D'Amico Vincenzo

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Vincenzo D'Amico
D'Amico con la Primavera del 1971-72
La squadra degli Allievi Provinciali C.O.S. Latina del 1967 con un giovanissimo D'Amico. Da sin. in piedi: l'allenatore Antonelli, Bruschi, Tobaldi, Giancola, Latini, Guercio, Drigo, Agostini; in ginocchio da sin. Forcina, Panigutti, Miranda, Ulgiati, D'Amico, Stefani.
(Foto donata dal sig. Roberto Tobaldi)
Un'altra immagine di Vincenzo D'Amico
In ospedale dopo l'infortunio
L'esordio di Vincenzo D'Amico contro il Modena
D'Amico con i tifosi
Un giovane Vincenzo D'Amico
In copertina sull'Intrepido
D'Amico in divisa
In ritiro a Padula
Un giovanissimo D'Amico, è il 1971, premia il veterano Nello Governato. A destra assiste Angelo Lenzini
Un diciassettenne D'Amico stringe, emozionato, la mano a Giorgio Chinaglia. E' il 1971
Vincenzino in azione
Vincenzino è portato in trionfo sotto la sede di via Col di Lana. E' il giugno 1981
Con la Nazionale Giovanile
In Nazionale Giovanile
Vincenzo con Fulvio Bernardini
Vincenzino D'Amico con lo scudetto sul petto

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Biografia[modifica | modifica sorgente]

Vincenzo D'Amico nasce a Latina il 5 novembre 1954 e da molti addetti ai lavori è considerato l'ultima bandiera biancoceleste per il suo attaccamento alla maglia e alla Società. Muore a Roma il 1 luglio 2023. Era soprannominato affettuosamente dai tifosi laziali inizialmente "Cencio" e in seguito "Vincenzino".


Un giovane talento[modifica | modifica sorgente]

Un divertente aneddoto riguarda la data di nascita di Vincenzo. Il padre lo registrò all'anagrafe solo il giorno dopo scordandosi di specificare che era nato il 5. L'addetto comunale registrò la data con il giorno 6, per questo molti almanacchi riportano questa data e non quella vera. Già in adolescenza il pallone è parte indissolubile delle sue giornate dopo la scuola. Ci si accorge subito che il ragazzo ha talento, ma è anche irrequieto e ogni tanto, come è giusto per i bambini della sua età, compie qualche monelleria per la disperazione dei genitori. La classe cristallina lo porta a giocare giovanissimo per la squadra degli allievi provinciali C.O.S. Latina e poi nell'Almas e, dopo un interessamento della Roma, giunge alla Lazio nel 1970 dove segue la solita trafila delle giovanili mettendosi in mostra per il tocco di palla vellutato ed una visione di gioco fuori dal comune per un ragazzino così giovane. E' però molto indisciplinato e tende ad ingrassare e non sono poche le volte in cui viene messo a dieta ed invitato a fare una vita da atleta. Ma la gola a volte è più forte e a tavola non si sa contenere. Ma sono peccati veniali per un giocatore che da solo riesce a risolvere le partite più difficili con i pari età.


Da un grave infortunio a rivelazione del campionato[modifica | modifica sorgente]

Il giovane Vincenzo si fa largo progressivamente nelle squadre minori ma subisce un primo serio infortunio. Comunque viene segnalato a Tommaso Maestrelli che va a visionarlo rimanendo incantato dal suo modo di giocare sopraffino ed intelligente. Nell'ultima parte della stagione 1971/72 viene aggregato alla prima squadra e il 21 maggio 1971 esordisce da titolare in Serie B contro il Modena con la maglia numero 11 e gioca una bella gara. Non ha ancora 17 anni. Viene poi convocato nella nazionale Juniores dove disputa 5 partite. Sembra così lanciato per il grande salto ma un secondo infortunio al ginocchio, più grave del precedente e riportato il 5 ottobre 1972 nel corso di un'amichevole a Rieti, lo costringe a saltare tutta la stagione 1972/73 rischiando di finire anticipatamente la carriera. Solo grazie alle cure mediche e alla forte fibra questo pericolo viene scongiurato.

Alla ripresa dell'attività agonistica viene nuovamente convocato (con 5 presenze) nella Nazionale Juniores nel Torneo Europeo dell'UEFA del 1973. Ritorna in prima squadra all'indomani dell'indimenticabile campionato che aveva visto la Lazio sfiorare lo Scudetto. Maestrelli lo porta in ritiro a Pievepelago per dargli un'altra chance e valutarne le capacità di recupero dopo la forzata inattività dovuta all'incidente dell'anno prima. Il ragazzino si mette subito in luce e si fa notare anche dai compagni che gli fanno da chioccia tenendolo fuori dai clan e dalle liti che si scatenano negli spogliatoi ed in campo. Viene poi convocato nella Nazionale Under 21 dove gioca una partita. E quattro giorni dopo, alla 2^ giornata, il 14 ottobre in occasione della gara contro i blucerchiati della Sampdoria, arriva il sospirato esordio nella massima serie in una gara spigolosa in cui sostituisce al 69° Re Cecconi.


Campione d'Italia a 19 anni[modifica | modifica sorgente]

Il ragazzino (è l'appellativo datogli dai compagni) si fa strada a forza di colpi di classe non indifferenti, ma Maestrelli il più delle volte lo deve calmare per frenarne l'esuberanza agonistica ed emotiva. L'allenatore gli sequestra la patente per evitare che la sera esca con qualche ragazza e gli mette alle calcagna capitan Wilson con il compito di controllare che a cena non mangi troppo. Anni dopo D'Amico, in un'intervista, ammetterà: "All'epoca mi sentivo un deficiente: senza patente, senza soldi" (Maestrelli per evitare che spendesse troppo gli fece versare l'ingaggio ed i premi in un conto vincolato a suo nome) "e controllato a tavola; ma devo la mia carriera al Maestro, egli aveva ragione". La prima partita da titolare la gioca contro l'Inter nella 6^ giornata e da quel momento la squadra punta su di lui e sulle sue discese a sinistra. Ha un momento di sbandamento nel derby di andata, tant'è che Maestrelli lo deve sostituire con Franzoni all'inizio della ripresa. Forse ha sentito troppo la stracittadina ma è giovane e gli si perdona tutto.

