Olimpicus - Cavajjù
RUBRICA LETTERARIA "I racconti di Olimpia" di Olimpicus per LazioWiki
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CAVAJJU'
Non credete a quelli che vi dicono "questa è una storia vera", ma credete a me: questa è una storia vera.
La ebbi da un uomo che era stato un discreto calciatore. Aveva circa settant'anni quando, un pomeriggio di Pasqua del 1979, me la raccontò mentre stavo a Gagliano Aterno, vicino L'Aquila, insieme a Luigi, un amico romano la cui famiglia era originaria di lì. Seguivo l'ultimo anno di liceo classico; un po' sopra le righe quanto a umore, per via dell'esame di maturità che si avvicinava a passi lunghi. Me lo vedevo venire incontro con tale velocità che, a figurarmelo, sembrava avesse le gambe ipertrofiche di Mennea e il viso storto del barlettano, con una punta di maschera azteca nel giorno dei sacrifici pubblici al dio Sole. Insomma, camminavo sul filo del rasoio e vivevo quel preciso stato d'animo di cui scriveva Giovan Battista Bugatti, il boia del papa, riguardo alle sue vittime da forca e ghigliottina. Gigi, un anno e mezzo più grande di me, e quindi sereno e al riparo dalla pioggia come una formica sotto un ombrello, andava ripetendo con la sua voce baritonale:
- Stai tranquillo, ne bocciano uno su diciassette, come da statistica.
Lui era un fissato coi numeri. Seguiva il primo anno di fisica nucleare alla Sapienza e nella stanza teneva una lavagna coperta di equazioni tracciate a gessetto, che cambiavano tutte le settimane in maniera mistica.
- Perché dovrebbe toccare proprio a te?
Già, perché? Bella domanda: perché era toccato proprio a Luciano Re Cecconi di finire sparato per un equivoco mentre la vita gli sorrideva e giocava in una squadra come la Lazio di Tommaso Maestrelli? Ma Gigi del pallone non glie ne importava assolutamente nulla. Amava il tennis e la nostra amicizia si basava su interminabili sfide disputate sui campetti di terra rossa di un club all'Aurelio: lui un pallettaro alla Guillermo Vilas, nonostante fosse un metro e novanta abbondanti, e io un attaccante alla John McEnroe, a dispetto del mio metro e settanta scarsi. Si sa, nello sport conta il temperamento, io ero nato nano d'assalto e Gigi watusso di difesa. D'altronde, se provava ad avanzare sotto rete lo bucavo come volevo.
Comandino.
A Gagliano Aterno di interessante un teen ager non trovava che la pesca a fiume, il biliardo da boccette al Bar Sport e uno spelacchiato campo sportivo, risalente ai tempi del fascio. Sotto il profilo culturale, c'era qualcosa da valorizzare: un monastero di clarisse, un castello del Trecento, una miriade di chiesette e di edicole religiose. Molte vuote, spoglie di arredi, e quasi tutte chiuse, sprangate e dimenticate da Dio e dagli uomini. I quattrocento abitanti rimasti, forse meno, per lo più vecchi tangenti agli ottanta, per riempirle avrebbero dovuto distribuirsi a portone, diciamo sette famiglie per ogni chiesa. Questo il secolarismo aveva prodotto, a Gagliano presso il fiume Aterno, in un territorio aspro e selvaggio che più abruzzese non si poteva chiedere. Il secolarismo e l'emigrazione dei giovani avevano svuotato il paesello, che tornava vivo solo d'estate, con le ferie di transumanza delle millenarie dinastie fuggite via. Il periodo pasquale era un altro momento di rientro comunitario. La madre di Gigi, Regine, con la 'g' pronunciata dura, una belga che aveva conosciuto il padre di Gigi nel Congo sotto il colonialismo, ci portava il figliolo più grande e il minore, Bruno, pure lui amico mio; ai due ragazzoni si aggiungeva la sorellina piccola, Lise, che aveva quindici anni ma praticamente mi mangiava in testa. Tutti e tre con i capelli neri, gli occhi marroni-miele e la pelle olivastra, mentre la signora Regine era bionda, alta e col viso lungo e angoloso dei quadri di Van der Weyden. Quella Pasqua, Gigi e Bruno mi dissero:
- Dai, vieni a Gagliano che ti piazziamo dai nonni. Noi andiamo nella villa di famiglia e vedrai che lì ci divertiremo.
