grande giocatore e un grande uomo, non doveva morire a 53 anni, così presto. Non è giusto". Cosa lascia al calcio? "Tutto, e non solo allo sport, insegnamenti a grandi e piccini, la voglia di non mollare mai fuori e dentro al campo, in nessun momento. Sino all’ultimo respiro. Ha sempre lottato, sempre, anche contro questa maledetta malattia". Ieri si è arreso. "Ma non si è mai nascosto, ha fatto vedere a tutti come si combatte, il suo coraggio. Ha mostrato i segni sul suo viso e sul corpo provato. Non ha voluto fermarsi nemmeno quando entrava e usciva dall’ospedale. A Bologna, per stopparlo, hanno dovuto esonerarlo...".

Forse avrebbe meritato un altro trattamento? "Non lo so, era un frangente delicato. Ha fatto una buona carriera da tecnico e non era finita, doveva continuare ancora a lungo. Purtroppo, il destino è stato crudele, anzi spietato. Io ero convinto che sarebbe guarito e che, prima o poi, lo avrei rivisto sulla panchina della Lazio. Era il suo sogno, era anche il mio sogno". Sarebbe stata la chiusura di un cerchio dopo lo scudetto? "Lui e Nesta erano incredibili. Sinisa giocava centrale, poi è diventato il terzino più forte del mondo e, senz’altro, è stato uno dei principali artefici dell’ultimo tricolore biancoceleste, ma anche un simbolo di quella squadra che aveva impressionato sir Alex Ferguson". Sinisa era un leader dello spogliatoio. "Certo, bastava guardare il suo sguardo. Era balcanico, veniva da una famiglia umile e aveva vissuto la guerra nell’ex Jugoslavia che lo aveva forgiato. Aveva il fuoco dentro più di chiunque altro. E poi era un vincente, per lui non esisteva perdere nemmeno, mai, nemmeno in allenamento, figuriamoci nelle partite importanti che abbiamo disputato in quelle stagioni straordinarie, indimenticabili. E trasmetteva questa forza a tutto il gruppo, questa era la sua grande forza". Insomma era già un allenatore in campo? "Sì, si capiva da come dava indicazioni ai compagni che percorso avrebbe fatto dopo aver smesso con il calcio giocato. Tutti lo rispettavano e lo seguivano. Già da giovane sapeva tutto del calcio, era molto intelligente, e questo è l’aspetto che più conta per un campione assoluto". Leggendarie erano la sue punizioni all’incrocio. "Per me le batteva meglio di Pirlo. Molte volte, alla fine di ogni seduta, si fermava a calciarle dalla trequarti con i ragazzi che lo ammiravano. Era troppo forte, aveva un piede fatato, ma ogni risultato era anche frutto del suo sacrificio e del suo spirito. Si allenava ed esercitava duramente, e lo faceva ogni giorno con lo spirito del ragazzino che tirava i primi calci e sognava una carriera da grande calciatore". Purtroppo non è riuscito a battare la leucemia. "Ancora non ci credo. Sinisa era sicuro di vincere sempre, anche stavolta. L’ho sentito più volte negli ultimi anni, anche nei momenti più duri della malattia, ma era sempre positivo, fiducioso che si sarebbe messo alle spalle quella brutta bestia". Vuole mandare un messaggio ai suoi cari? "Sono vicino alla moglie Arianna e a tutta la sua famiglia, che dovrà comunque essere orgogliosa del suo ricordo. Sinisa, un grande uomo, leggenda del calcio. Non ti dimenticherò mai".


► Le due sponde di Roma e quello scudetto da leader.

Sinisa Mihajlovic ha ottenuto tanto da Vujadin Boskov e, forse, tutto da Sven Goran Eriksson, uniti dalle vittorie e dall’amore per la Lazio. Il primo (a cui a Brescia, nel ’93, consigliò di far entrare "il ragazzino", Francesco Totti) lo ha portato a Roma dalla Stella Rossa di Belgrado; il secondo lo ha trasformato in quello splendido difensore centrale che abbiamo ammirato per tanti anni, prima alla Sampdoria, dove ha fatto le prove generali, quindi di rientro nella Capitale, ma sulla sponda laziale. Con quest’ultima maglia è arrivato ai successi, sfiorando uno scudetto nel 1999 e infine vincendolo, sempre da protagonista e trascinatore. Leader dentro e fuori. L’anno dello scudetto comincia con il pensiero della delusione della stagione precedente, quando il Milan all’ultima giornata vince a Perugia e la Lazio vede sfumare il sogno. Sinisa salta due partite delle prime tre, con Cagliari e Torino, gioca invece con il Bari. Deve aspettare ottobre per la prima rete della stagione che arriva contro l’Udinese. Amaro poi il gol su rigore nel derby, che la Lazio consegna alla Roma: Sinisa segna su rigore, ma la Lazio era già sotto di quattro gol. Quello è stato il momento più basso, con la Lazio in affanno e che perde certezze. Miha ha qualche problema fisico che lo tormenta. Torna a segnare a Piacenza e poi con il Bari e a Torino. L’ultima rete contro la Fiorentina, è il gol della rimonta, il 3-2 prima del pareggio di Batistuta. E’ l’ultima battuta d’arresto della Lazio, che procede spedita verso lo scudetto. Le ultime quattro vittorie portano al titolo. La lunga attesa, in campo, con la Reggina all’ultima giornata, Sinisa la vive in tribuna. Era assente. L’immagine finale, lui in campo per la festa, quando Collina decreta la fine di Perugia-Juve e la sua Lazio è campione d'Italia. Un evento che non si ripete spesso da queste parti. La Lazio ha vinto. E lui c’era. Ed è stato al centro del mondo.

Il timbro. I calci piazzati, corner, punizioni, erano sentenze. Sinisa ha costruito in biancoceleste i suoi successi, la Lazio è stata la sua famiglia. Con il compagno Nesta, il fratello Mancini: lui, una guida. Qui è cresciuto e si è fatto uomo, ha vissuto la piena maturità: l’anno dello scudetto biancoceleste ha segnato, da difensore, tredici reti, con sette assist. Era l’allenatore in campo. Dalla Samp alla Lazio, sempre con l’amato Sven, l’uomo della sua trasformazione tattica. È stato un "costruttore" dell’azione dal basso ante litteram. Non se ne parlava in maniera ossessiva come oggi ma lui già l’aveva inventata. La Lazio è il palcoscenico di successi, Roma la sua città dell’amore, qui ha conosciuto Arianna e qui sono cresciuti i suoi cinque figli, Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas, ai quali ha trasmesso la passione per i colori biancocelesti. Qui ha vinto tanto. Nel 1999 sigla il primo gol della storia della Lazio in Champions, in casa del Bayer Leverkusen, su punizione. Addirittura, in campionato, stabilisce il record: ne fa tre su altrettanti calci piazzati, contro la sua Sampdoria il 13 dicembre 1998. Lascia la Lazio dopo sei stagioni intense (193 partite e 33gol), portandovi a uno scudetto (2000), due Supercoppe Italiane (1998 e 2000), una Supercoppa europea (1999), una Coppa delle Coppe (1999) e due Coppe Italia (2000 e 2004). Dal 2004 al 2006 passa all’Inter al seguito del suo inseparabile amico, proprio lui, Roberto Mancini. E lì diventa il cannoniere più anziano in serie A, con i suoi 37 anni abbondanti. Vince anche in nerazzurro, 2 Coppe Italia (suo il gol contro la Roma nella finale di ritorno) e uno scudetto, non sul campo, ma assegnato a tavolino per la vicenda Calciopoli. La sua carriera è cominciata nella ex Jugoslavia.

L'ascesa. Da lì, una continua ascesa. Nel 1987 arriva il titolo Mondiale Under 20 con la maglia della sua nazionale, poi ruba l’occhio a tanti osservatori durante un torneo in Germania e viene premiato dal Vojvodina, con cui vince il titolo della Prva Liga, superando colossi come Stella Rossa, Hajduk Spalato e Dinamo Zagabria. Sinisa rimane un’altra stagione con il Vojvodina per assaporare l’ebbrezza della sua prima partecipazione alla Coppa dei Campioni che vincerà nel ‘91 con la maglia della Stella Rossa, a Bari con il Marsiglia, segnando una delle reti decisive dal dischetto dopo i supplementari. Con i biancorossi vinse pure due campionati e l’Intercontinentale, prima che in Jugoslavia scoppiasse la guerra, che lo ha costretto a trovare nuove vie di speranza altrove. In Italia ha vinto; in Italia ha perso la sua battaglia più importante. Ma con smisurato onore.


► L’intervista: Pier Ferdinando Casini. "Sinisa, un antipolitico abituato a schierarsi. La mia Bologna lo aveva adottato. Quanti in pellegrinaggio a San Luca. I tifosi lo capirono anche quando appoggiò la Lega: il legame andava oltre".

Senatore Pier Ferdinando Casini, chi era Sinisa Mihajlovic? "Un grande uomo. È ciò che emerso dalla sua parabola negli ultimi anni, ma anche nel resto della sua vita. Io, che come tutti i tifosi del Bologna, ho seguito passo passo le sue vicende, quelle sportive e quelle della malattia, non ho dubbi. Perché ha lottato come un leone, sempre, anzi come un guerriero. Una dimensione umana straordinaria, una resistenza tipica dei popoli balcanici, un attaccamento eccezionale alla famiglia. Mi dispiace tanto per la moglie, per i figli, per i nipoti che non potranno conoscere bene un nonno così". La malattia lo aveva logorato, eppure non ha mollato un istante. "Rimangono negli occhi e nel cuore tante immagini, di Sinisa. Il suo coraggio nell’annunciare di essere stato colpito dal male, la sua irriducibilità nel combatterlo, e anche quel suo mostrarsi, senza paura, la sua capacità di resistere. E il suo reagire, poi: quanto fu potente l’immagine di Sinisa Mihajlovic che torna in panchina, dopo poco più di un mese dal primo ricovero in ospedale, nel 2019? Fu una scena più eloquente di qualsiasi parola. Come quella dei giocatori che al rientro da una trasferta vanno a cantare sotto le sue finestre, perché era ancora ricoverato. E lui, che per non stare lontano dalla squadra dirigeva gli allenamenti anche dall’ospedale, via video. Sembrava che nella prima fase fosse riuscito a sconfiggere la leucemia, poi purtroppo si è riaffacciata, con una violenza inusitata. E l’abbiamo perso. Anche se è stato curato in modo encomiabile dagli operatori sanitari".

È stato anche un bravo allenatore, oltre che un uomo unico? '"Certamente. Non bisogna dimenticare che ha ottenuto ottimi risultati col Bologna, probabilmente ci ha salvato da due retrocessioni sicure. Poi è chiaro che negli ultimi mesi la sua tempra si era logorata. E comunque, diciamoci la verità, e del resto i tifosi del Bologna l’hanno sempre saputa: Sinisa era soprattutto tifoso della Lazio, lui e i suoi figli. Infatti la prima cosa che faceva quando entrava all’Olimpico da avversario era andarsi a prendere gli applausi sotto la curva Nord. Credo proprio che il suo sogno fosse allenare la Lazio. Ma ripeto, rimane centrale la figura dell’uomo, per chi è di Bologna. Nella vita di una città e di una squadra ci sono i momenti belli e quelli brutti, è nella logica delle cose. Sinisa ha soprattutto offerto momenti umani, che non sarà possibile dimenticare. Riteniamo gli sportivi degli invincibili, ma diventano fragili quando la malattia li colpisce, come tutti: ed è lì che la persona emerge con la sua dimensione". Bologna, di fatto, adottò Mihajlovic. "Infatti l’elemento sportivo appare sfocato, di fronte alla vicenda umana tra Sinisa e la città. Non si può non ricordare la processione dei tifosi al Santuario della Madonna di San Luca, quando tutti andarono a pregare per la sua salute. O quando il consiglio comunale, superando tutte le divisioni politiche, votò per conferirgli la cittadinanza onoraria. E dire che Sinisa non era uno che le mandava a dire...".