Già la domenica successiva è di nuovo in campo col numero 11 contro il Napoli capolista ed è uno dei protagonisti in campo. Pian piano anche il resto dell'Italia calcistica si accorge di lui e la stampa inizia a seguirne con attenzione le partite, giocate sempre con attaccamento e dedizione alla causa biancoceleste. Maestrelli è attento a non bruciarlo facendogli capire molte cose e predicandogli modestia. Il ragazzo apprende bene gli insegnamenti dell'allenatore e cresce di partita in partita. La Lazio va in testa alla classifica anche grazie alla sua classe ed ai suoi assist.

Domenica 27 gennaio 1974 contro il Bologna arriva per Vincenzino (il soprannome datogli questa volta dai tifosi) il sospirato primo gol in Serie A. La Lazio è in vantaggio per 1-0, quando un'azione imperiosa di Giorgio Chinaglia, smarca di tacco la giovane ala che a porta vuota da pochi passi infila la rete felsinea. D'Amico si mette le mani sugli occhi e scoppia a piangere incredulo, abbracciato dai compagni. Ormai sente sua quella maglia e la gente laziale lo riempe d'amore e d'affetto.

Due mesi dopo il primo goal arriva il secondo, forse ancora più importante per lui e per il campionato. E' il 31 marzo e si sta giocando il derby di ritorno. La Lazio è sotto per una contestatissima rete quando rientra in campo per il secondo tempo. Al 47° dopo vari rimpalli in area, la palla giunge al ragazzo che non ci pensa due volte e tira fulminando il portiere Conti. Stavolta niente pianti, ma palla messa subito al centro per attaccare ancora. E tre minuti dopo la Lazio è avanti per 2-1, con il ragazzo imprendibile e migliore in campo. Viene poi convocato nella nazionale Under 23 dove gioca una partita realizzando un goal. E' un crescendo di prestazioni maiuscole, fino alla decisiva gara contro il Foggia il 12 maggio quando la Lazio si gioca il tricolore. Anche lui va in campo nervoso, anche se la giovane età ed il carattere gli regalano un pizzico d'incoscienza di fronte ad un avvenimento che tutti aspettavano da 74 anni. Colpisce un palo e cerca in tutti i modi di contribuire alla vittoria. Verso la fine dell'incontro non disdegna di buttare qualche pallone in tribuna per perder tempo e, alle 17:45, si laurea Campione d'Italia a 19 anni. Verrà premiato come il miglior giocatore esordiente della Serie A e miglior giovane (premio "Calciatore d'oro").


Una bandiera per tutte le stagioni[modifica | modifica sorgente]

Maestrelli raccomanda sempre l'umiltà ed il ragazzo (ribattezzato "Golden Boy") ormai ha capito la lezione. Unico suo difetto è la buona tavola che mal si coniuga con la tendenza ad ingrassare ma anche lì, ormai, riesce a contenersi e sembra aver messo la testa sulle spalle. La Lazio acquista però nel calciomercato Roberto Badiani che gli toglie spazio in squadra nella stagione successiva. Un errore che viene corretto in corso di stagione, ma fino all'11^ giornata della stagione 1974/75 gioca poco e mai da titolare (eccetto il derby dell'ottava giornata). Pecca ancora d'innocenza come a Milano contro l'Inter quando, sotto di due reti, si mette a ridere vedendo Chinaglia vittima di un tunnel da parte di Sandro Mazzola. Chinaglia, irritato per l'accaduto, gli rifila un calcione nel sedere e lo invita ad avere più rispetto e ad impegnarsi di più. Gioca invece da titolare quattro partite nella Nazionale Under 23. Purtroppo la malattia di Maestrelli non permette alla Lazio di bissare i fasti della stagione precedente e anche D'Amico cade nella frustrazione della squadra che vede spegnersi l'amato allenatore macerato da un male incurabile. Il campionato 1975/76 è travagliato, con la Lazio che rischia la retrocessione ma che si salva grazie al ritorno di Maestrelli che sostituiva il contestato Giulio Corsini e che vede D'Amico battersi come un leone arretrando a centrocampo il suo raggio d'azione. Gioca una partita nella nazionale Under 23 e quattro partite (con tre reti) nella Nazionale Militare.

Nel 1976/77, con la Lazio di nuovo protagonista, D'Amico gioca da campione trovandosi perfettamente a suo agio con Bruno Giordano, nuovo bomber biancazzurro che, grazie ai suoi assist, segna reti a ripetizione. Gioca una partita con la Nazionale B Sperimentale (che prende il posto della Under 23). La carriera sembra ad una svolta ma un altro grave infortunio subito nella gara contro il Boavista in Coppa UEFA lo mette fuori squadra per il resto della stagione. Nell'estate del 1978 sta per essere ceduto all'Inter ma rifiuta categoricamente il trasferimento e si mette a disposizione della squadra biancoceleste. Gli anni passano veloci ed alla fine di marzo del 1980 si ritrova, praticamente da solo, con un manipolo di ragazzini a combattere per non retrocedere, dopo che alcuni compagni furono arrestati per lo scandalo delle Scommesse clandestine. Epica è la decisiva partita contro il Catanzaro che vince praticamente da solo.


Vincenzo nel Torino

Un anno a Torino[modifica | modifica sorgente]

La Lazio si salva sul campo ma retrocede a tavolino. Umberto Lenzini è rovinato e deve cedere il suo gioiello per non fallire. A malincuore D'Amico è costretto ad accordarsi con il Torino. Il passaggio in granata è a dir poco traumatico perché non riesce ad ambientarsi e soffre di nostalgia. Gioca però bene anche se finisce molte volte in panchina. Arriva anche la chiamata in azzurro (due convocazioni per le partite contro Lussemburgo e Danimarca nel 1980), ma dura poco e non gioca mai. Alcune sue dichiarazioni contro il C.T. Enzo Bearzot, poi, gli chiudono definitivamente le porte della Nazionale. Già a marzo a Torino sanno che se ne vuole andare: "O torno alla Lazio o smetto di giocare" è il tono con cui affronta la dirigenza granata che alla fine lo deve accontentare. E nel giugno 1981 è portato in trionfo dai tifosi biancazzurri sotto la sede di Via Col di Lana.


