La morte di Ferruccio Mazzola

Da LazioWiki.

Ferruccio Mazzola
Ferruccio con la fascia da capitano
L'esultanza dopo una marcatura
Con vari compagni di squadra
Nelle vesti di tecnico in panchina
Il libro-denuncia scritto da Ferruccio Mazzola

Stagione

La scheda di Ferruccio Mazzola


La mattina del 7 maggio 2013 viene annunciata la morte di Ferruccio Mazzola dopo una lunga malattia che lo porta via a 68 anni. Negli articoli di seguito il ricordo della stampa sul calciatore.


Dal Corriere della Sera:

Ferruccio Mazzola, scomparso a 68 anni dopo lunga malattia, è stato un personaggio complesso, con un continuo rapporto dialettico e spesso conflittuale con il mondo del calcio. Che gli deve comunque molto. Per prima cosa, era stato lui a convincere il fratello, Sandro, più vecchio di due anni e mezzo, a non abbandonare il calcio, quando stava per dedicarsi al basket, per le troppe pressioni legate al cognome che portava e per le eccessive attese della gente, che ricordava la grandezza di Valentino, per alcuni il più grande calciatore italiano del dopoguerra. «Noi siamo gente di calcio, noi a calcio dobbiamo giocare; non siamo nati per tenere il pallone in mano», ripeteva Ferruccio e alla fine era stato capace di convincere Sandro a non mollare.

Al contrario di Sandro, Ferruccio vive a con la madre a Cassano d’Adda, subito dopo la separazione dei genitori. La tragedia di Superga aveva riunito la famiglia e i due fratelli. Ma chiamarsi Mazzola, essere figlio di Valentino e ritrovarsi a 18 anni con un fratello già campione d’Italia al primo anno da titolare dell'Inter (1962/63) non era un’esperienza facile. Ferruccio, alto soltanto 167 centimetri per 61 chili, era un giocatore di tecnica straordinaria, persino più bravo del fratello (che invece era più veloce di lui), più mezz’ala che attaccante. Nell’Inter aveva giocato una sola partita, l’8 ottobre 1967 (1-0 contro il Vicenza), dopo due anni nel Venezia (la squadra dove era sbocciato il padre, prima di passare al Torino), poi era passato al Lecco, alla Lazio, alla Fiorentina, ancora alla Lazio nel biennio con Maestrelli (secondo posto e scudetto), prima di chiudere nel Sant’Angelo Lodigiano e poi in Canada nell’Edmonton Drillers.

Anche da allenatore, Ferruccio ha dimostrato di avere un carattere forte e spigoloso, ma questa sua rigidità non gli aveva impedito di vincere due campionati di C2 con il Siena (1984/85) e con il Venezia (1987/88). Nel 2004, pubblicò il libro «Il terzo incomodo», nel quale lanciava pesanti accuse al mondo del calcio per l’abuso di pratiche dopanti negli anni Sessanta e Settanta. Questo gli scatenò una causa promossa dall’Inter (che era stata tirata in ballo, con riferimento alle morti di Picchi, Tagnin e Bicicli) , ma nella sua denuncia non si fermò al club nerazzurro, perché aveva fatto riferimento anche a Fiorentina (le morti di Beatrice, Ferrante, Saltutti), Lazio e Roma (il caso Taccola).

L’ostracismo del mondo del calcio non gli ha impedito di allenare per divertimento i ragazzi della Borghesiana, la squadra del suo quartiere a Roma, dove ha vissuto fino ala fine. Dal 2005 è stato presidente dell’associazione Futursport International, per il recupero di adolescenti in stato di disagio sociale e di lavorare nell’Associazione vittime del doping, fondata dai familiari di Bruno Beatrice. Un uomo di battaglia, sempre «contro», che avrà anche commesso qualche errore, ma che ha sempre pagato in prima persona. Adesso, dopo aver molto sofferto, riposa in pace.


Da La Repubblica:

E' morto a Roma all'età di 68 anni, dopo una lunga malattia, l'ex giocatore di Inter, Lazio e Fiorentina ed ex tecnico, tra le altre di Spezia, Venezia e Siena, Ferruccio Mazzola. Nato a Torino il 1 febbraio del 1945, era il figlio minore di Valentino Mazzola e insieme al fratello Sandro ha formato una famiglia che è storia del calcio italiano. Ferruccio è nato a Torino, quando il fratello Sandro aveva tre anni e il padre era già grande, con la maglia granata. Una bomba rischiò subito di porre fine alla sua vita. Nacque sotto i bombardamenti, e forse gli fu subito chiaro che per lui sarebbe stata dura. La separazione dei genitori, una grave malattia, la felicità ritrovata. Tappe che preludono a una carriera di calciatore solo discreta per motivi tutti da leggere. A cavallo tra gli anni 1960 e 1970 giocò nel ruolo sia di interno che di mezzala nell'Inter, Lecco, Venezia, Fiorentina e, soprattutto, Lazio, squadra con la quale vinse lo scudetto nella stagione 1973/74, anche se non disputò neanche un minuto. Chiuse la carriera in Serie C, con il Sant'Angelo, non prima di aver provato l'esperienza americana con l'Hartford. Iniziò dunque una carriera di allenatore che lo portò a vincere con il Siena il campionato di Serie C2 1984/85 e ad ottenere una promozione, sempre militando in Serie C2, con il Venezia nel 1987/88.