Prendeva anche posizione politicamente, in effetti: quindi era un politico? "Al contrario, era un antipolitico. La politica vive anche i suoi momenti di opportunismo, ma Sinisa non era mai così. Tutte le sue affermazioni, anche quelle più discutibili, nascevano da un presupposto: quello dell’autenticità, della verità. Non era un ipocrita o un sepolcro imbiancato, anzi sposava anche le posizioni più divisive e le sosteneva. E la gente lo capiva, ne intuiva l’autenticità. Ricordo che durante la campagna elettorale per le Regionali 2020 in Emilia Romagna, con il duello tra Stefano Bonaccini per la sinistra e Lucia Borgonzoni per la Lega, Mihajlovic si schierò per la Lega, e lì si vide come Bologna recepiva Sinisa: la cosa non comportò un cambiamento di giudizio nei suoi confronti da parte delle persone, anzi il primo a dire che accettava il parere di Sinisa, che faceva parte della vita, fu proprio Bonaccini, che poi vinse. Segno che Mihajlovic non guardava alle opportunità e non era opportunista, e che Bologna è una città speciale". Era anche religioso, Sinisa. "Non so entrare nell’intimità della sua sfera religiosa, ma penso una cosa: quando c‘è questa dimensione resistenziale e si affronta la malattia a questo modo, c’è per forza qualcosa di profondo dentro. Sono certo che i tifosi bolognesi troveranno il modo di andare ancora a San Luca per pregare per lui, e che la Madonna l’accompagni".


► Processione di tifosi e amici. Mancini scosso: "Un giorno che non avrei voluto vivere".

Rigata dal dolore è la solitudine della giornata. Silenzio. Muta la città e lontani i rumori del mondo che va, piagato dalla sofferenza, però incurante. Dentro i padiglioni di una clinica a un passo dalla via Flaminia, a Roma, la famiglia di Sinisa Mihajlovic è stretta nell’angoscia. Alle 15.04 l’agenzia Ansa spalanca il baratro della pena: "È morto Sinisa Mihajlovic". Quattro parole capaci di squadernare un irragionevole tormento sul tavolo della quotidianità. Chinano il capo i medici, le infermiere, e tutti abbracciano la moglie Arianna e i figli. Ci sono anche la mamma Vikyorija e il fratello Drazen. Scivolano le lacrime. È buio nei cuori, tramonta il sole sulla città. Davanti alla clinica qualche tifoso si avvicina all’ingresso e ai suoi alberi di Natale accesi di luci bianche. Stride, quel senso di festa. Qualcuno si ferma, altri sbirciano attraverso la porta scorrevole nell’atrio. Sono curiosi, per lo più. Con motorini chiassosi un piccolo gruppo di giovanissimi tifosi piomba e per un po’ rimane a fissare il palazzone grigio: alza lo sguardo, cerca per istinto una finestra illuminata. Serve a poco. Dopo le cinque del pomeriggio sbuca il volto triste di Massimo Ferrero, l’ex presidente della Sampdoria. Abito chiaro, capelli e barba bianchi. "Ciao Sinisa, questo scherzo non me lo dovevi fare. Cosa posso dire, mi ha battezzato nel calcio. È un super uomo",sussurra. Resta per un po’.

Le parole. Lassù, nel segreto delle stanze quasi blindate e coperte agli occhi poco discreti, la famiglia di Sinisa riprende il respiro dopo un martirio durato troppo. Le ore 19. Riparandosi dai microfoni e dagli smartphone invadenti, commosso arriva il commissario tecnico della Nazionale, Roberto Mancini. Entra da un varco secondario. Di Mihajlovic è stato compagno di squadra nella Sampdoria e nella Lazio, oltre che collega come allenatore nell’Inter – lui il primo, Sinisa il suo vice. Mancini si ferma, ha gli occhi arrossati. E regala un momento di affetto alla famiglia di Mihajlovic: i figli sono seduti nella stanza del papà. E di nuovo: il silenzio, lungo silenzio. Scriverà, poco più tardi, Mancini sul sito internet della Federcalcio. "Questo è un giorno che non avrei mai voluto vivere, perché ho perso un amico con cui ho condiviso quasi 30 anni della mia vita, in campo e fuori. Non è giusto che una malattia così atroce abbia portato via un ragazzo di 53 anni, che ha lottato fino all’ultimo istante come un leone, come era abituato a fare in campo. Ed è proprio così che Sinisa resterà per sempre al mio fianco, anche se non c’è più, come ha fatto a Genova, a Roma, a Milano e poi anche quando abbiamo preso strade diverse". Non è giusto, dice Mancini. Non è giusto, ripetono a voce bassa gli amici e i conoscenti che, pian piano, risalgono la città e il suo traffico di Natale per portare una briciola di vicinanza alla famiglia di Mihajlovic. Fuori si radunano piccole cerchie di tifosi e alcuni amici dei figli di Sinisa: che a Roma Nord abitano da sempre, fanno sport e frequentano anche lo stadio – Dusan è un tifoso della Lazio. È sempre stato innamorato di Roma, Mihajlovic: tanto che ieri sera si valutava anche l’ipotesi di allestire la sua camera ardente in Campidoglio. Si vedrà. Più probabilmente si sceglierà una forma privata. I funerali si svolgeranno lunedì alle ore 11.30 nella basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, in piazza della Repubblica, a Roma. Il giorno di dolore non è ancora passato.


• Da Il Tempo del 17 dicembre 2022:

► Il guerriero Sinisa dice basta. Si è spento ieri a 53 anni Mihajlovic dopo aver lottato per tre anni contro la leucemia. L’arrivo alla Roma, il passaggio alla Lazio dove ha vinto tutto ed è diventato un simbolo. Da tecnico una carriera iniziata e finita a Bologna, oltre a Fiorentina, Samp, Milan e Torino. Lunedì alle 11 i funerali nella Capitale alla basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri.

Una vita in trincea battendo ogni avversario, perdendo contro l’unico nemico. Sinisa Mihajlovic ha oltrepassato la barriera della vita terrena dopo una lunga malattia. "La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare". L’annuncio della famiglia è arrivato ieri dopo l’ora di pranzo. Da qualche giorno l’allenatore era stato ricoverato in una clinica romana per complicazioni dovute alla leucemia che lo aveva aggredito dall’estate del 2019. A soli 53 anni, se ne va una delle figure calcistiche più importanti degli ultimi trent’anni. Sinisa il guerriero, il burbero, il combattente. Sinisa dal sorriso luminoso e il cuore ardente. Il miglior calciatore di punizioni al mondo per buona pace di Zola, Baggio, Roberto Carlos e Juninho Pernambucano, Sinisa dal sinistro tagliente, Sinisa, padre serbo e mamma croata, senza mezze misure, petto in fuori e verità fuori dai denti. Sinisa e Arianna, un amore senza fine che va oltre ogni limite: attraversa spazio e tempo, e si culla nell’eternità. Padre integerrimo e nonno affettuoso, professionista esemplare, compagno di squadra onesto e leale.

Sinisa l’impavido, lo psicologo, l’esecutore: ragiona con la mente del portiere e la piazza esattamente sull’altro palo. Sinisa bambino irrefrenabile tra le strade di Borovo, pugni, graffi e partite fino alla fine del giorno. Sinisa il sognatore, e quella porta del garage di casa presa costantemente a pallonate ogni santo giorno; la vicina si incazza, ma alla fine non si incazza più. Sinisa il talento, Stella Rossa sulla maglia e sul petto, il cuore che batte più del solito quando con la palla sotto al braccio va verso la gloria. Sinisa il campione, quello che infila uno dei cinque rigori con cui la Crvena Zvezda vince la Coppa dei Campioni contro il Marsiglia. Sinisa capelli lunghi e sorriso smagliante, "Barbika" per la segretaria del club e per tutti i compagni che bonariamente lo dileggiano. Sinisa, il generoso, autorevole come quando suggerisce all’allenatore di far esordire il ragazzino, e quel ragazzino si chiama Totti. Sinisa l’allenatore veggente, che vede prima di altri il portiere campione d’Europa della Nazionale, solo che il ragazzino ha solo sedici anni e otto mesi. Mihajlovic è stato un vero campione e un tecnico apprezzato, ma prima di ogni cosa è stato un grande uomo. Ha saputo trattare la vittoria e la sconfitta allo stesso modo, ha amato intensamente, e odiato con altrettanto vigore; da giocatore è stato il guerriero che ogni allenatore avrebbe voluto portarsi in battaglia, da tecnico il Generale che ha anteposto ai nemici la propria figura schermando quella dei suoi soldati, quei ragazzi increduli che - fino alla fine - lo vedevano sbucar fuori al campo di allenamento dopo essere evaso dall’ospedale.

L’Italia lo aveva adottato nel 1992 quando la Roma decise di acquistarlo su richiesta di Boskov: le due stagioni giallorosse non furono particolarmente esaltanti. Alla Sampdoria una nuova avventura e una nuova famiglia; l’allenatore è Sven Goran Eriksson, il capitano si chiama Roberto Mancini: il tecnico gli cambia ruolo spostandolo al centro della difesa, il compagno lo indirizza in mezzo al campo. Mihajlovic ha personalità da vendere, interpreta al meglio il suo nuovo ruolo: è il primo regista della squadra, ha un lancio di sessanta metri e il suo sinistro funziona come un navigatore gps; quando calcia, la palla arriva sempre a destinazione. Torna nella Capitale nell’estate del 1998, acquistato dalla Lazio. Il percorso del ragazzo di Vukovar coincide esattamente con il periodo d’oro della Lazio; in biancoceleste vince lo scudetto, due Coppe Italia, due Supercoppe Italiane, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea. Il periodo laziale non è soltanto un periodo gioioso; la Guerra nei Balcani mette a rischio la vita della sua famiglia: il padre è serbo, ma madre è croata. La situazione è drammatica. Gli amici di infanzia gli distruggono la casa per salvare la vita dei sui familiari, Sinisa torna in Serbia e nei luoghi d’infanzia trova solo un cumulo di macerie.

Sono mesi strazianti, durante i quali Sinisa riesce a intercettare solo notizie frammentarie sulla Cnn americana nelle lunghe notti insonni; pensieri e lacrime, ma mai un ritardo agli allenamenti: la sua professionalità è un modello per tutti gli altri compagni. Nel 1999 segna il primo gol della storia della Lazio in Champions League - a Leverkusen - con un meraviglioso calcio di punizione. È la specialità della casa, e i portieri avversari ne sono terrorizzati. Ha educato il suo sinistro contro la serranda del garage dentro al quale il padre parcheggia il proprio camion; ora si allena a Formello dove affina la sua tecnica quasi chirurgica. Nel 2004 lascia la Lazio per chiudere la carriera all’Inter dove sulla panchina c’è l’amico Roberto Mancini. Due stagioni in nerazzurro e un altro scudetto prima di appendere gli scarpini al chiodo. Intraprende la carriera di allenatore come vice di Mancini, nel 2008 inizia il proprio percorso da Bologna; tutto inizia e finisce sotto le due Torri, guidando nel corso degli anni il Catania, la Fiorentina, la Sampdoria, il Milan, il Torino e lo Sporting Lisbona. Guida con orgoglio anche la Nazionale serba; resta soltanto un anno: è un uomo di campo, preferisce le squadre di club. Da allenatore del Bologna era rimasto in panchina nonostante la malattia, il club lo aveva esentato dal suo incarico dopo le prime cinque giornate. Lascia un vuoto enorme, un esempio da seguire e un’impronta che il tempo faticherà a cancellare: muore giovane chi è caro agli Dei.