Vincenzo D'Amico capitano

Gli ultimi anni con la Lazio[modifica | modifica sorgente]

Il ritorno alla Lazio coincide con uno degli anni più bui dei biancazzurri: il campionato 1981/82. A D'Amico viene data la fascia di capitano ma le cose vanno male. Viene anche espulso in una gara con il Palermo e pesantemente squalificato. La squadra rischia la retrocessione in Serie C ma, grazie ad una partita magistrale contro il Varese in cui D'Amico segna una tripletta, i biancazzurri si salvano. Fortunatamente con i rientri di Giordano e Manfredonia, graziati dopo la squalifica per le vicende del calcio-scommesse, nel 1983 la Lazio poté festeggiare la promozione nella massima serie. Il ritorno di Giorgio Chinaglia nelle vesti di Presidente sembrava inoltre aprire nuovi orizzonti, ma era una falsa illusione. Nella stagione 1983/84, dopo l'infortunio di Giordano, D'Amico riprese la Lazio per mano e grazie alle sue prestazioni e ai suoi goal riuscì a portarla alla salvezza proprio quando ormai nessuno ci credeva più. Ma nella stagione seguente nulla poté per evitare un umiliante ultimo posto e la conseguente retrocessione. L'ultimo anno in biancazzurro fu il 1985/86. Trova poco spazio, anche a causa di un infortunio, a metà ottobre, alla cartilagine del ginocchio ed alla fine della stagione lasciò la Lazio, dopo 276 presenze in campionato e 40 reti. Gioca gli ultimi scampoli d'attività nella Ternana. Due stagioni in serie C2 (56 partite e 20 reti): nella prima 27 presenze e 13 reti, nella seconda 29 partite e 7 reti. Poi, a causa di un altro grave infortunio, dovette definitivamente abbandonare il calcio giocato dopo oltre 15 anni di attività.


Vincenzo D'Amico nei panni di commentatore sportivo
Vincenzo commentatore dei Mondiali di calcio brasiliani 2014

La carriera giornalistica[modifica | modifica sorgente]

Il ragazzino è diventato uomo e non è il tipo da andare in pensione vivendo di ricordi. Dopo una parentesi come allenatore del settore giovanile della Lazio, inizia a fare l'opinionista nelle Tv private della Capitale, dove è notato dai vertici della Rai. Il passo è breve e comincia a lavorare per la televisione di Stato. Inizia anche a commentare le partite in diretta, apprezzato e stimato da tutti. Il 14 maggio 2000 è opinionista Tv a Domenica Sprint. La trasmissione va in onda dopo la fine tumultuosa della partita di Perugia. Sembra debba scoppiare, come uno che volesse urlare la sua gioia per la conquista del secondo Scudetto della sua Lazio. In diretta dice: "In questo momento faccio il professionista, ma appena la trasmissione finisce, farò come Fantozzi....urlerò di gioia!". E' opinionista e commentatore televisivo sia in Rai sia in una nota trasmissione di una Tv privata romana, dove non smette mai di difendere la sua Lazio ma anche capace, in taluni frangenti, di essere molto critico. Nel 2007 diventa presidente della Virtus Latina, e nell'agosto 2009 assume la carica di direttore generale dell'Adrano (CT) che milita nel girone I della serie D. Successivamente opera come commentatore tecnico per le partite trasmesse dalla Rai. Nel 2019, ormai in pensione, va a vivere sull'isola portoghese di Madeira.


In compagnia del caro amico Raffaele Galli: è l'ultima foto pubblica di Vincenzo D'Amico

Il 6 maggio 2023 rivela sulla sua pagina Facebook di essere affetto da un cancro. Il 1 luglio 2023 si spegne, al Policlinico Agostino Gemelli di Roma, per la rapida evoluzione del tumore ai polmoni che l'aveva colpito due anni prima. La camera ardente di D'Amico viene predisposta nel pomeriggio del 3 luglio in Campidoglio, mentre nella mattinata del 4 luglio si svolgono i funerali nella Chiesa della Gran Madre di Dio in Piazzale di Ponte Milvio a Roma. Il giorno successivo, 5 luglio, viene celebrata nella sua Latina un'altra funzione religiosa nella gremita chiesa di Santa Maria Goretti. La città pontina, per la stessa giornata, proclama il lutto cittadino in memoria di Vincenzo.



La prima pagina del Corriere dello Sport del 2 luglio 2023
Una significativa immagine di Vincenzo D'Amico scelta dal Corriere dello Sport del 2 luglio 2023 all'indomani della scomparsa del campione biancoceleste: è il derby dell'11 novembre 1984 (Roma-Lazio 0-0) e Vincenzo, sostituito all'88', si accomoda ai piedi della panchina romanista tra Carlo Ancelotti e Roberto Pruzzo

Così il Corriere dello Sport del 2 luglio 2023 ricorda Vincenzo dopo la scomparsa in questa serie di articoli:

L'aquila ha perso un'ala. Addio a D’Amico, talento della Lazio scudetto ‘74. Ha lottato per due anni, nell’ultimo mese si era aggravato. Giovedì il ricovero a Roma. Aveva tenuto segreta la malattia fino a maggio. Per tutti era "Vince" o Vincenzino. Da giorni ricoverato al Gemelli per un tumore, è morto ieri pomeriggio. Il pubblico televisivo lo ricorda come opinionista Rai. Una vita in biancoceleste, aveva 68 anni.

Aveva un cuore molto grande, Vincenzo D’Amico. L’ala da favola. Da venerdì batteva sempre più flebile dentro a un corpo estenuato dal tumore, dal tormento di una malattia lunga due anni, che non gli ha dato tregua, rivelata pubblicamente solo a maggio. Era ricoverato al Gemelli da giovedì, il quadro clinico era precipitato, da Latina era stato trasportato a Roma. Venerdì non era più cosciente. È morto ieri pomeriggio a 68 anni, in una giornata romana soffocata da una cappa plumbea, l’impazzimento del tempo in un sabato triste. Oggi si conosceranno luogo e data delle esequie, sarà la famiglia a comunicarli. La sua morte scava un altro vuoto nel cuore dei laziali.