Ha cambiato alcuni mestieri, sempre fedele al calcio: giornalista, allenatore, osservatore. Non ha cambiato carattere né vita. Nel 2004 scrisse il libro autobiografico "Il terzo incomodo", edito da Bradipolibri, denunciando il diffuso uso di doping nel mondo del calcio durante gli anni Settanta. Ferruccio Mazzola viveva a Roma, dove ha allenato anche i ragazzi della Borghesiana, la squadra del suo quartiere. Dal 2005 era presidente dell'associazione "Futursport International" che si occupa, tramite lo sport, del recupero di adolescenti, in stato di disagio sociale, che si distinguono nell'attività calcistica. Dal 2006 era attivo anche nell'Associazione vittime del doping fondata dai familiari di Bruno Beatrice. Era osservatore per il Treviso.

Era ancora giovane, ma ultimamente credo non stesse bene. Non sentivo Ferruccio da un paio d'anni, ricordo un uomo leale, trasparente, sincero e generoso. Giuseppe Papadopulo ricorda così per TuttoMercatoWeb.com Ferruccio Mazzola, suo ex compagno di squadra ai tempi della Lazio. "Abbiamo giocato insieme - ricorda -, poi siamo sempre rimasti in contatto. In carriera da allenatore avrebbe meritato di più, ma il suo carattere non consentiva compromessi. Mi dispiace tantissimo per la notizia della morte, oggi sarò al suo funerale per l'ultimo saluto. Ci lascia una persona generosa, che non amava compromessi".

Era presente anche un po' del suo passato calcistico, l'8 maggio, nella chiesa romana di San Luca Evangelista al Prenestino, dove si sono svolti i funerali di Ferruccio Mazzola. Oltre ai parenti, al fratello Sandro, alla moglie Rita e ai figli Riccardo, Sara e Michele, a salutare l'ex centrocampista scomparso ieri all'età di 68 anni c'erano alcuni volti noti della storia della Lazio, squadra con cui Mazzola militò in due diversi periodi della sua carriera: tra il 1968-1971 e tra il 1972-1974, vincendo anche uno scudetto, ma senza mai giocare. Da Felice Pulici, che durante la celebrazione ha letto anche le Sacre Scritture, a Giancarlo Oddi, da Vincenzo D'Amico a Giuseppe Papadopulo e Bruno Giordano, sino al presidente della polisportiva biancoceleste, Antonio Buccioni. Ma ad adornare la navata della chiesa erano le corone dell'Inter, con la cui maglia Mazzola iniziò la carriera da professionista, e del presidente nerazzurro Massimo Moratti. Oltre ad un cuscino di fiori del Venezia, squadra che, il figlio del grande Valentino, guidò da allenatore, nella stagione 1987/88, sino alla promozione in Serie C1.


Dal Corriere dello Sport:

Ora giustizia imporrebbe di raccontare Ferruccio Mazzola per quello che è stato: un uomo, un calciatore, un allenatore. Ma non si può. La giustizia deve fare i conti con la storia. Nel migliore dei casi ne è complice, altrimenti deve accettarne le regole. E Ferruccio Mazzola, scomparso ieri a 68 anni dopo una lunga malattia, ha avuto nel destino il dolce castigo di essere figlio di (Valentino) e fratello di (Sandro). Le conseguenze dell'amore. O anche: le conseguenze del dolore. Come nella vita di ognuno di noi, assai labile è il confine. Sulla linea di quel confine, Ferruccio Mazzola ha vissuto il suo tormento, l'assillo della convivenza con le proprie radici, ma un passo indietro, nell'ombra mai rassicurante di chi – dentro – ha un mondo che ribolle. Del resto pure il titolo del libro che aveva scritto qualche anno fa è emblematico: "Il terzo incomodo" (ed. Bradipolibri, 2004). All'epoca accusò di abuso di pratiche dopanti il mondo di quel calcio che aveva attraversato da protagonista, gli anni '60 e '70. Fece, cosa rara, nomi e cognomi. Tirò in ballo le morti di Picchi, Tagnin, Bicicli e Minussi (era l'Inter di Herrera, e Ferruccio puntò il dito sul Mago), quelle di Beatrice, Ferrante e Saltutti (Fiorentina), quella di Taccola (Roma). Fu il j'accuse di un uomo-contro, uno dei pochi in un mondo dove anche gli spigoli si ammorbidiscono con batuffoli di cotone impregnati di ipocrisia. Tutto questo gli costò, oltre alla querela per diffamazione e la richiesta di 3 milioni di euro da parte dell'Inter (richiesta respinta dal giudice), la rottura del rapporto con il fratello Sandro e l'ostracismo di un mondo, quello del calcio, che aveva abitato senza mai sentire conforme al proprio spirito. Le sue denunce va detto, non sono mai state dimostrate da alcun procedimento giudiziario. Era stato un buon centrocampista, Ferruccio Mazzola, piccolo (167 centimetri), magro (peso forma poco più di 60 chili), i tratti pasoliniani, un fascio di nervi al servizio della squadra. Discreta tecnica, buona tenacia, una mezzala come ce n'erano in quegli anni ('60) di compiti specifici. Si mise in luce nel Venezia ('65), finì nei dilettanti del Sant'Angelo Lodigiano (fine anni '70) e poi addirittura in Canada (Edmonton Drillers). Da allenatore due promozioni dalla C2 con Venezia e Siena, metà anni '80.