► Il ricordo. Ora mettila all’incrocio in paradiso.

Come Felice, il portiere del 1974. Sinisa ha scelto lo stesso giorno di Pulici (quattro anni fa, maledetto 16 dicembre) per lasciare un vuoto indelebile per i suoi cari e per tutti quelli che lo hanno amato da giocatore o allenatore ma soprattutto come uomo. Il mondo Lazio piange un altro eroe che si è dovuto arrendere a una malattia infame: la leucemia non gli lasciato scampo in tre anni. Ha lottato come sempre ma, alla fine, ha detto basta alle sofferenze in un piovoso venerdì di dicembre. Lascia una famiglia splendida, la moglie Arianna e cinque figli che gli sono stati accanto fino all’ultimo. Una carriera scandita da tanti successi e qualche caduta ma aveva saputo sempre rialzarsi con quella grinta che lo aveva reso un idolo di tutte le tifoserie per cui ha lavorato in questi anni. È inutile ricordare i momenti indimenticabili con la maglia biancoceleste, la squadra che non aveva mai nascosto gli era rimasta nel cuore più di ogni altra. Non avrebbe mai voluto lacrime, avrebbe preferito quel brusio che accompagnava ogni sua punizione, in pratica un’anticipazione del gol che sarebbe arrivato pochi istanti dopo. Ecco Sinisa, mettila all’incrocio anche in paradiso e corri sotto la Nord: i laziali non smetteranno mai di amarti.


► Cordoglio Meloni: "Esempio di coraggio". Totti: "ciao amico, mi mancherai". Salvini si commuove in Cdm: "Buon viaggio, campione dentro e fuori dal campo".

Un dolore struggente, a pochi giorni dalle festività natalizie. La scomparsa di Sinisa Mihajlovic non lascia indifferenti e non mancano i ricordi istituzionali. Il ministro dello sport Andrea Abodi: "Sinisa Mihajlovic ha rappresentato la lotta al male, il tentativo di vincerlo. Il mio pensiero va non solo a lui ma a tutti coloro che lottano contro malattie difficili affinché la sconfitta di un guerriero non sia il segno di una resa". Poi il messaggio di Giorgia Meloni: "Hai lottato come un leone in campo e nella vita. Sei stato esempio e hai dato coraggio a molti che si trovano ad affrontare la malattia. Ti hanno descritto come un sergente di ferro, hai dimostrato di avere un gran cuore. Sei e resterai sempre un vincente. A Dio Sinisa Mihajlovic". Quello di Matteo Salvini: "Non ci voglio credere, stramaledetta bastarda malattia. Buon viaggio Sinisa, campione dentro e fuori dal campo. Ci mancherai". Seguito dal saluto di Silvio Berlusconi: "Sinisa è stato un grande calciatore e un allenatore di grande capacità. È stato assalito da una malattia spietata ma lui ha sempre lavorato, sorriso e manifestato una grande voglia di vivere. Ci mancherà, mancherà a tutti".

Immancabile il commiato del presidente della Figc, Gabriele Gravina che ha detto: "Sono profondamente addolorato, è un giorno triste per il calcio italiano. Sinisa è stato un protagonista dentro e fuori dal campo. In un’epoca spesso contraddistinta dalla falsità, ha saputo anteporre sempre la verità non sottacendo i suoi difetti e le sue debolezze". E poi la sfilza di calciatori ed ex, accomunati dal dolore per questa notizia infelice: "Un guerriero dentro e fuori dal campo, esempio per tutti noi. Riposa in pace Sinisa", il messaggio di Cambiasso. "Sei sempre stato un guerriero e so quanto hai lottato. Ti ringrazierò per aver sempre creduto in me e per tutto quello che mi hai detto dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Resterai per sempre nel mio cuore, ciao mister", il messaggio postato da Gigio Donnarumma che grazie all'intuizione dell’allenatore serbo ha esordito da giovanissimo in Serie A. Quello di Batistuta: "Quante battaglie in campo. Ciao Sinisa". Poi il ricordo della Roma sui social e quello di Francesco Totti: "Ciao amico mio, mi mancherai".


► Le lacrime del mondo Lazio. Lotito: lascia una traccia indelebile. Mancini: resterai sempre con me. Piangono i compagni dello scudetto e gli amici di una vita trascorsa a giocare.

Il mondo Lazio si è stretto intorno alla famiglia Mihajlovic, il club del presidente Claudio Lotito ha rivolto immediatamente un pensiero per la sua scomparsa. "La S.S. Lazio piangela scomparsa di Sinisa Mihajlovic: un grande laziale, un guerriero in campo e nella vita" - scrive la società in una nota - "il suo coraggio sul terreno di gioco è stato secondo solo a quello dimostrato di fronte a una grave malattia. Di questo combattente dal grande cuore resterà una traccia indelebile nella storia della Lazio, non solo per essere stato Campione d'Italia, ma per il messaggio di speranza di fronte alle difficoltà. Lo ricorderemo come merita, con l’abbraccio infinito della sua squadra e della sua gente. Alla famiglia le nostre commosse condoglianze". Tra i primi a ricordare il tecnico serbo c’è l’allenatore del secondo scudetto della Lazio. "Era un giocatore vincente - rammenta Eriksson - lui non contemplava l’idea di arrivare secondo: era un piacere lavorare con lui". Il capitano di quella squadra, è stato anche il calciatore che in campo gli era più vicino. "Mister, sei stato un guerriero - sottolinea Nesta - un esempio per tutti noi e soprattutto per me: non ti dimenticherò". Anche il ct Mancini è distrutto: "Questo è un giorno che non avrei mai voluto vivere, perché ho perso un amico con cui ho condiviso quasi 30 anni della mia vita. Sinisa resterà per sempre al mio fianco, anche se non c’è più".

L’allenatore dell’Inter Simone Inzaghi lo ha ricordato con affetto. "Abbiamo condiviso trofei e giornate indimenticabili - afferma l’ex attaccante laziale - vivrai per sempre nei miei pensieri". Toccante il pensiero di Veron. "Fratello maggiore, compagno di mille battaglie - scrive l’argentino - sin da quando sono arrivato, sei sempre stato attento ad aiutarmi: baci in cielo amico". Non da meno il ricordo di Marcelo Salas, altro protagonista di una Lazio stellare. "Com'è terribile la fragilità della vita - scrive il cileno - oggi se ne va grande compagno di squadra e grande persona: vola in alto, Sinisa". Anche il presidente Cragnotti lo ricorda: "Non ce lo aspettavamo. Sinisa stava combattendo la sua battaglia, speravamo che ce la facesse. Ho un bellissimo ricordo di lui, ha dato un grande contributo ai trionfi della Lazio di quell'epoca". Parole d’affetto anche dalla Lazio attuale. Sarri: "Ho i miei ricordi con lui e vorrei mantenerli vivi. Personaggio di uno spessore enorme, un uomo di questo tipo lascia ricordi forti a tutti". Immobile: "Credo che Sinisa a livello umano sia stata una delle persone con cui mi sono trovato di più a parlare una volta che l'ho conosciuto. Io e la mia famiglia siamo molto legati alla sua, alla moglie, ai figli e alle figlie".


• Dalla Gazzetta dello Sport del 17 dicembre 2022:

► Ciao Sinisa, hai lottato come un leone. Tre anni nell’incubo sfidando la malattia con il calcio nel cuore. La scelta di Mihajlovic di non nascondere nulla delle sue condizioni: un modo per trovare forza e anche per darla a chi vive la sua stessa "partita". La frase "Sono nato due volte" rimarrà impressa per sempre.

Sinisa Mihajlovic aveva un primato. No, i tanti gol su punizione, le sue stoccate a 160 chilometri orari studiate pure all’università di Belgrado, stavolta non c’entrano. Il suo record era un altro: quello della voglia di vivere. In questa classifica non temeva rivali, forse perché era stato costretto a fare i conti con tutto ciò che è la nemica numero uno della vita: la guerra. Prima quella che aveva frantumato la sua Jugoslavia, il suo paese che ora non esiste più, poi la sfida alla leucemia mieloide acuta, combattuta con le parole e con i fatti grazie a una formidabile forza d’animo. Per questo, ieri, quando dalla clinica Paideia di Roma dov’era ricoverato da domenica, è giunta la notizia della sua morte, non siamo riusciti a crederci. Pensavamo non potesse succedere a quest’uomo rimasto sempre un po’ ragazzo pure da giovane nonno. Ma stavolta non è bastato l’orgoglio con cui aveva attraversato la terra perfida della malattia: combattendo, condividendo, trasmettendo, senza nascondersi, quasi che proprio il raccontare gli desse forza e soprattutto desse forza a chi viveva la sua stessa condizione. Una speranza che deve sopravvivergli. Per questo e non solo per questo, Mihajlovic è stato un uomo generoso. Che ha fatto un lungo cammino in una vita breve, circondato dai tanti palloni che hanno riempito la sua esistenza fino all’ultimo.

Il buio. Era cominciato tutto d’estate. Un’estate di tre annifa. L’estate in cui il serbo sempre più italiano scoprì di essere malato, l’estate in cui lo raccontò al mondo il 13 luglio del 2019 in una conferenza stampa drammatica che sprizzava però fiducia e coraggio. Era lui a dire: non vi preoccupate, ce la farò. Sembrava passato un secolo da quando era arrivato a Roma: timido, impaurito, con quella sciarpa giallorossa portata con un certo imbarazzo, quasi che volesse dimostrare qualcosa prima di avere il diritto di indossarla. Un po’ era ancora sotto shock per quanto aveva appena visto: l’orrore della guerra, scoppiata proprio nel pugno di chilometri vicino casa sua. A Roma, la dottoressa Vukosava gli insegnò l’italiano: tre incontri a settimana per sentire presto la nuova lingua come sua. Anche in circostanze drammatiche, come quelle che cominciò a vivere in quel pezzo di 2019. La scoperta di un’altra partita da vincere. In cui per non smettere di sognare devi come ripartire da capo: "Sii umile perché sei fatto di terra, sii nobile perché sei fatto di stelle", dice un proverbio serbo. E lui fu umile e nobile in quell’improvvisa tempesta. Prima il ricovero, poi l’annuncio, il pellegrinaggio dei tifosi a San Luca, la nascita del Bologna United, la squadra che va sotto la sua stanza all’ospedale Sant’Orsola dopo una vittoria con il Brescia e gli dice: ci manchi, torna presto.

"Sono nato due volte". E lui certo che torna presto. 44 giorni dopo il ricovero è di nuovo in panchina in un Verona-Bologna. Passano due mesi e il 29 ottobre 2019, si sottopone al trapianto di midollo osseo. E l’incubo sembra svanire, quantomeno allontanarsi. La luce ha fatto gol al buio. Nel frattempo, Miha è diventato davvero tutti noi: quella miscela di fragilità e coraggio ci mette addosso tante energie. E poi c’è un’altra cosa che succede: in un posto, il calcio, dove ci si divide e ci si lacera intorno alle questioni più futili, Sinisa unisce. Con il suo zuccotto, il suo sguardo provato ma vivo, le sue parole sempre ottimiste, il suo lavoro che non molla mai. Va in vacanza in Sardegna, gioca persino a calcetto, sconfigge il Covid. E trova sempre le frasi giuste: "Sono nato due volte. La prima a Vukovar, la seconda a Bologna".