L’amore. Accanto a Vincenzo c’è sempre stata Simona, la moglie. Ci sono stati i figli Matteo, Nicolò e Alessandro. "Questa mattina c’era tanto amore intorno a te", sono state le uniche parole che Bruno Giordano è riuscito ad esprimere, non ha avuto la forza di aggiungere altro. Al Gemelli, ieri mattina, c’erano lui e Giancarlo Oddi, accorsi per stare umanamente e fisicamente vicini a Vince. Erano legati dalla lazialità che sa essere più forte della fraternità della pelle.

Il dribbling. Sempre elegante, Golden D’Amico. Quanta delicatezza nel suo tocco e nell’anima. La sua forza buona lo aveva spinto ad affrontare il tumore senza dirlo, senza mostrarlo. Quasi un dribbling per evitare le curve del dolore, per non guastare la magia. Sapevano in pochi, ma tra chi sapeva nessuno s’aspettava una fine così improvvisa. Troppo presto, ripetono tutti. Quando il 6 maggio Vincenzo s’era deciso a scrivere quel post rivelatore su Facebook era ancora speranzoso, lottava soffrendo: "Mi dicono che i malati oncologici tirano fuori forze inaspettate! Io ci sto provando". Da campione era diventato sfidante. Più combatteva, più veniva attaccato. Si è aggravato nelle settimane successive. "Sto un po’ bene e un po’ male. Ora male", è l’ultimo messaggio ricevuto dal professor Pino Capua, pochi giorni prima del ricovero, da anni erano fraternamente vicini.

La battaglia. Vincenzo aveva scoperto di essere malato due anni fa, poco dopo aver lasciato l’Italia per vivere in Portogallo, sull’isola di Madeira, è quella di Cristiano Ronaldo. Le apparizioni tv da commentatore Rai erano state sostituite da interventi telefonici o da remoto. Senza mai perdere il suo telegenico spirito e la sua solare sagacia raccontava la scelta che l’aveva portato a vivere in Portogallo: "Mi andava di fare una nuova esperienza, non l’ho potuta fare da calciatore e ho voluto farla ora. Volevo dare una svolta alla mia vita che stava diventando noiosa. Ne ho parlato con mia moglie, che ha un figlio di 14 anni e voleva andare a studiare all’estero, e allora abbiamo deciso di andare a vivere a Madeira. Dicono che ci sono andato perchè prendo di più di pensione. Sì, prendo più di pensione ma spendo molto di più per la scuola del ragazzo di quanto avrei speso in Italia". Si curava in Italia, tornava a Latina per sottoporsi alle cure, rientrava in Portogallo appena terminate. Spesso, quando era a Latina, raggiungeva Roma, si recava all’Olimpico per vedere la Lazio, la sua fede è sempre stata eroica. L’ultima volta è successo l’8 aprile scorso, si giocava Lazio-Juventus (2-1). C’è una foto che ritrae D’Amico accanto a Francesco Maiolini, ad di Banca del Fucino, e Massimo Piscedda. Maiolini era un suo grande amico, a lui Vince aveva donato il Calciatore d’oro, uno dei premi più celebrativi vinti in carriera. Maiolini gli disse subito che l’avrebbe solo custodito in banca. Diventerà un cimelio, lo consegnerà alla famiglia. In quella foto scattata nella Tribuna dell’Olimpico la malattia di Vincenzo sembra non esserci. Piscedda ha ricordato ieri quell’incontro: "Ci siamo visti allo stadio, non lo vedevo da un po’ di tempo. Vincenzo era un uomo profondamente buono, aveva la capacità di farsi volere bene. Era trasparente verso tutti ed è una perdita per tutti, abbiamo perso un caro amico al di là della grandezza del giocatore. È stato uno dei migliori talenti avuti dalla Lazio".

Il segreto. Occhi gonfi, come il cuore, volti segnati, quelli di tutti i laziali, giocatori e tifosi. Perché Vincenzo era sempre lo stesso ed era sempre se stesso. Anche lui ha dovuto fare i conti con la furia distruttiva che ha colpito la Lazio degli eroi del 1974. Eroi troppo fragili, troppo mortali, trascinati dal destino come quelli greci. Vincenzino era il più piccolo della banda Maestrelli, aveva 19 anni all’epoca dello scudetto e per tutti aveva sempre mantenuto quel sorriso da ragazzino. "Golden boy, talento puro, cocco di Babbo, fratello", così lo ha ricordato Massimo Maestrelli su Instagram. Qual è il segreto per rimanere giovani?, chiedevano a D’Amico dopo ogni intervista. "Affrontare la vita con leggerezza e col sorriso, sempre", la risposta. La Lazio di Maestrelli, i laziali della generazione ‘74, la ritrovano sempre negli stessi luoghi, la vedranno sempre con le stesse facce. Ma senza il ragazzino Vincenzino da ieri si sentono tutti un po’ meno bambini.


Ha vissuto come ha voluto. Dicevano: poteva diventare un dio. Ma lui ha preferito essere libero e ridere sempre, in campo e in Tv. Grandi piedi, grande testa. E grande voce. Articolo di Italo Cucci.

Vincenzino, fratellino mio, queste son lacrime, lacrime vere. Così t’accompagno nell’ultimo viaggio, ma già sento che mi dici col tuo sorriso impertinente: "Direttore, cosa fa? Non siamo mica in tivù". Già mi aveva sgridato quando poco tempo fa, saputo della sua malattia, l’avevo chiamato. "Vince, come stai?". "Diretto’, ho il cancro. Ma chi m’ammazza?". "Dove sei?". "Son tornato...". Così ho capito che stava lasciandomi. Qualche tempo prima l’avevo chiamato: "Vince, mi hanno offerto un programma in tivù con chi voglio, e voglio te". "Diretto’, scusa se non ti ho avvertito, adesso vivo in Portogallo, a Madeira, faccio il Ronaldo in pensione. Ciao tivù. Però potevamo divertirci...". Come no. Gli ho consigliato qualche giro, Estoril, la Praia do Guincho, e poi lagostinas e tanto pesce: "Così non ingrassi...". Quante risate avevamo fatto per la sua esibizione in quella partita revival con la Lazio vecchie glorie che lui aveva una pancia da partoriente. "Diretto’, ma i piedi, le gambe, la testa... me li so’ magnati". C’era con noi Pino Wilson, il capitano del mitico Settantaquattro: "Non ci puoi far niente, è così, vive come vuole. E dire che ha una gran testa, poteva diventare Dio". Una gran testa e una gran voce. Non ho avuto partner migliore, in tivù, almeno per un decennio. Anzi, era diventato il mio Bulgarelli.