Poiché ogni vita comincia da una separazione (nascere è la più dolorosa delle separazioni), per dare un senso alla storia di Ferruccio Mazzola bisogna tornare all'infanzia, prima quando suo padre Valentino si separò dalla madre (fu con lei che Ferruccio rimase) e poi quando – la tragedia di Superga il 4 maggio del 1949 – suo padre morì, contribuendo suo malgrado a riunire i due fratelli, Sandro e Ferruccio, entrambi piccoli, fragili ed indifesi. Fu proprio Ferruccio a convincere Sandro a insistere con il calcio, quando il fratello maggiore, deluso e scornato per i continui paragoni con il padre, stava per darsi al basket. "Noi Mazzola siamo fatti per giocare a calcio", sentenziò. Aveva ragione. Ci sono storie segnate. Quella di Ferruccio Mazzola è stata una vita vera, complessa e probabilmente tormentata, ma vera, di un rigore morale che ora tutti gli riconoscono come cifra esistenziale che l'ha contraddistinto, ma che è stato – spiace dirlo – il suo supplizio quotidiano. Con la sua morte, se ne vanno in due. Ferruccio Mazzola, figlio di Valentino, fratello di Sandro. E Ferruccio Mazzola, l'altro: il calciatore, l'allenatore, l'uomo.


Dalla Gazzetta dello Sport:

Se ne è andato Ferruccio Mazzola, il terzo incomodo. Era stato lui stesso a definirsi così. Da una parte la gigantesca figura di suo papà Valentino, capitano del Grande Torino scomparso a Superga nel 1949. Dall'altra i baffi di suo fratello Sandro, icona della Grande Inter e della Nazionale. Grande l'uno, grande l'altro, e in mezzo Ferruccio, che a 68 anni si è arreso a una brutta malattia, una di quelle per cui il magistrato Raffaele Guariniello ha aperto a Torino l'inchiesta sulle tante (troppe?) morti sospette nel calcio. Mazzola II – così si usava identificarlo una volta sull'album delle figurine – si chiamava Ferruccio in onore di Ferruccio Novo, presidente del Grande Torino che fu: anche il nome di battesimo non gli apparteneva fino in fondo, era il riflesso della grandezza di un altro. Era stato bravo giocatore, mezzala di corsa e di piedi buoni. Come il fratello si era formato nel settore giovanile dell'Inter sotto l'ala di Benito "Veleno" Lorenzi, ma assieme al fratello aveva giocato un'unica partita di Serie A, contro il Vicenza, 1-0 a San Siro nell'ottobre del 1967, e il gol della vittoria, manco a dirlo, l'aveva segnato il maggiore dei Mazzola. L'Inter l'aveva mandato in giro a farsi le ossa, come si scriveva allora. Era stato al Marzotto Valdagno, al Venezia, al Lecco. L'Inter lo aveva poi mollato e Ferruccio era diventato qualcuno alla Lazio. Finalmente sé stesso, non più all'ombra di altri. Era stato tra i protagonisti della promozione in Serie A nel 1969, portava i basettoni come si usava all'epoca. Un intermezzo alla Fiorentina, il ritorno alla Lazio e la grande beffa del '74: Ferruccio nella rosa della squadra del primo scudetto biancoceleste, quello di Chinaglia e compagnia cantante, e però mai in campo durante il campionato. Neppure un minuto. Presente, ma assente. "Mazzolino" l'incompreso, sempre un passo indietro, a rimirare la gloria altrui. A seguire il declino: il Sant'Angelo Lodigiano in Serie C e un'improbabile esperienza americana, in Canada, negli Edmonton Drillers.