I suoi racconti. Sì Bologna, magari la voglia di andarsene sui colli a vedere il temporale perché "fra i fulmini coi tuoni mi sembra di volare" come cantava Lucio Dalla. Bologna: la città di Sinisa, la sua squadra, la sua battaglia. Bologna di cui il 17 novembre 2021 diventerà cittadino onorario firmando una sorta di dichiarazione d’amore: "Sono stato fortunato a capitare in questa città". Spiega, parla, racconta. La sua storia diventa un’autobiografia scritta con Andrea Di Caro dal titolo che dice tutto: "La partita della vita". Mihajlovic ha tanta voglia di confessarsi, non c’è mai una frase banale o scontata fra i suoi discorsi. Come quando pontificava sulla diversità delle sue punizioni da quelle dell’altro specialista dei suoi anni, il brasiliano Roberto Carlos. E disegnava traiettorie non soltanto con i piedi, ma anche con quell’appassionato argomentare la sua personalissima arte del calcio piazzato.

"In gioco c’è la vita". Nel suo 2021 c’è anche la tv, Mihajlovic si racconta al Festival di Sanremo. E poi va anche dal Papa, da Francesco. Che gli racconta di un portiere di origini slovene di un secolo fa. Sinisa è ormai immerso nella sua seconda vita, che però somiglia straordinariamente alla prima perché c’è sempre il pallone di mezzo. Due anni dopo il trapianto, porta tutti a cena in un agriturismo, "La cantina dei sapori". Con la squadra c’è anche Gianni Morandi, quello che canta "uno su mille ce la fa, ma quant’è dura la salita, in gioco c’è la vita". La vita che dopo qualche mese ricomincia a fare la stupida. Maledizione. Di nuovo.

La ricaduta. Rieccola, la malattia "subdola e bastarda", come la chiama. Alla fine di marzo di quest’anno, la ricaduta. E ancora lo stesso modo di combatterla: sono qui, eccomi, non ce la farai a superarmi, ti batterò anche stavolta. Parole che non tiene per sé, le comunica al mondo, il piccolo grande mondo di Arianna, dei suoi figli, della nipotina Violante che gli regala momenti di felicità anche negli attimi più duri. Ma pure il mondo di fuori che ora lo considera un simbolo. Si ricomincia con i consigli a distanza e le partite vissute da remoto. A fine aprile la squadra torna all’ospedale. È stata battuta l’Inter e fra i giocatori nasce l’idea: dai andiamo da lui. Ma "così mi fate piangere", dice dalla finestra. Senza perdere il gusto per la battuta: "Qui non mi fanno uscire perché senza di me non perdete più".

Di nuovo. Va in scena il remake di quanto aveva già vissuto. Le cure, la solitudine, le dimissioni dall’ospedale all’inizio di maggio, la passeggiata al laghetto di Tor di Quinto a Roma, prima di tornare da quella che è la calamita della sua vita: ancora lui, il pallone, e quel pallone, Bologna, sempre più sua. Il rientro è a Venezia. Ancora con la stessa consapevolezza, la stessa fiducia, lo stesso spirito. Il campionato ricomincia e l’Olimpico laziale sommerge d’affetto l’allenatore del Bologna. Che all’inizio di settembre non è più tale: viene esonerato. Sono giorni complicati, perché Sinisa avverte un senso di ingiustizia dentro la decisione della società. Ma tutto questo si mischia con un sentimento forte, fortissimo di riconoscenza, verso tutto ciò che significa Bologna. Quindi queste ultime settimane, alla luce che torna buio, al "secondo passaporto", un’altra espressione del suo vocabolario, che si scopre scaduto. E all’ultima foto pubblica, il bacio a Zeman il giorno della presentazione del libro del boemo. Poi le voci sempre più insistenti di un peggioramento fino alla notizia che spacca il cuore. "È stato un guerriero che ha lottato fino alla fine", dice Francesca Bonifazi, il medico che Sinisa definì "il mio angelo custode". Stavolta anche il primatista del mondo della voglia di vivere è costretto ad arrendersi.


► I tifosi lo omaggiano. E arriva l’amico Mancio. Alla clinica dove Miha è scomparso.

La notizia ha rabbuiato un grigio pomeriggio romano. Quando la famiglia Mihajlovic ha annunciato la scomparsa di Sinisa, la Capitale si è trovata improvvisamente orfana di uno dei suoi figli acquisiti. Un uomo reso duro dal passato ma che a Roma aveva trovato la sua dimensione e - cosa non da tutti - negli anni si era guadagnato sul campo il rispetto di entrambe le tifoserie. Nonostante il suo cuore fosse legato a doppio filo all’universo biancoceleste. È probabilmente per questo che ieri diversi tifosi hanno scelto di omaggiare Miha recandosi fuori dalla clinica Paideia. Non gruppi organizzati, ma semplici appassionati di calcio che hanno voluto abbracciare virtualmente il campione per l’ultima volta.

Amici. I primi ad arrivare davanti alla struttura, però, non sono stati tifosi o giornalisti, ma gli amici dei figli di Sinisa che - dalle 15.30 - hanno affollato il marciapiede di fronte all’entrata della clinica. Proprio davanti alla finestra della stanza dove la moglie Arianna, insieme a Viktoria, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, è rimasta vicina al loro guerriero fin quando è stato possibile. I ragazzi - tutti giovanissimi – hanno trascorso oltre 5 ore davanti alla Paideia, pronti a far sentire la propria vicinanza con un cenno di saluto. Nessun sorriso o voglia di vivere con normalità un giorno che, di normale, non ha avuto nulla. Una testimonianza tangibile dell’amore che in queste ore sta accompagnando la famiglia Mihajlovic.

Ferrero. Naturalmente non sono mancate manifestazioni dirette anche dai protagonisti che hanno condiviso la passione di una vita. Quella per il calcio. Come l’ex presidente della Samp, Massimo Ferrero, che a stento è riuscito a trattenere le lacrime durante il ricordo dell’allenatore a cui è rimasto più affezionato dopo la sua avventura in Serie A: "Non mi sembra il caso di parlare. Questo scherzo non me lo doveva fare... - dice Ferrero - Ciao Sinisa! I fuoriclasse li perdiamo sempre, ma questa è la vita. Mi ha battezzato nel calcio. Era un super uomo, veramente una grande persona". Nessuna dichiarazione, invece, da parte di Vincenzo Cantatore, l’ex pugile che nel 2019 aveva fatto parte dello staff di Mihajlovic durante la preparazione estiva del suo Bologna.

Mancini. Cantatore non è stato l’unico a mantenere un profilo basso. Anche Roberto Mancini, che con Sinisa ha condiviso lo spogliatoio per anni (sia da allenatore che da giocatore), ha evitato microfoni e telecamere. Il c.t. azzurro, arrivato da solo a bordo della sua 500, ha scelto di entrare in clinica da un ingresso secondario. Mancini ha poi salutato l’amico di sempre con un messaggio sul sito della Figc. A differenza del c.t., lo storico team manager della Lazio, Maurizio Manzini, e il dottor Giuseppe Capua, presidente della commissione federale Antidoping, sono entrati nella clinica dall’ingresso principale, senza rilasciare dichiarazioni. Oggi sarà allestita la camera ardente alla clinica, domani sarà in Campidoglio. Lunedì (orario ancora da fissare) i funerali nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri.


► Tante maglie, campione di tutti. Un eroe in patria e idolo in Italia. Col sinistro magico ha fatto sognare. Boom con la Stella Rossa, scudetti con Lazio e Inter. E dal Toro al Bologna, è stato leader pure in panchina.

Vero. Dei tanti aggettivi che sono stati usati per fotografare Sinisa Mihajlovic, il giocatore, l’allenatore, soprattutto l’uomo Sinisa Mihajlovic, ce n’è almeno uno che sicuramente ha messo d’accordo tutti. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui da quando il calcio ha fatto parte della sua vita, dunque molto presto: compagni di gioco in strada e poi di squadra, tecnici, dirigenti, giocatori allenati, arbitri, giornalisti. E tifosi: anche avversari, perché chi sta dall’altra parte sa riconoscere quello che è inequivocabile. Ed era uno dei tributi a cui Mihajlovic è sempre stato molto affezionato. Vero come il suo carattere, il suo sguardo, le parole a volte quasi sussurrate e spesso sibilate. E anche il suo calcio, che fosse un lancio di quaranta metri, una punizione a molto più di cento all’ora, un tackle sulle caviglie, uno stacco di testa, un’idea tattica per ribaltare una partita.

La Coppa dei Campioni. Il calciatore Mihajlovic, madre croata e padre serbo, viene alla vita a Borovo, Croazia, anche se l’anagrafe indica come luogo dinascita Vukovar, la città con un ospedale più vicina. È a Borovo che Sinisa cresce innamorandosi del pallone, calciandolo per ore - quando non gioca nei campetti più improbabili con gli amici - contro la porta di un garage. È lì che simbolicamente avrebbe portato la Coppa dei Campioni vinta con la Stella Rossa, la squadra che lo notò e poi lo strappò al Vojvodina. A Belgrado i suoi enormi bicipiti avrebbero iniziato a tendersi anche per sollevare trofei: pure la Coppa Intercontinentale, dopo aver mostrato al cielo il simbolo della massima gloria europea.

Sinistro dinamite. È a Belgrado che il sinistro di Mihajlovic si abitua a scaricare dinamite: gli succede sempre, ma in particolare pochi secondi dopo aver messo il pallone a terra per calciare punizioni che furono studiate anche da ricercatori del dipartimento di fisica dell’Università di Belgrado. Dicevano viaggiassero a più di 160 chilometri orari: rilevazioni complicate, ma il dato, per quanto approssimato, rende bene l’idea. Come la frase che Sinisa si divertiva un sacco a ripetere: "Quando sistemo il pallone al limite dell’area, sugli spalti i miei tifosi si abbracciano già: sanno cosa sta per succedere". Allenarsi con il compagno di squadra Mihajlovic significava poter rinviare il momento della doccia per assistere ad uno show riservato a pochi, e senza dover pagare il biglietto: una macchina trasformatrice di calci piazzati, da qualunque posizione. E lo show andava in onda quasi tutti i giorni. Era masochistico sfidarlo e anche inutile studiarlo: uguali o diverse alle precedenti, potenza e precisione rendevano quelle traiettorie comunque illeggibili. Difficile anche tenere il conto totale: basti sapere che nel solo campionato italiano ne segnò 28. Il 13 dicembre 1998 ne segnò tre in una partita sola, contro la "sua" Sampdoria.

Regista difensivo. Il primo Mihajlovic giocava centrocampista, più spesso a sinistra per assecondare le ispirazioni dell’unico piede a cui si affidava realmente. Così fu conosciuto a Roma, dove in maglia giallorossa inizia una lunga carriera italiana, da giocatore e poi allenatore, che si intreccerà per sempre con la sua vita. È a Genova, con la maglia della Samp, che Mihajlovic arretra di svariati metri per reinventarsi difensore. Ma il dna del centrocampista che era stato non sarebbe mai svaporato, facendone un regista difensivo più che un centrale puro, seppur affezionato alla durezza dei corpo a corpo nei quali si esaltava: i suoi occhi, il ghigno che aveva dopo certi contrasti, lo raccontavano meglio di qualunque parola.