Scanzonato come e più di Giacomino, ma dotato di rara competenza e di un libero pensiero che diventava liberissima parola. Il che infastidiva qualche critico, quelli che parlano di calcio come se fossero in cattedra. Vincenzino poteva semmai non piacere - agli interessati - quando rilevava l’inconsistenza di certi campioni da niente. "Diretto’, si sono esaltati perché Tizio ha fatto uno stop al volo,2 perché Caio ha dribblato Sempronio... Stai attento, fra poco diranno che somiglia a Sivori...". "A D’Amico mai!". "Se lo dice lei...". Già, sempre del lei, da quando l’avevo conosciuto stella della Lazio scudetto, con Chinaglia, Wilson, il pilota d’aerei Martini, Frustalupi, Nanni. Con Pulici sempre superserio in quella banda di matti. Con Maestrelli che già a quei tempi diceva come Pino: "Vincenzino? Non ci puoi far niente, è così, vive come vuole...2. Parlavamo di donne, gli piacevano eccome, ma attenti: "A noi di Latina ci piacciono belle come l’Arcuri o niente...". Non sbagliava mai nulla, in tivù. Quando alla Giostra del Gol seguivamo una diretta mi segnalava ogni nome, e con quale piede aveva tirato, e il dettaglio delle occasioni perdute. "Ne ho perse tante anch’io". Fu bello quando Mauro Mazza ricostituì la coppia, dicevano che stavamo bene insieme come i filippini. E lui rideva, rideva, rideva. "Con tutto il rispetto, diretto’...". L’ultima volta, quando gli chiesi come stava dopo il suo annuncio - roba da D’Amico - gli dissi che alcuni lettori mi avevano scritto parlando di lui, della sua malattia, e quanto gli volevano bene: "Diretto’, lasci perdere. Gli dica di non aver fretta". Grande fratellino mio, ripensandoti ho smesso di piangere. Anzi rido. Sei contento?


L'ultima finta di Vincenzino. Meno di una settimana fa aveva giurato di stare meglio. I compagni e la tifoseria gli volevano bene anche per quella sua giovinezza scapigliata. Come si ama l’ultimo cucciolo di una nidiata. Quello che sorridente bussa ed entra nel cuore di tutti. Il ricordo tra le lacrime di un fuoriclasse, un amico e soprattutto un simbolo laziale. Articolo di Franco Recanatesi.

Vincenzino fermati, dove cazzo vai! È presto, troppo presto per andartene e lasciarci con un coltello piantato nel cuore. Neanche una settimana fa mi avevi giurato di star meglio: bugiardo. Abbiamo parlato anche del cinquantenario dei supereroi, l’anno prossimo. "Faremo una festona e ti butterò in piscina come tu hai fatto con me una volta", mi hai detto. È troppo presto: quante volte l’hai sentito dire? Ma tu niente, via, con quella faccia strafottente in mezzo a quelli più grandi di te. "Presto de che? Io ho fretta". Quando, a ritiro già iniziato, arrivasti a Pievepelago accompagnato da Nando Vona stavamo tutti a pranzo, i giocatori da una parte, noi giornalisti da un’altra della sala. Si aprì la porta e dietro la sagoma imponente di Nandone comparisti tu, mingherlino e riccioluto, che esordisti con un "buongiorno e buon appetito, comodi, comodi, non vi alzate". Avevi 17 anni e una faccia da culo clamorosa. Ferruccio Mazzola fermò il braccio di Chinaglia che forse voleva tirarti addosso il piatto di spaghetti. Il pomeriggio, in campo per il tuo primo allenamento, chiedevi palla a tutti, e a Giorgio che spazientito ti disse "Tu stai zitto e la palla vedi di darla a me" rispondesti "Va bene ma io la palla posso dartela solo se la danno a me". Dopo neanche mezz’ora eri tu che comandavi il gioco. Capimmo subito di che stoffa vestivi. E che piedi ti aveva donato madre natura.

Quando nell’estate del 1972 Maestrelli stava plasmando quella straordinaria squadra, la maglia numero 11 sarebbe stata già tua se una maledetta amichevole a Rieti non ti avesse fatto saltare i legamenti e l’intera stagione. Pareva una carriera spezzata sul nascere, e invece ti rialzasti come Lazzaro. Non fu un miracolo ma la forza dei tuoi 18 anni. Manservisi dovette cederti il posto e tu - a comune giudizio - ti avviasti verso un grande futuro. Più grande, nelle previsioni, di quello che in realtà hai poi raccolto. Colpa tua. Del tuo Dna ribelle. Del tuo menefreghismo. Della tua gioia di vivere. Ma sì, hai fatto bene. E se non avessi incontrato San Tommaso sarebbe finita sicuramente peggio. Scusa: meno bene. Per evitare che li dilapidassi, i tuoi stipendi li tratteneva lui concedendoti una paghetta mensile; per evitare che dopo gli allenamenti ti strapazzassi con 600 chilometri Roma-Firenze-Roma per una ciulatina, ti sequestrò la patente. Quante volte lo hai ringraziato quando hai messo un po’ a posto la tua testa riccioluta. Ma i compagni di squadra e la tifoseria laziale ti volevano bene anche per questa tua giovinezza scapigliata. Come si ama l’ultimo cucciolo di una nidiata. Quello che sorridente bussa ed entra nel cuore di chiunque lo incontri. Chinaglia chiedeva a Maestrelli di escludere Re Cecconi, ma mai di non far giocare te che gli scodellavi palloni d’oro. Anche se una volta, a San Siro, ti diede un calcio nel sedere passato alla storia.