Si era reinventato allenatore, ma non gli era andata benissimo neppure in panchina. Due promozioni in C1, la prima col Siena e la seconda col Venezia, negli anni Ottanta, come apice della carriera. A Venezia aveva avuto Maurizio Zamparini presidente e così era entrato a far parte dell'"ossario" dei tecnici cacciati da "Zampa", che a suo modo gli rese l'onore delle armi: "A Ferruccio mi lega la prima promozione col Venezia, quella dalla C2 alla C1. Ottimo ragazzo, perfetto per la categoria". Ultimo incarico "pro" ad Aosta nel 1995, la sparizione dai radar. Riapparve a cavallo del Duemila, a Roma, come istruttore di ragazzi in una squadra della Borghesiana. Poi Ferruccio si tolse qualche peso dallo stomaco. Scrisse "Il terzo incomodo", libro-denuncia edito da Bradipolibri, e rilasciò numerose interviste, per raccontare che nel calcio della sua gioventù si faceva uso di doping e per dire che le tante precoci morti di calciatori dei suoi tempi forse non erano state casuali. Quel che segue è l'estratto di un colloquio con L'Espresso: "Sono stato in quell'Inter anch'io (la Grande Inter, ndr), anche se ho giocato poco come titolare. Ho visto l'allenatore, Helenio Herrera, che dava le pasticche da mettere sotto la lingua. Le sperimentava sulle riserve – io ero spesso tra quelle – e poi le passava ai titolari. Qualcuno le prendeva, qualcuno le sputava di nascosto. Fu mio fratello Sandro a consigliarmi: "Se non vuoi mandarla giù, vai in bagno e buttala via". Così facevano in molti, però un giorno Herrera si accorse che le gettavamo, allora si mise a scioglierle nel caffè". Cosa c’era in quelle pasticche? "Credo che fossero anfetamine. Una volta – dopo un caffè di quelli, la partita era Como-Inter – sono stato tre giorni e tre notti in uno stato di allucinazione totale, come un epilettico. Oggi tutti negano, perfino Sandro. E' incredibile. Io e mio fratello non ci parliamo più. Lui dice che i panni sporchi si lavano in famiglia. Io credo che sia giusto dirle queste cose, anche per i miei compagni di allora che magari ci hanno lasciato la pelle. Tanti, troppi". Fiora Gandolfi, moglie di Herrera, rispose che quelle "erano aspirine comprate in Inghilterra, con un po' di zucchero in aggiunta". Giacinto Facchetti querelò Ferruccio a nome dell'Inter, però il giudice stabilì che non c'erano gli estremi per procedere. Anche Facchetti, come Picchi, Tagnin e qualche riserva di quella favolosa squadra, è morto di cancro. Questo non prova nulla, ma neppure si può liquidare l'incomodo e scomodo Mazzola II come pazzo o delatore. Ferruccio aveva il diritto di raccontare la sua parte di storia.


In un altro articolo della "rosea":

Campione d'Italia senza vedere il campo. Strano il destino di Mazzola: figlio di Valentino, fratello di Sandro, solo per pochi Ferruccio. Strano, ma anche sfortunato, perché la Lazio del '74 era troppo forte e troppo completa. "Ci fossero state tre sostituzioni a partita, avrebbe giocato e neanche poco — ricorda Felice Pulici —. Si poteva cambiare il portiere e un solo giocatore, ma quella stagione sembravamo fatti tutti di ferro: solo Re Cecconi si infortunò, ed entrò Inselvini. Ferruccio era nella mia stessa parte di spogliatoio, uno che faceva gruppo. In campo era rapido, e anche tecnicamente bravo. Come il fratello, ma alto la metà". Fin qui il Mazzola calciatore: poi c'è il Mazzola pentito, quello delle accuse di doping a Helenio Herrera, ma anche all'Inter, alla Fiorentina, alla Roma e alla Lazio, dove raccontò di aver fatto uso di Villescon per migliorare le prestazioni. "Se ha fatto nomi e cognomi, ha avuto coraggio e questa cosa va apprezzata — dice Pulici —. Se si arriva a queste accuse, un fondo di verità c'è. Tante volte, però, pur di evidenziare un momento o una situazione come questa, si va oltre. Partendo da qualcosa di vero, il fatto viene un po' ingigantito. Purtroppo, e non è successo solo a Ferruccio, quando viene a mancare quella popolarità che si ha durante la carriera, si fa di tutto per tornare alla ribalta. In questo senso, tante società commettono l'errore di dimenticare i propri ex giocatori: dandogli anche dei minimi incarichi, permetterebbero loro di rimanere nel giro". Mazzola, dopo aver smesso anche di allenare ne ha avuti alla Borghesiana, al Treviso e in un'associazione per il recupero degli adolescenti disagiati, ma non è bastato.





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