Il fratello Mancini. A Roma vinse molto, ma con la Lazio. Dove arrivò dopo aver dato tanto - e tanto ricevuto - alla Sampdoria, la squadra che battezzò l’amicizia con quello che sarebbe diventato in realtà un fratello: Roberto Mancini. Mihajlovic lo avrebbe raggiunto poi a Formello, per disegnare - assieme a lui per tre anni - una parabola biancoceleste mai, e forse mai più, così luccicante: uno scudetto, due Supercoppe Italiane, una Supercoppa europea, una Coppa delle Coppe e due Coppe Italia. Anni di gol, assist e intemperie, perché al carattere non si comanda. E Sinisa, quando si trattava di parlare alla sua anima di guerriero, non sempre sapeva essere il Generale che sarebbe diventato in panchina: prendeva e dava botte, ascoltava e restituiva insulti. Lo chiamavano "zingaro di merda", a lui scappò di offendere il colore della pelle di Patrick Vieira, o di sputare e calpestare Adrian Mutu, o di calciare una bottiglietta contro un delegato Uefa, pagando con una squalifica di otto giornate.

Alchimista di empatia. Il Mihajlovic calciatore era così, vinceva e divideva: proprio come las cissione etnica della guerra dei Balcani che gli sconvolse la vita aveva separato, nel suo mondo, le parentele, le amicizie, gli affetti. Forse anche per questo - avrebbe ricordato anni dopo, parlando di quella sfida fra Inter e Juve - una battaglia sul campo senza esclusione di colpi con Zlatan Ibrahimovic, un altro "zingaro" come lui, sarebbe stata la scintilla per un legame fortissimo con lo svedese. Forse anche per certi segni che si portava dentro, il Mihajlovic tecnico in panchina sarebbe diventato anzitutto un’alchimista dell’empatia, un profeta dei gruppi d’acciaio. Un professore dei rapporti fra uomini. Aveva iniziato a studiare da allenatore una volta arrivato all’Inter, gli ultimi suoi due anni da calciatore, molti infortuni e molti consigli da fratello maggiore ai compagni, in tempo per vincere uno scudetto, due Coppe Italia, una Supercoppa italiana: gli albori della Beneamata che avrebbe stravinto tutto per anni. Lo aveva voluto il Mancio: prima in campo e poi al suo fianco in panchina, un po’ vice e un po’fratello, il grillo parlante in grado di smussare gli spigoli di un allenatore che sapeva già vincere, ma non lo faceva ancora con la serena consapevolezza di oggi.

La favola Catania. Fu un dare e avere già allora: quando l’arrivo di Mourinho all’Inter separò le loro strade, Mihajlovic era pronto per camminare da solo. Per guidare da solo una squadra: in principio - certe traiettorie fanno giri immensi e poi ritornano, come gli amori - fu il Bologna, anno 2008. Meno di una stagione, abbastanza per doversi abituare in fretta al gusto amaro di un esonero. Ma anche una vetrina che lo avrebbe portato a Catania, l’impresa di una salvezza portata nel cuore come uno dei ricordi più dolci della sua carriera, non solo perché quella squadra coraggiosa come lui fu l’unica a vincere con più di un gol di scarto contro una macchina da guerra: l’Inter di Mourinho e del Triplete. Mihajlovic se ne andò da Catania scrivendo una lettera d’addio commovente, lo specchio della sua anima dura ma gentile. Non a caso, killer con la faccia da bambino era uno dei suoi soprannomi preferiti, assieme a figlio del vento, mano di cotone, re dei Balcani. Lo aspettava Firenze, dove sarebbe rimasto molto più a lungo, se non fosse sopraggiunta una separazione digerita malissimo.

Montagne russe Milan. Solo il cuore avrebbe potuto allontanarlo dall’Italia che era ormai il suo Paese: del resto, alla panchina della nazionale serba sarebbe stato difficile dire no. Ma sarebbe stato difficile anche ribellarsi al suo destino da globetrotter, oggi qui e domani là. Là, ovvero un altro pezzo importante del suo passato, la Sampdoria, due anni ad accompagnare i ragazzi in blucerchiato spesso oltre i loro limiti. Per lui quasi una tesi di laurea, scritta così bene da meritare la sfida più gratificante e più impegnativa della sua carriera da allenatore: il Milan. E anche le solite montagne russe, fra il paradiso della gloria (un derby vinto dai rossoneri dopo cinque anni, per non dire del coraggio di far debuttare da titolare Gigio Donnarummaa 16 anni) e l’inferno di un altro esonero. Lo stesso sapore masticato anche dopo essere passato dalla panchina del Torino e dello Sporting Lisbona, ma il romanzo della sua carriera aveva tenuto in serbo per le ultime pagine la favola del ritorno al Bologna. Dove si sarebbe visto, se possibile, il Mihajlovic più "vero" di sempre.


► "Io, Sinisa, sono così. Ho vissuto tante vite e non ho mai recitato. Rifarei ogni cosa". La vita, le gioie, i trionfi e i dolori con la lotta alla malattia. Tutto questo è stato raccontato da Sinisa Mihajlovic a Andrea Di Caro, vicedirettore della Gazzetta dello Sport, e raccolto in un libro uscito nel novembre di due anni fa. "La partita della vita" è il titolo del volume (editore Solferino) si apre con questa prefazione scritta da Mihajlovic.

Di Sinisa Mihajlovic

Mi chiamo Sinisa e sono nato due volte. La prima il 20 febbraio 1969 a Vukovar, ex Jugoslavia, oggi Croazia. Devo ringraziare mia madre Viktorija, croata, e mio padre Bogdan, serbo, per avermi messo al mondo. Quando è successo era un giovedì, non ho pianto. Mi hanno raccontato che avevo già un’arietta da duro, hanno dovuto sculacciarmi tre volte per farmi emettere un urlo. Cinquant’anni dopo, il 29 ottobre del 2019 sono nato una seconda volta, all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna. E stavolta devo ringraziare un ragazzo americano, sconosciuto, che mi ha donato il suo midollo osseo e l’equipe medica che si è occupata del trapianto per curare la leucemia. Quel giorno era un martedì, ho ricevuto da tutti solo carezze, eppure ho pianto a lungo. Sono nato due volte, ma ho già vissuto tante vite. Quando ho compiuto cinquant’anni, il 20 febbraio del 2019, mi sono guardato indietro: "Sinisa, quanto mondo hai visto...". Ci scherzavo su, gonfiando i muscoli: "Mi sento vent’anni, ma a volte penso di averne centocinquanta per tutte le esperienze avute". L’adolescenza in Serbia, il duro lavoro dei miei genitori, le giornate a giocare a pallone da solo, gli inizi della carriera, la Stella Rossa, le amicizie pericolose nella Belgrado di fine anni Ottanta, i trionfi sportivi. E poi l’Italia, la consacrazione nel campionato più bello e importante del mondo, le squadre in cui ho giocato, quelle che ho allenato e le tante città in cui ho vissuto.

Ho conosciuto presidenti che hanno segnato il mondo dell’industria, della finanza, della politica, della moda, del cinema, della comunicazione e dell’editoria. Sono stato allenato da maestri di tattica e di vita e ho attraversato trent’anni di calcio con compagni di squadra e diavventure. Grandi campioni, giovani talenti, promesse non mantenute e... discrete pippe. Ho giocato, vinto e perso partite mitiche passate alla storia e alcune piene di ombre. Conosco l’orgoglio di giocare in nazionale e di allenarla. Coppe e scudetti, punizioni divine e gol sotto all’incrocio, corse e tackle, applausi e fischi, scalate, cadute e ripartenze. Liti, accuse, polemiche feroci. La fama e le pistole. La fame e l’agiatezza. Sono padre di sei figli, cinque dal matrimonio con Arianna, l’amore della mia vita: è la mia famiglia la vittoria più bella. E in mezzo a tutto l’esperienza devastante delle guerre nei Balcani. Sanguinose, fratricide, disumane. La Jugoslavia disgregata, i morti, le ferite mai rimarginate.

Mentre, a cinquant’anni, tutto questo mi passava davanti agli occhi, solo pochi mesi dopo sarebbe iniziata la partita più importante, quella della vita. Un dolore improvviso, le analisi, la diagnosi: leucemia acuta mieloide. L’annuncio, il ricovero, le cure, il coraggio che fa a pugni con la paura. Le lacrime, la speranza. Il trapianto, il ritorno in panchina, la riscoperta delle piccole cose. Nel mio destino però c’è scritto che debba provare tutto, anche la positività al Covid, il virus che ha chiuso in casa il mondo. Sono sempre stato un uomo difficile, divisivo, che si esaltava nello scontro. Spesso muscolare. Ho un carattere forte che per molti diventa sinonimo di caratteraccio. Forse perché non mi sono mai nascosto, prendendo anche posizioni scomode o sconvenienti. Sono serbo dalla testa ai piedi, con i pregi e difetti del mio popolo orgoglioso. Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali. Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa senza avermi mai conosciuto, non sono l’eroe che ora a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia. Di certo non ho mai recitato. Ho vissuto spesso a muso duro. Però anche uno con attributi può commuoversi e avere momenti di fragilità.

Non sono infallibile, mai pensato di esserlo: ho sbagliato e sbaglierò ancora, ma sempre da uomo. E i miei errori li ho sempre. Pagati, senza sconti. Chi mi conosce sa che so essere dolce e affettuoso, ma è molto meglio se non mi fanno incazzare. Per tanto tempo ho preferito un ghigno a un sorriso. E a chi mi fissava per più di cinque secondi dicevo: "Che cazzo guardi?". Ora ho imparato a controllarmi un po’ di più... Si invecchia, si cambia e, spero, si migliora. Un grande scrittore, Leonardo Sciascia, nel "Giorno della civetta" divideva l’umanità in cinque categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. Aveva ragione. E nel mondo del calcio è un po’ la stessa cosa. Non so cosa mi riserverà ancora il futuro, ma so che rivivrei e rifarei tutto, nello stesso modo. Anche gli sbagli, anche i dolori. Perché non esistono vite perfette. E sarebbero pure noiose. Ho vissuto ogni partita come fosse la vita. E la vita come fosse una partita. Se oggi sono quello che sono, è grazie a tutto quello che mi è successo. Mettetevi comodi, perché sto per raccontarvelo...


► Carissimo amico coraggioso e leale. Lacrime e sorrisi di un uomo speciale. Il calcio e la vita a petto in fuori.

Di Andrea di Caro

Ora che sei già lì, voglio immaginarti com’eri, guascone e sorridente, in calzoncini e maglietta attillata a evidenziare quei bicipiti e quegli addominali di marmo, per quanto erano duri, con un pallone sotto al braccio. Si fa avanti Diego: "E tu che ci fai qui?". "Sono venuto a sfidarti... Chiama Yashin o chi vuoi tu per stare in porta. Con la barriera o senza, non fa differenza. Diego, tu sei stato il più grande, ma a calciare le punizioni non esiste un sinistro come il mio". Mentre prendi la rincorsa voci d’angelo intonano i cori delle curve del tuo cuore: "Pobedi Sinisa" (Vinci Sinisa), "E se tira Sinisa è gol...". Spiegherai anche lassù che hai sbagliato più rigori che punizioni e come cambiavi all’ultimo il modo di tirare in base al movimento del portiere. Prenderai per il culo qualcuno dopo averne messe cinque di fila sotto all’incrocio e poi inviterai tutti a cena, perché "poi andiamo a mangiare" è una delle frasi che ti ho sentito ripetere più spesso. Cibo serbo, ovviamente, quello che digerisci solo tu, con i favolosi sarma che ti cucinava tua madre. Ma prima una grappa secca delle vostre, "che ti apre lo stomaco e fa venire appetito". Ne ordinavi sempre due, una per te e una in ricordo di tuo padre. Stavolta ne basterà una sola, perché lui sarà accanto a te a bere la sua.