Wilson all’inizio della tua strada laziale divideva con te la camera per indottrinarti, fin quando tu, con il volto sfatto, chiedesti a Maestrelli di poter riposare da solo poiché il capitano dormiva quattro/cinque ore per notte. Eri il "golden boy" che i tifosi laziali aspettavano da anni e quell’appellativo ti è rimasto appiccicato, i tuoi compagni ti hanno chiamato così anche con le rughe sul viso e l’andatura ciondolante. Ti innamorasti della Lazio e la Lazio, l’intero mondo laziale, si innamorò presto di te. E non solo per lo scudetto che vi cuciste sulle maglie, nel quale avesti un ruolo di prima fila. Festeggiasti quell’impresa con qualche goliardata irripetibile, ma meno rischiosa dalle bravate in armi di alcuni tuoi compagni, il premio scudetto migliorò le condizioni di vita della tua famiglia di Latina. Una volta mi dicesti che al gol nel derby di ritorno ti scoppiò il cuore, proprio così, "boom, una botta forte". Avevi ormai la pelle biancoceleste. "Fra’, (in 50 anni che ci conosciamo non mi ha mai chiamato col mio nome completo) io da qua non me ne andrò mai": me lo dicesti quando sembrava che il Milan fosse intenzionato a portarti via. Come tutta la squadra, la malattia e poi la scomparsa di Maestrelli ti tolsero voglia e fantasia. Poi quel nuovo, lungo infortunio che - mi confessasti - ti fece persino balenare l’idea di smettere.

Bob Lovati accompagnò la tua crisi con l’affetto di un padre, ti rimise in sesto l’anima oltre che i muscoli. Non credevi neanche tu in un recupero così completo. Tanto che il Torino offrì 300 milioni a Umberto Lenzini per il tuo trasferimento. Naturalmente, ti opponesti, ma allora i giocatori erano merce in mano alle società. Il sor Umberto ti abbracciò, me lo raccontasti tu: "Vincenzì, sii bbono, ’sti soldi ce servono sennò famo patatrac". Facesti le valigie in lacrime, ma l’esilio - sì, lo chiamasti "esilio" - durò solo un anno, poi puntasti i piedi e tornasti alla Lazio, che hai salvato dalla Serie C e poi hai riportato in Serie A con la fascia di capitano. Hai smesso quando le tue ginocchia hanno cominciato a scricchiolare, dopo due anni alla Ternana per fare un piacere all’allenatore Mario Facco, tuo ex compagno di scudetto laziale. Cragnotti ti ha riportato alla Lazio come osservatore nel 1999. Eri felice, gasatissimo: "A Fra’, so’ tornato a casa". Ma è durata poco. "Non sono tagliato per fare il dirigente né per fare l’allenatore": lo dicevi tu. Due ruoli troppo impegnativi, troppo seriosi. Hai dato il meglio come commentatore. Di calcio, ovviamente. In Rai hai sfondato: competente, ironico, fuori dagli schemi. Potevi essere te stesso. Al naturale. Come sei sempre stato. Come dovevi continuare ad essere. Io non ci credo che volessi raggiungere i tuoi ahimè numerosi compagni di questa squadra magica e sciagurata, con la tua voglia di vivere, con la tua ultima moglie e i due figli a fianco. Con la Lazio in Champions che "non vedo l’ora di vedere cosa è capace di fare". Sei volato via troppo presto, Vincenzino. Troppo presto...


È un addio che fa male. Tanto. Perché chi ha avuto la fortuna di conoscere Vincenzo D'Amico non ha potuto far altro che adorarlo, in tutta la sua bontà e genuinità. Era una persona speciale, oltre ad essere stato un calciatore meraviglioso. Un eroe immortale, per sempre nella storia della Lazio, che ha dato il suo addio alla leggenda ieri con un commosso comunicato: "Il presidente Claudio Lotito e tutta la S.S. Lazio apprendono con estremo dolore e profonda commozione la notizia della scomparsa di Vincenzo D'Amico, protagonista indiscusso dello Scudetto 1973/74. Leggenda biancoceleste e coraggioso capitano nei momenti difficili della Società, Vincenzino, come tanti lo hanno sempre continuato a chiamare, ha fatto innamorare i tifosi di diverse generazioni con le sue magie in campo e il suo infinito attaccamento alla maglia. D'Amico ha giocato nella Lazio dal 1971 al 1980 e, dopo un anno al Torino, dal 1981 al 1986: mai ha fatto mancare passione, impegno e dedizione ai colori biancocelesti. Il presidente Lotito, a nome di tutto il club, rivolge alla sua famiglia e ai suoi cari le più sincere condoglianze. Non ti dimenticheremo mai, Vincenzo!".

Ricordi. Fino all'ultimo al suo fianco è rimasto Giancarlo Oddi, vecchio compagno di mille battaglie e fratello acquisito: "Sono stato da lui in ospedale venerdì e non è mai riuscito ad aprire gli occhi. Se ne va un fratello minore, bravo, simpatico: come giocatore non si discute, ma come persona era unica, bella. Si dice sempre così, lo so, ma per me era davvero questo. È stato un grandissimo, un anno ha praticamente salvato la Lazio da solo. Non è stato bravo solo con la squadra dello Scudetto, ma pure dopo. Si è meritato la fascia di capitano, dimostrando di essere un calciatore fortissimo e un grandissimo uomo. Non me l'aspettavo che potesse finire così. Fino a una settimana fa ci sentivamo sempre, tutto si poteva immaginare tranne che questo". Il ricordo del dottor Pino Capua, suo grande amico: "Ho perso un fratello, una persona meravigliosa, gli ultimi vent'anni siamo stati a stretto contatto, quasi quotidiano. Condividevamo tantissime cose, per me suo figlio Matteo è come un figlioccio, potete immaginare quanto dolore e sofferenza abbia provato negli ultimi tempi. Abbiamo sperato fino alla fine in un miracolo, ma era impossibile, anche da medico era un ragionamento impossibile. È andato via troppo presto".