Mi sembra di vederti mentre racconti a tutti gli episodi della tua infanzia difficile, che ti hanno formato, della serranda davanti casa presa a pallonate per ore ed ore, i campi polverosi pieni di macellai prestati al calcio, la prima macchina a Borovo, la mitica Zastava Skala 128, e i riccioli al vento a cui tenevi tanto, fino ai successi prima col Vojvodina e poi con la tua Stella Rossa regina d’Europa... Poi ti fai serio e scende qualche lacrima quando rivedi i fotogrammi di una guerra fratricida, assurda e sanguinosa. "Un impazzimento della storia" lo definivi. La tua casa distrutta dal tuo migliore amico croato, Pipe. Le amicizie pericolose e gli errori di valutazione "ma bisognava essere lì e vivere l’orrore che ho vissuto io prima di giudicare". E finalmente l’Italia, i primi vestiti di Versace e il gusto che si affina, la carriera che prende il volo e porta agiatezza e soldi che "mi consentono di vivere bene, li spendo, ma non li sperpero perché non dimentico il passato, i sacrifici fatti e che da bambino la felicità era un pezzetto di banana". Roma, Samp, Lazio, Inter, che spettacolo eri da calciatore, che classe e che personalità. Successi, polemiche, trofei, gol e tackle... Dal campo alla panchina sempre a petto in fuori, "perché io gioco solo per vincere e la sconfitta mi fa incazzare". Vice del tuo amico Mancini all’Inter, quindi Bologna, Catania, Firenze, la Nazionale serba, Samp, Milan, Torino, Bologna.

"Il calcio è stata tutta la mia vita" e l’hai vissuto con passione e dedizione assolute. "Ma resta la famiglia il mio trofeo più bello" aggiungevi subito. Il primo incontro al ristorante "L’ultima follia" a Roma con Arianna "che appena l’ho vista ho pensato, io me la sposo. E che belli saranno i nostri figli...". Quando in ospedale non ne potevi più, mi confidavi che l’unico sollievo era incrociare i suoi occhi incastonati tra cappellino e mascherina: "Non so spiegarti quanto siano belli, dopo quasi 30 anni Arianna mi fa battere il cuore come la prima volta". Lo dicevi a me e spesso non avevi il coraggio di dirlo a lei, capoccione di un serbo. I vostri cinque figli, tre maschi Miroslav, Dusan e Nikolas "che sono diventati più alti e grossi di me" e due ragazze bellissime, Viktorija e Virginia, di cui eri geloso. Fino a Violante, il gioiello che ti ha reso nonno. Sognavi una vecchiaia da cartolina: "Io a capotavola, una lunga barba bianca e tutta la famiglia intorno, figli e nipoti. A noi serbi piace così".

Nel 2019 quando annunciasti al mondo che avevi la leucemia, quella cartolina che avevi in testa sembrò finire in mille pezzi: "Ho pianto tutte le mie lacrime, ora me la gioco e vediamo chi vince" hai detto prima di entrare al Sant’Orsola. L’hai sfidata la malattia e l’hai affrontata con un coraggio e una resistenza inimmaginabili. Non è retorica. Chi è stato accanto a te in questi anni, dentro e fuori dagli ospedali, lo sa. I medici che ti hanno bombardato con cicli di chemio, trapianti, cure di ogni tipo, si sono chiesti spesso come facesse il tuo corpo, minato da tante complicazioni dolorose, a resistere e a reagire: "Ha una forza fisica e psicologica sovrumana". Il Bologna seguito da una stanza di ospedale, il ritorno in campo a Verona nell’agosto 2019, sfinito ma in piedi, un’immagine potentissima: "Ero più morto che vivo, ma avevo promesso che ci sarei stato. Non c’è nulla da nascondere e di cui vergognarsi nell’essere malato". Il primo trapianto, il recupero veloce, quasi impressionante: "Mi sento meglio adesso che a 20 anni, se lo avessi saputo l’avrei fatto prima", provavi a scherzare come sempre. Ma senza irridere mai la malattia "perché rispetto il mio avversario, ma farò di tutto con l’aiuto della medicina per batterla e guarire". Avevi imparato a commuoverti: "Ora piango spesso e apprezzo ogni piccola cosa". Non ho mai visto un uomo lottare come te, Sinisa. Mai. Né uno così ferocemente attaccato alla vita.

La tua vita intrecciata alla mia mi riporta alla mente anni felici di un’amicizia fortissima, fraterna, nata d’estate a Porto Cervo in occasione della tua prima intervista da neo tecnico della Fiorentina. Venisti ad aprire il cancello di Villa Serbia: eri in costume da bagno, muscoli gonfi, tatuaggi e la faccia da duro. Minchia, quanto è grosso, pensai... Eri stato accolto a Firenze con diffidenza, a causa di vecchie tue dichiarazioni su Arkan. In giardino ti guardai negli occhi e misi giù la penna: "Sono qui per raccontarti non per giudicarti". Parlammo di tutto compresi gli argomenti che avevano portato molti a puntarti il dito contro. Ci sono incontri che fanno sbocciare qualcosa di unico. Il rapporto professionale ha lasciato in pochissimo tempo il posto alla stima, alla fiducia, all’amicizia. Telefonate lunghe e continue, pranzi e cene (madonna quante cene, mi hai fatto prendere 7-8 chili), confidenze, interviste. Mai mi hai chiesto un favore sul giornale, mai ho parlato delle tue squadre nei miei commenti al campionato. Consigli sì, di quelli ce ne siamo dati tanti: "Harry, ho bisogno di te...". Mi chiamavi così perché sostenevi che risolvevo problemi come Harry Potter che ti ricordavo per gli occhiali e il fisico lontano dal tuo. Abbiamo parlato di calcio e di vita, abbiamo "fatto nottata" dopo certe partite perse che non ti facevano prendere sonno. Abbiamo riso, scherzato, ci siamo abbracciati e non ricordo un litigio. Ma abbiamo discusso anche e qualche volta ti ho detto: "No, Sinisa questa è una cazzata...". Un privilegio che concedevi a pochissimi. Non era facile convincerti, ma da uomo intelligente stavi ad ascoltare. E come una spugna facevi tue le cose che ritenevi giuste. Brillante, sveglio, paraculo, ma profondamente leale ed onesto. Con un codice di valori chiaro, virile, non facile da smussare. Preciso, puntuale e con un incrollabile senso del dovere. Eravamo diversi ma compatibili e forse per questo ci siamo trovati e voluti così bene. Mi piacerebbe ricordare solo il cazzeggio tra noi, ma non mi vanno via dalla testa quelle due telefonate. La prima, raggelante con cui mi svegliasti quella maledetta mattina di luglio: "Ciao Harry, devo dirti una cosa: non ho la febbre. Ho la leucemia". E la seconda, forse anche peggiore: "È tornata, Andre’...". E scusa se piango mentre me le ricordo, saranno gli anni che passano, ma non le tengo più dentro le emozioni.

Ci siamo sentiti al telefono domenica scorsa: "Ho avuto la febbre, ma ora mi sento meglio..." mi avevi detto con voce fioca ma viva. E avevi aggiunto particolari di tutte quelle complicazioni che continuavi ad avere e ogni volta mi chiedevo come facevi a sopportare tutto questo. Ci eravamo dati appuntamento a Roma: "Magari andiamo a mangiare..." mi avevi proposto. "Ma sì Sinisa dai vediamo, possiamo anche prendere un caffè a casa. Basta stare insieme". Sapevi di stare male. "Se non funziona questa, è finita...". Però non mollavi, perché non hai mai mollato in vita tua, e continuavi a leggere libri che potessero essere utili per il tuo lavoro e a programmare: "A gennaio facciamo un’intervista, andiamo a vedere qualche partita insieme. Vorrei andare un paio di giorni a Belgrado. Poi magari si va a Londra a trovare Conte e a vedere gli allenamenti". "Ma sì certo, Sinisa, faremo tutto. Un passo alla volta...". "Step by step...". "Bravo, vedo che l’inglese non lo hai dimenticato". "Ciao Harry". "Ciao Sini, ti chiamo domani...". E invece la telefonata me l’ha fatta tua moglie Arianna, una leonessa come te. Sono sceso di corsa da Milano e mi sono presentato in clinica con la scusa che avevo anticipato il viaggio. E, nonostante tutto, sei riuscito a scherzare ancora. Ti ho proposto: "Quando ti passa questa ennesima rottura di palle, vengo a camminare con te. Devo perdere qualche chilo...". "Lo vedo, sembri Cicciobello". Il resto, lo teniamo per noi... Ti piaceva fare sorprese, l’ultima a Zeman a inizio dicembre, in occasione della presentazione del suo libro, la tua prima uscita pubblica dopo tanto tempo. Ti avevo visto il pomeriggio a casa tua e avevo pensato: non ce la fa a venire. Invece, come da accordi, sei arrivato, elegante e fashion come sempre, gli hai dato un bacio e l’hai fatto commuovere. Io so che sacrificio hai fatto per esserci. E sono felice che le ultime immagini pubbliche di te siano quelle sorridenti di quella sera. Zdenek, che usa poche parole, ma non le sbaglia quasi mai, oggi ti ha salutato così: "Era eroico".

Ti ho visto magro come una stampella, trascinarti stanco in una stanza di ospedale, ma per me sei sempre rimasto un gigante. Però ti ho visto anche soffrire troppo in questi anni. Troppo. Come un pugile, cadevi, ti rialzavi, e tornavi a combattere. "Ti capisco Sinisa...", ti ho detto durante uno dei tuoi ricoveri. "No, Andre’ non puoi capire". Avevi ragione, non si poteva capire. La "Partita della Vita" è finita. Restano lacrime, ricordi e sorrisi. Leggetela la sua autobiografia, leggetela. Scoprirete un uomo non perfetto, ma assolutamente straordinario. Inizia così: "Mi chiamo Sinisa e sono nato due volte... Ma di vite ne ho vissute molte di più". E adesso riposa, amico mio carissimo. Ci rivedremo un giorno.


Il feretro entra nella Basilica
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Il presidente biancoceleste Claudio Lotito
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Il feretro portato dagli ex compagni di squadra
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La Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma dove si è svolto il funerale
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Piazza della Repubblica gremita
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La folla presente
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Un momento dell'evento
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Il giorno delle esequie[modifica | modifica sorgente]

Il funerale di Sinisa Mihajlovic si è svolto in Roma in data 19 dicembre 2022 presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri in piazza della Repubblica, o Esedra, alla presenza di un foltissimo pubblico e di varie autorità sportive e non. Negli articoli seguenti il racconto dell'evento.


• Dal Corriere dello Sport del 20 dicembre 2022:

► Le lacrime per Sinisa "uno di noi". Le parole sentite del cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna: "Voleva invecchiare con tanti nipoti". Si sono svolti ieri a Roma nella basilica di Santa Maria degli Angeli i funerali di Mihajlovic. C’erano gli amici, i colleghi, i suoi giocatori e gli ex compagni di squadra. Tanti tifosi e cori da stadio.

Sinisa aveva il volto vero del mondo che ieri si è accalcato dentro e fuori la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri eleggendolo campione universale, uomo di tutti, "uno di noi" in mezzo a noi. "Grazie, Sinisa. Hai insegnato a non abbattersi. Grande è chi si fa piccolo. Grande è chi si ferma ad aiutare, chi è generoso. Grande è chi ama e aiuta la sua squadra e si pensa con gli altri, valorizza il talento degli altri, crede in qualcuno quando non è nessuno", nell’ultimo tratto dell’omelia del cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente Cei, c’era il segno umano della vita terrena e ultraterrena di Mihajlovic. I mondi di Sinisa, sportivi e religiosi, cattolici e ortodossi, si sono tesi la mano durante il suo funerale, nel suo nome. Lo scambio di discorsi tra il cardinale Zuppi e il vescovo Andrej della chiesa ortodossa serba ha simbolicamente eletto Sinisa patrimonio di squadre, tifosi, popoli legandone la comunione di culti. "Sinisa è nostro, Sinisa è vostro", ha detto Andry portando l’omaggio del patriarca Porfirije. È scoppiato un applauso che non finiva mai, sono scoppiate le lacrime. Doppio rito. I vescovi cattolici hanno benedetto la bara con acqua santa e incenso. I vescovi ortodossi hanno esposto la croce benedizionale e intonato una preghiera cantata.

Il segno. Che ci fosse qualcosa di mistico negli ultimi giorni di vita di Sinisa era chiaro, cosa fosse si è compreso ieri. Come ogni 19 dicembre la chiesa ortodossa onora San Nicola, figura unificante tra cattolici e ortodossi, ogni popolo lo ha fatto proprio per la sua generosità verso i poveri e i bisognosi. "È il santo della famiglia Mihajlovic", ha rivelato il cardinale Zuppi facendo pensare a un disegno divino e invocando il Natale come salvezza: "Sentiamo ingiustizia per questa morte. Ci aiuta, il Natale. Dio nasce per amore e accetta anche la morte per rinascere in cielo... La malattia ci fa pellegrini alla scoperta di sé, Sinisa fece questa esperienza anche durante la guerra, che come diceva aveva un solo colore, il rosso del sangue. Era uomo ruvido, diretto, schietto, ma anche dolce e tenero". Il cardinale, legato a Sinisa da un’amicizia di anni, ha ricordato quella volta in cui nel 2008, durante la prima esperienza di Bologna, Miha volò a Medjugorie: "Mi disse "ho cominciato a piangere come un bambino. E mi sono sentito più forte e più uomo". Ecco chi è davvero grande. Aggiunse "da lì ho iniziato a pregare. Non bisogna dire "voglio, voglio", ma "grazie, grazie". Mi sono sentito appagato, pulito, come se mi fossi tolto di dosso tutti i pesi".

L'insegnamento. L’omelia del cardinale Zuppi è diventata un cantico di vita: "Sinisa non scappava, non è scappato davanti alla malattia. L’ha affrontata con coraggio, parlandone, piangendo davanti a tutti, condividendo la commozione, la speranza, le difficoltà quel passaggio da invulnerabile a fragile». Il cardinale e Sinisa si erano incontrati nel reparto di Ematologia del S.Orsola di Bologna nei primi giorni del combattimento: "Il guerriero, l’orso, ha vinto con la dolcezza della fragilità. Diceva "la verità è che non sono un eroe e neppure superman. Sono uno che quando parlava così si faceva coraggio". Aveva paura, implorava aiuto a Dio, come tutti. Piccolo era diventato grande tanto che diceva "la malattia mi ha reso migliore"". La moglie di Sinisa, Arianna, è stata sempre seduta accanto ai figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan, Nicholas e Marko in una compostezza dolente. Alla destra del feretro la mamma e il fratello di Sinisa, che è nel suo sguardo. Zuppi ha rivelato il sogno di Miha e l’intensità delle emozioni è stata travolgente: "Immaginava di diventare vecchio con tanti nipoti. Poche ore prima di andare in ospedale giocava con la nipotina Violante, diceva ad Arianna "mi sento felice". La sua famiglia era la sua squadra del cuore". Violante, figlia di Virginia, ha poco più di un anno, ieri c’era. Cuore di nonno, cuore di tutti.


► Gli amici con la bara in spalla. Mancini: "Una vita insieme". Molti biancocelesti di oggi e di ieri, poi Totti, De Rossi, Montella, Donnarumma e Pradè. Il Bologna e la Lazio, poi Inter, Samp, Torino: erano in tanti.

Non basta la prima occhiata per capire quanta gente ci sia dentro Piazza della Repubblica, da dove arrivi e fin dove arrivi. Duemila, tremila. Migliaia di tifosi di tutta Italia, decine dalla Serbia. Non tutti sono riusciti ad entrare nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, tempio delle cerimonie ufficiali di Stato, off limits alle telecamere per volontà della famiglia Mihajlovic. Le presenze erano schiaccianti. Il feretro di Sinisa, lasciata la camera ardente del Campidoglio, è arrivato poco dopo le 10 in chiesa accompagnato dalla moglie Arianna, dai figli, dalla madre Viktorija e dal fratello Drazen, in ammirevole compostezza. Tre ore dopo, la bara, drappata con maglie (Lazio, Bologna, Stella Rossa) e con una bandiera della Serbia, ha varcato la soglia della chiesa per essere posta dentro al carro funebre, una cripta verticale. L’hanno portata in spalla Mancini, Stankovic, Attilio Lombardo, De Silvestri e Arnautovic. Poco più dietro Soriano, singhiozzava. Tutti legati da fratellanza. Applausi lunghi e commossi hanno salutato Sinisa. Mancio è rimasto in piedi, alla sinistra del feretro, per tutta la messa: "È stato un onore e un privilegio avere Sinisa come amico, abbiamo passato una vita insieme".

Le squadre. C’era il mondo ieri. La Lazio e il Bologna schierate al completo, guidate dai presidenti Lotito e Saputo, dai tecnici Sarri e Thiago Motta. C’era anche l’aquila Olympia. Il dispiegamento delle istituzioni politiche e calcistiche: il sindaco Gualtieri, i presidenti Malagò (Coni), Gravina (Figc), Ulivieri (associazione allenatori), Montezemolo. I ministri Abodi (Sport) e Lollobrigida (Agricoltura e Sovranità alimentare). Da un lato all’altra della navata, nei posti riservati e nascosti nella folla, si vedevano ovunque giocatori di ieri e di oggi. I laziali Pancaro, Marchegiani, Fiore, Corradi, Marcolin, Peruzzi, Liverani, Jugovic, Gregucci, Piscedda, Giordano, Rambaudi, Sereni. Delio Rossi, uomo del popolo, è rimasto tra i tifosi. I romanisti Totti, entrato per salutare Arianna, poi rimasto in fondo alla chiesa, e De Rossi. Anche Bruno Conti, Di Livio e Di Biagio. C’era Montella, rimasto in piedi accanto alla famiglia d’origine di Sinisa. Svettava la sagoma di Donnarumma, che a Miha deve la gloria. Presenti anche Baresi e Massaro. E poi Sirigu, De Sanctis, Bazzani, Salsano, Nuciari, Burdisso, Cerci. Gli allenatori Juric, Cosmi e Iachini. E ancora Oriali, Riccardo Bigon che con Sinisa ha vissuto gli anni della malattia, Pagliuca, Stefano Torrisi. L’Inter è stata rappresentata dal diesse Ausilio, una corona portava la scritta "famiglia Inzaghi". La Fiorentina dal diesse Pradè. C’era Massimo Ferrero. C’era il manager Pastorello. C’era l’ex pilota Fisichella.

Gli altri. Non poteva mancare Gianni Morandi, ancora provato: "Credevo che ce l’avresti fatta". Urbano Cairo, presidente del Torino, ha trovato posto davanti a Lotito. Carissimi nemici, si sono stretti la mano, hanno parlottato. "Lanciava i giovani, li sosteneva finché camminavano da soli", le parole del patron granata. Ha emozionato l’ex pugile Cantatore, è stato collaboratore di Sinisa a Bologna. Ha poggiato sul feretro la cintura di campione e durante la messa ha dedicato un messaggio a Miha. Tra i banchi Gianluca Vacchi, imprenditore e re di Instagram, e Paolo Brosio. In rappresentanza del Governo serbo Zoran Gajić, ministro dello sport, ha parlato anche a nome della Federazione serba: "Mihajlovic fa parte dei successi della Stella Rossa e del nostro calcio, fa parte della cultura calcistica della Penisola italiana. Ed è sia nostro che loro". "Sinisa non sarai dimenticato", è lo striscione firmato ultras Lazio. "E se tira Sinisa è gol", il coro tra i fumogeni. Sinisa riposa fra nomi illustri al cimitero monumentale del Verano. Di quell’uomo, una statua da guerriero.


• Da Il Messaggero del 20 dicembre 2022:

► In migliaia per Sinisa, anche Totti al funerale. Mancini: era un fratello. Alle esequie a Roma campioni, familiari e una distesa di tifosi: "È sempre con noi". L’omelia del cardinale Zuppi: "Il guerriero ha vinto con la dolcezza della sua fragilità".

Giace il guerriero, ma il ricordo resta vivido. E questo coro sarà eterno: "E se tira Sinisa, e se tira Sinisa è gol". Si spegne così l’ultimo saluto a Mihajlovic mentre le lacrime sciolgono ancora le nuvole di fumogeni e le braccia sono freezate verso il cielo. La Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri si trasforma in uno stadio, il traffico di piazza della Repubblica per due ore è ipnotizzato e paralizzato. Sinisa, l’amico di tutti è di nuovo al centro, come nella camera ardente in Campidoglio, coperto dal drappo della Serbia, dalle maglie e dalle sciarpe delle squadre che ha vissuto (Stella Rossa, Roma, Samp, Lazio, Inter), che ha guidato (Torino, Milan, Bologna) e sfidato. Tutte insieme formano un rosario. Pregano la moglie Arianna e la mamma Viktorija, le sue marie con l’occhiale nero, in prima fila al fianco dei sei figli (presente anche Marko, nato dalla precedente relazione con Giovanna Bagordo) e del fratello. Sulla bara giganteggia ancora una foto del serbo, che sorride alla vita prima che facesse a lui, e a tutti quelli che lo amavano, questo scherzo amaro.

L'abbraccio. Un autentico bagno di folla ieri per dirgli addio. Amici, conoscenti, semplici tifosi, dirigenti ed ex compagni uniti in un lungo e commosso applauso sino all’uscita della bara portata da De Silvestri, Stankovic, Arnautovic, il ct Mancini, Vincenzo Cantatore e Roberto Soriano. Oltre tremila persone in corteo. La Lazio dello scudetto, la squadra amata a cui era devoto. Il Bologna, la squadra che non ha lasciato mai, nemmeno quando la malattia lo stava travolgendo. La Fiorentina, il Torino. La Samp, vissuta da giocatore e allenatore, e oggi nelle mani di Dejan Stankovic, il suo figlioccio tornato dal ritiro in Antalya e distrutto in un angolo. Ci sono veramente tutti, al completo: il ministro per lo sport Andrea Abodi, i presidenti del Coni Giovanni Malagó, della Figc Gabriele Gravina e dei club Lotito, Ferrero e Cairo, ma anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, Bruno Conti, Totti e De Rossi, che infilano l’ingresso laterale col volto visibilmente scosso. I due preferiscono rimanere fuori dalla zona riservata ad autorità e familiari, rimangono in piedi accanto ad Angelo Di Livio. Presente anche Gianni Morandi e altri personaggi dello spettacolo. In fondo Mihajlovic non apparteneva solo al calcio, era uno showman innato, mostrando - vedi Sanremo - semplicemente se stesso.