Simbolo. Su Twitter il pensiero dello storico radiocronista Riccardo Cucchi: "È un giorno triste e malinconico. Ci lascia il "cucciolo" di quella magnifica squadra di visionari. Per la mia generazione fu un privilegio vederti giocare, Vincenzo". Sempre sui social anche il commento di Antonello Perillo, vice direttore nazionale Tgr Rai: "Il mondo dello sport piange Vincenzo D’Amico, stroncato a 68 anni da un tumore. Era una delle ultime bandiere di un calcio romantico che ormai non c’è più. Simbolo della Lazio, le sue giocate erano classe pura, fantasia e tecnica sopraffina. Lo piange anche la Rai, che per lunghi anni lo ha avuto come apprezzatissimo opinionista televisivo". Questa la nota del deputato di Fratelli d'Italia e presidente del Lazio club Montecitorio Paolo Trancassini: "Esprimo le mie condoglianze e la mia vicinanza alla famiglia, agli amici e alla nostra comunità biancoceleste per la scomparsa di Vincenzo D'Amico. Ciao capitano, non ti dimenticheremo". Su Twitter anche la partecipazione degli avversari di sempre: "Uno dei simboli di un’epoca di rivalità. L’As Roma si unisce al cordoglio per la scomparsa di Vincenzo D’Amico e si stringe al dolore dei suoi familiari". Restando in casa giallorossa, una dedica speciale è arrivata da Bruno Conti: "Ciao Amico mio. Mi Mancherai. RIP sarai sempre nel mio Cuore".



Il Messaggero del 2 luglio 2023 così ricorda Vincenzo in prima pagina

Da Il Messaggero del 2 luglio 2023:

Vincenzino era la Lazio. D’Amico si è arreso. Il mondo biancoceleste piange il genio ribelle. Fantasista di grandissimo talento fece innamorare Maestrelli. Il calcio in campo da Chinaglia, poi una carriera da trascinatore. La squadra che conquistò lo scudetto del 1974 perde un altro dei suoi interpreti più amati. Aveva rivelato due mesi fa la sua battaglia contro un tumore: si è spento ieri, aveva 68 anni.

Se n’è andato anche Vincenzo, dopo aver combattuto come un leone, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Ha sfidato il suo male per mesi, con una rabbia che se l’avesse avuta in campo avrebbe vinto il Pallone d’Oro per distacco. Il profondo dolore per la scomparsa di Pino Wilson, nel marzo dell’anno scorso, gli aveva dato l’energia, la forza, l’orgoglio e anche la follia della Lazio del ’74: sapeva già di stare male, c’erano stati i primi segnali della malattia, confermati dagli esami successivi, tanto da spingerlo a un annuncio pubblico, su Facebook, che aveva commosso tutto il mondo biancoceleste e non solo. Si era ritirato nel suo silenzio, con grande dignità, per combattere la battaglia più difficile della sua carriera e con la solita faccia da schiaffi ha provato a resistere, a provocare il suo nemico, a sfidarlo come faceva in campo davanti all’avversario: un dribbling, un ghigno, il gol o l’assist per il compagno più vicino. Ma stavolta non ce l’ha fatta, Vincenzo - dopo l’ultimo ricovero al Gemelli - ha perso per sempre, ma continuerà a vivere dentro l’anima di ogni laziale, perché uno come lui lascia il segno per l’eternità.

La classe. E’ stato uno dei grandi talenti, forse il più grande talento dal punto di vista tecnico, della Lazio di Tommaso Maestrelli, entrata nella storia per lo scudetto del ’74, per la sua modalità di giocare, per la sua follia collettiva di cui D’Amico, seppure giovanissimo, aveva fatto parte. In mezzo ai due clan, Chinaglia e Wilson "contro" Martini e Re Cecconi, ecco Vincenzino, pronto ad appoggiare l’uno oppure l’altro, ma sempre mantenendo le distanze. Era furbo, scaltro, molto sveglio e non solo in campo: restava in mezzo, imparava la lezione e, spesso, trascinava i compagni con la sua simpatia, oscurando i momenti di tensione all’interno del gruppo. Un giorno, a Milano, in una delicatissima sfida della Lazio contro l’Inter, rise addirittura in faccia a Giorgio Chinaglia, il Dio biancoceleste, l’imperatore di quella banda di pazzi, che aveva dovuto sopportare il tunnel di un avversario. Long John se ne accorse e gli sferrò un calcione nel sedere, in mezzo al campo, davanti a tutti. "Come ti permetti, ragazzino, tu non sai chi sono io...". Aveva esordito in serie A il 14 ottobre del 1973 contro la Samp, prendendo il posto di Re Cecconi. Maestrelli credeva in lui, aveva scoperto il suo talento e lo voleva sfruttare al massimo anche se Vincenzo lo faceva uscire di testa.

Era un ribelle, un ragazzo così felice di vivere da non capire l’occasione che gli era capitata: giocare in una squadra come la Lazio poco più che maggiorenne. "Papà lo trattava come un figlio e per me e Maurizio era un fratello maggiore, perché a Tor di Quinto noi avevamo 13 anni e D’Amico 18, così si fermava dopo gli allenamenti a giocare con noi. Non era facile gestirlo ma aveva un talento così elevato che non si poteva far finta di niente" ricorda Massimo Maestrelli in lacrime. Era stato lui uno dei primi a essere messo al corrente di quella malattia improvvisa. "Me lo disse in chiesa, a Prima Porta, dopo avermi guardato per tutta la messa, come se mi volesse sfidare. Gli chiesi cosa era successo e mi confessò quale battaglia si preparava a combattere". Vincenzo aveva accolto i gemelli Massimo e Maurizio, alla Paideia, il giorno della morte di Tommaso, padre, uomo e allenatore ancora oggi indimenticabile. Era questa la grande famiglia della Lazio, che perde oggi un altro dei suoi interpreti migliori. "O ritorno a Tor di Quinto, con la maglia biancoceleste o non gioco più a pallone" disse dopo un anno nero a Torino, dove fu costretto ad andare per aiutare il suo club. D’Amico amava la Lazio e solo nella Lazio avrebbe potuto giocare, almeno ai suoi livelli.

Il ritorno e la Serie A. Era il 1981, rientrò con la fascia di capitano e salvò la squadra da una clamorosa retrocessione in serie C. La squadra dello scudetto non c’era più e la maledizione della morte si era già affacciata sul mondo biancoceleste. Vincenzino segnava e faceva segnare, decisiva la tripletta contro il Varese. L’anno dopo, grazie anche ai rientri di Giordano e Manfredonia dopo la squalifica, ecco la promozione in A. Lui fu celebrato come un re perché si sentiva davvero un re. Come il giorno in cui, da ragazzino, entrò al campo di allenamento con un Pagoda, il primo status simbol dei benestanti e non certo dei giovani calciatori. Maestrelli s’infuriò così tanto che Vincenzo uscendo sulla Flaminia andò a sbattere contro il muro. Come si faceva a non amarlo, come faremo adesso senza di lui. C’è più Lazio in cielo che in terra di quel maledetto, indimenticabile e irrinunciabile 1974.