Parole al cuore. Incisiva l’omelia del cardinale Matteo Maria Zuppi, l’arcivescovo di Bologna che celebra l’ultimo rito: "Con tante domande accompagniamo in quest’ultimo tratto Sinisa... Togliamo tante pietre dal nostro cuore". La famiglia dovrà convivere con questo dolore temuto, ma in fondo sempre inaspettato: "Era la sua squadra del cuore e per quella squadra dava tutto. È rimasto lo stesso: ruvido, schietto, generoso. E allo stesso tempo dolce e tenero". Toccante il passaggio sulla malattia, la bestia contro cui Mihajlovic ha provato a combattere fino all’ultimo: "Le fragilità non sono ostacoli ma opportunità. Sinisa non scappava, l’ha affrontata con coraggio e credo che ha dato tanto coraggio parlandone, piangendo davanti agli altri, condividendo il passaggio verso la fragilità. Il guerriero ha vinto con la dolcezza della fragilità. La fragilità è una porta, non un muro. Voglio dire a tutte le persone di non abbattersi". E poi ancora l’appello: "Oggi sentiamo l’ingiustizia, nei nostri pensieri ci aiuta il Natale, Dio nasce per amore e accetta anche la morte per rinascere in cielo. Dio vuole che la morte, che è sempre ingiusta, non sia la fine ma la nascita. La malattia ci fa pellegrini alla scoperta di sé, Sinisa fece questa esperienza anche durante la guerra, che aveva un solo colore, il rosso del sangue, e aveva ragione. Grande è chi aiuta e ama la sua squadra, chi valorizza il talento, chi crede in lui quando non è nessuno, Sinisa lo ha fatto. Contro il vero grande nemico disonesto che è il male, è questa la squadra che serve. La famiglia di Sinisa era la sua squadra del cuore, amato fino alla fine". Un’ora e mezzo di funzione. Alla benedizione del feretro, alla quale partecipa il vescovo serbo, in una comunione anche religiosa. Commovente l’intervento dell’ex pugile Vincenzo Cantatore, un passato nello staff tecnico del Bologna e grande amico di Sinisa, anticipato dalle parole di un rappresentante del governo serbo che esprime vicinanza alla famiglia per questo lutto immenso.

Cori e fumogeni. La bara esce dalla Basilica portata a spalla dal ct Mancini: "È stato un onore e un privilegio averlo come amico: abbiamo passato una vita insieme, perdo un fratello", da Attilio Lombardo ex centrocampista della Sampdoria, da Stankovic e dall’ex pugile Vincenzo Cantatore. E stavolta l’applauso è di tutti i tremila della piazza, senza colori, uniti in un dolore unico. Gli Ultras biancocelesti fuori ad attendere il feretro con uno striscione esposto: "Sinisa non sarai dimenticato, onore a chi gli amici non ha mai rinnegato". Brividi forti, applausi infiniti. Poi l’assordante silenzio mentre la macchina con Sinisa si allontana per raggiungere il Verano dove il serbo è stato sepolto. Un viaggio a senso solo, ma il ricordo di questo grande uomo tornerà sempre indietro. Mihajlovic ora è eterno.


• Da Il Tempo del 20 dicembre 2022:

► Bagno di folla per l’addio a Sinisa. Piazza della Repubblica gremita di tifosi e amici. La Capitale si stringe alla famiglia nell’ultimo saluto a Mihajlovic.

Tante lacrime, anche qualche sorriso. Il sole ieri mattina non ha mai smesso di illuminare piazza della Repubblica, a riscaldare il cuore delle centinaia di persone però è stato il ricordo di Sinisa Mihajlovic. Funerali in grande stile, merito di quanto fatto nei suoi 53 anni di vita. L’ex calciatore e allenatore ha avuto il merito di mettere tutti d’accordo, almeno per un giorno. Alla cerimonia, iniziata alle 11.30 in punto, erano presenti rappresentanti di tutti i club in cui ha militato come giocatore e come tecnico. C’era la Lazio al gran completo, con il presidente Claudio Lotito in primis. Accanto a lui mister Sarri, capitan Immobile e il direttore sportivo Igli Tare. Tra i più toccati e commossi Milinkovic, connazionale di Sinisa, e Romagnoli, che lo ha avuto come guida sia alla Sampdoria che al Milan. Al biancoceleste si è mischiato il giallorosso. Totti e De Rossi hanno partecipato all'intera funzione, qualche passo più in là Angelo Di Livio e Bruno Conti. Anche il Bologna, ultima società in cui ha allenato, è arrivato con tutta la rosa al seguito. Presenti anche personaggi di spicco del mondo politico, dal sindaco Gualtieri al ministro dello sport Abodi. Infinito l'elenco invece degli ex compagni di squadra: da Fiore a Corradi, passando per Negro, Pancaro, Liverani, Marchegiani, Lombardo e Jugovic. Il momento di maggior commozione quando, al termine della messa, la bara ha lasciato la basilica. A trasportarla in prima fila il ct della Nazionale, Roberto Mancini, e il suo grande amico Dejan Stankovic.

A celebrazione finita, il diesse Tare ha rilasciato qualche battuta: "Un grande uomo prima di tutto. Ha dato tantissimo al calcio non solo italiano e quello mondiale. Lo ricordo con grande rispetto, come grande giocatore e grande uomo". Non poteva mancare il ricordo di Urbano Cairo: "È un grande amico, una persona alla quale ero molto legato. Sono state dette cose talmente belle nell'omelia del Cardinale e dal Ministro dello Sport serbo che è veramente difficile aggiungere altro. Lavorare con lui? Era un grande, molto simpatico. Lanciava i giovani e li sosteneva. Quando succedeva poi, quel giovane veniva difeso fino alla fine. Lascia un grande ricordo". Fuori dalla Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri una serie infinita di corone di fiori e di striscioni. Al momento della partenza del carro funebre il coro degli Ultras Lazio per salutare Mihajlovic. "Sinisa non sarai dimenticato! Onore a chi gli amici non ha mai rinnegato", il messaggio fuori dalla chiesa che racchiude una giornata intera.


• Dalla Gazzetta dello Sport del 20 dicembre 2022:

► Sinisa, il campione di tutti. Lacrime, tifosi, campioni e la toccante omelia "Nonhamaimollato". Migliaia di persone a Roma per il funerale di Mihajlovic. Da Mancini a Stankovic e Totti: l’ultimo saluto all’amico.

Ci sono due scene che rimangono più impresse delle altre in questa mattinata dolce e struggente in cui Roma dice ciao a Sinisa Mihajlovic. Una è quando, all’interno della basilica di Santa Maria degli Angeli e Martiri, Emanuela, tifosissima della Lazio e vestita tutta di biancoceleste si rivolge commossa a Francesco Totti per dirgli che per lei vederlo qui, a salutare il suo idolo, "è una cosa grande". L’uomo simbolo della Roma, compagno di Sinisa nell’anno del suo esordio in A ma poi avversario in tanti derby, la ringrazia con gli occhi. Poi, segue la cerimonia fuori dalla zona delle autorità, degli amici stretti della famiglia, insieme con Daniele De Rossi, Angelo Di Livio e altri amici. C’è poi un doppio momento quando il cardinale Matteo Zuppi, che celebra l’omelia, e il vescovo della chiesa ortodossa serba Andrej, entrano ed escono insieme. Un gesto di grande forza se solo si pensa che pure le divisioni religiose furono alla base di quelle guerre jugoslave che Mihajlovic vide scoppiare praticamente sulla soglia di casa. Prima che cominci la cerimonia funebre arriva anche la croce di legno che secondo i riti della chiesa serbo-ortodossa accompagna la persona che è scomparsa. "È il giorno di San Nicola, il santo della famiglia Mihajlovic", dice ancora il cardinal Zuppi annunciando il messaggio del patriarca serbo Porfirje che sarà letto più tardi.

Grande è chi... L’omelia è avvolgente. Il cardinal Zuppi ricorda l’incontro con Mihajlovic nei primi giorni del ricovero al Sant’Orsola di Bologna e ringrazia tutti i medici che si sono spesi per aiutare Sinisa, "una squadra che lo ha anche accompagnato con competenza e passione". E di squadre continua a parlare riferendosi al mestiere di Mihajlovic: "Grande è chi aiuta e ama la sua squadra, chi valorizza il talento, chi crede in lui quando non è nessuno". Fra chi ascolta deve pensarci anche Gigio Donnarumma, lanciato da Mihajlovic a 16 anni nel Milan. Ci sono tanti occhi lucidi, tante sciarpe, tanti colori. Si potrebbero formare tante squadre di calcio con tutti quelli che sono presenti: il Bologna, la Lazio, per un attimo compare l’aquila Olympia, la Stella Rossa, e poi Franco Baresi, Massaro, Salsano, Lombardo, Marchegiani, Stankovic, Jugovic, Montella, Peruzzi, Cerci, Negro, Sirigu, Orsi. Ma sicuramente dimentichiamo qualcuno.

Pianti, e forza. Poi c’è la sua squadra del cuore. "Che ha giocato come voleva lui fino alla fine - racconta ancora il cardinal Zuppi - poche ore prima in clinica Arianna giocava con Violante e mi ha commosso. Per quella squadra dava tutto. Sinisa è rimasto lo stesso, sempre: ruvido, schietto, generoso, e pure dolce e tenero". Mihajlovic era anche andato a Medjugorije. "E ha cominciato a piangere come un bambino. Quel giorno disse: "Non riuscivo a trattenermi e mi sono sentito più forte e più uomo quel giorno che in tutta la vita". Anche davanti alla malattia Sinisa non è scappato. L’ha affrontata con il coraggio. Parlandone e piangendone. Diceva: non sono superman ma devo combattere e non mollare mai".

"Un onore". Fra chi ascolta c’è anche Gianni Morandi, l’amico che c’era anche quel giorno in cui si fece festa a due anni dal trapianto. Il cantante dice che si erano sentiti una settimana prima che cominciasse la maledetta infezione che ha aggredito il corpo dell’amico. E amico è stato anche Vincenzo Cantatore, il pugile, coinvolto nella preparazione atletica del Bologna tre anni fa, invaso dal dolore e dalla commozione: "È stato semplicemente un guerriero". Poi viene il momento di portare a spalla il feretro. Si incaricano di farlo con Cantatore anche Stankovic, Lombardo, De Silvestri, Arnautovic. E Roberto Mancini. "È stato un onore - dice fuori dalla Basilica il c.t. - un privilegio per me essere suo amico. Provo un gran dispiacere. Siamo stati una vita insieme, un’amicizia fraterna".

All’Olimpico. Ci sono anche altri personaggi dello sport e della politica: il sindaco Roberto Gualtieri, il ministro dello Sport Andrea Abodi, e poi Malagò, Gravina, Montezemolo. Igli Tare, il direttore sportivo biancoceleste, ricorda che "si è trattato di un uomo che ha dato tanto al calcio italiano e a quello mondiale". Fuori, c’è anche un momento in cui piazza della Repubblica sa un po’ di stadio Olimpico. Già, l’Olimpico. Manca solo lui, lui che è stato testimone di tante imprese di Miha, quello del 14 maggio del 2000, il giorno dello scudetto della Lazio, quello che poco tempo fa l’aveva salutato come uno di casa quando il Bologna era venuto a giocare. Ma lui, l’Olimpico, in realtà aveva salutato prima degli altri Sinisa. Intorno alle 9.30, lontano dalla folla che lo aspettava per il funerale, l’auto con il feretro di Sinisa per volere dei familiari è entrata per un attimo nello stadio sostando davanti alla Tribuna Monte Mario. Un altro ciao, però confidenziale, a Sinisa. Firmato da uno stadio in cui l’allenatore serbo si è divertito e ha fatto divertire tanta gente.



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