Sempre tratta da "Il Messaggero", un'intervista a Giancarlo Oddi che così ricorda la figura di Vincenzo D'Amico:

Se il pallone è la metafora dell’esistenza, la sua vita è stata davvero la partita più pazza del mondo. Come un dribbling, con annesso tunnel e botta sotto l’incontro. Evviva Vincenzino D’Amico. Capitano biancoceleste e uomo diretto, divertente, mai banale, talvolta pungente perché "libero". Alla fine prigioniero solo del suo amore incondizionato per la Lazio. Mica innato, trovato lungo il cammino. A differenza di tanti altri, anche su questo D’Amico è stato diverso e non si è mai nascosto: "Lui stesso diceva che da bambino era tifoso juventino, completamente pazzo di Omar Sivori. Poi, citando Felice Pulici, la Lazio l’ha scelto e gli è entrata dentro", spiega l’ex compagno Giancarlo Oddi, in lacrime e al suo fianco anche nell’ultima terribile battaglia fuori dal campo. Un altro di quella "maledetta" banda del ‘74 che se va. "Era il piccoletto dei nostri, quasi una mascotte o un fratello minore. Purtroppo ha sofferto molto, non se lo meritava. Ho passato gli ultimi due giorni al Gemelli, gli sono stato vicino". Aveva confessato il tumore proprio dopo la scomparsa di Pino Wilson. "Vincenzo aveva un grande cuore, era rimasto scosso, ma era malato da diverso tempo. Non diceva nulla solo perché non voleva essere compatito. Dava coraggio agli altri come sempre". Allora, come ha affrontato davvero la malattia? "Sdrammatizzando tutto. Da Madeira mi faceva battute al telefono persino sul cancro, era un giocherellone nato. È morto giovane, ma era già un giovane eterno".

Un’altra bandiera ammainata di quella squadra dello scudetto, di cui avevate festeggiato i 40 anni nel 2014 all’Olimpico con "Di padre in figlio". "Quel giorno era felicissimo. Mi ricordo che lo sfottevamo perché aveva messo su un po’ di chili e lui rispondeva: "Perché ho smesso di fumare". Ma io me lo ricordo a tavola davanti a qualunque piatto...". Era talmente genuino da far passare in secondo piano il suo genio? "Impossibile, era fortissimo, un fenomeno, aveva una tecnica e una classe che non aveva nessun altro di noi. Poi la sua carriera lo ha dimostrato". Come mai non fece mai una presenza con Bearzot in Nazionale? "Sarebbe dovuto essere uno dei capisaldi in azzurro. Invece, la sua simpatia a qualcuno andava di traverso, anche se lui era bravo, buono e non voleva dare fastidio a nessuno, ma soltanto portare allegria ed entusiasmo in un gruppo". Eppure Chinaglia gli rifilò un calcione per un sorriso di troppo. "Sì, ma Giorgio era così con tutti, però gli voleva un gran bene". Negli anni a venire Vincenzino diventò il capitano. "No, diventò la Lazio. Era il più importante di tutti, salvò il club da diverse situazioni, impossibile dimenticare la tripletta in quel Lazio-Varese 3-2 che evitò la serie C, nel 1982". Insomma, tutto il calcio perde un altro mito. "Forse esagero, ma se fosse stato meno mattacchione e più ambizioso, avrebbe potuto persino vincere il Pallone d’oro. Ma lui preferiva godersi la vita oltre il calcio, giocare con tutto, alla fine anche con la morte".



Il feretro nella Protomoteca del Campidoglio
Il feretro nella Protomoteca del Campidoglio e la visita dei sostenitori laziali
Un momento dei funerali nella Chiesa della Gran Madre di Dio a Roma
La folla saluta il feretro di Vincenzo alla fine del funerale svoltosi nella Chiesa della Gran Madre di Dio a Roma
Il feretro di Vincenzo durante il funerale svoltosi nella Chiesa di Santa Maria Goretti di Latina
La lapide provvisoria sulle tomba di Vincenzo D'Amico (foto fornita da Raffaele Galli)
La Targa commemorativa di Vincenzo D'Amico (foto fornita da Raffaele Galli)

Le esequie e l'omaggio dei tifosi[modifica | modifica sorgente]

Nel pomeriggio del 3 luglio 2023 il feretro di D'Amico viene traslato nella Sala della Protomoteca del Campidoglio dove riceve l'omaggio delle autorità e dei sostenitori. Una presenza discreta e raccolta che testimonia della comune commozione. Presenti, oltre ai Familiari dello scomparso, il Ministro dello Sport, il Presidente della Regione, il Sindaco di Roma, le autorità sportive della FIGC, della Lega Calcio e del CONI il Presidente della Lazio Generale Antonio Buccioni e tanti semplici tifosi che hanno coperto la bara di fiori, maglie e bandiere biancocelesti. Il giorno seguente, nella mattinata, si tiene il funerale nella Chiesa della Gran Madre di Dio in Piazzale di Ponte Milvio. Nel pomeriggio dello stesso giorno una camera ardente viene allestita a Latina, città natale del campione, nel Museo Duilio Cambellotti, cui seguirà, il giorno 5, una cerimonia funebre nella Chiesa pontina di Santa Maria Goretti. Il giorno 5 luglio, a Latina, è lutto cittadino. Per sua espressa volontà riposa nel Cimitero di Latina, situato in via della Rimembranza n. 2.


La camera ardente nel Museo Duilio Cambellotti di Latina. Straordinaria la coincidenza che lega l'artista Duilio Cambellotti e Vincenzo D'Amico. Cambellotti fu colui che nel 1905 creò il primo stemma della Lazio. Un asse temporale storico-spirituale che non si interrompe, l'ennesima riprova di un'aderenza immutabile e ineffabile tra ideali e uomini che permane da 123 anni



Palmares[modifica | modifica sorgente]





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