- Ok – dissi io – Certo che ci vengo.
Mi fidavo di loro. E sotto traccia avevo capito che la mia dislocazione periferica significava che la bella Lise l'avrei vista solo le volte che Regine si sarebbe decisa ad invitarmi a pranzo o a cena. La mentalità, infatti, era quella: ante-Sessantotto. E i belgi ce l'hanno anche loro, l'appartenenza all'Ottocento e ai suoi valori. Amano stare in famiglia, si confidano col prete, godono dell'ordine e del rispetto delle tradizioni. Tra belgi-fiamminghi e abruzzesi-aquilani non c'è poi tanta differenza.
- Mio nonno Orante e mia nonna Fortunia.
Alle presentazioni spicce di Gigi, per poco non mi scappò una risata. Poteva dirmelo che aveva parenti con nomi simili! Mi accorsi subito che Orante aveva l'aria di chi ha sempre pregato poco, affidandosi piuttosto al buonsenso e alla forza delle braccia. Mentre Fortunia di buona sorte ne aveva avuta parecchia, o forse si era fatta una ragione del destino dispettoso, perché il sorriso le lampeggiava negli occhi come l'arcobaleno sul monte Ararat. Era il 13 aprile, il Venerdì Santo, e quella sera, immerso nell'oscurità e nel silenzio quasi innaturali di Gagliano Aterno, mangiai baccalà al forno con Fortunia e Orante, due perfetti sconosciuti per me, parlando dell'Africa. L'estate prima l'avevo trascorsa in Mozambico, dove mio padre lavorava in un'organizzazione internazionale, così descrissi a Filemone e Bauci le orecchie rosa degli ippopotami nel rio Limpopo e lo sguardo allegro di un dugongo emerso vicino la barca al largo dell'isola di Inhaca. Mi ascoltarono come Venerdì ascoltava Robinson Crusoe e i suoi racconti dell'Inghilterra del secolo diciassettesimo: la meraviglia traspariva dai volti segnati di rughe. Ogni tanto, Fortunia m'interrompeva con un tocchetto di gomito inferto al marito: "Jammece!" Orante rispondeva con un "fjò", detto con tono apodittico e fatalista, che non capivo bene cosa significasse. Qualcosa di negativo però, a giudicare dalla faccia che faceva la Fortunia. Ma c'era un terzo personaggio in quella casa, il più importante. Anche lui parlava, di sicuro più di Orante. Il suo nome era Comandino. Posso giurare che Comandino, dalla gabbia su uno sgabello nell'angolo della cucina più distante dai fornelli, apprezzò i racconti africani con lo stesso interesse naif dei suoi padroni, ma con maggiori conoscenze specifiche.
Comandino era un magnifico merlo indiano, grosso come non ne ho mai più veduti. Nero notte con iridescenze blu elettrico, un capino macchiato di giallo e una striscia violetta in stile mohicano. Il becco era tuorlo d'uovo. Gli occhietti tondi e color miele come tutti gli altri, vivacissimi e intelligenti. Pochi dubbi sul suo nomen omen, la caratteristica della casa: Comandino comandava a bacchetta e ogni suo desiderio veniva esaudito seduta stante. Ordini dati in abruzzese stretto, o meglio nel dialetto dei gaglianesi. La frase sua classica era: "Offrekete ke friddu ke fa!" La parola più ricorrente, in quei quattro giorni di scrutamenti reciproci, fu: "Makarunaaare!". Strillato con la a finale molto larga e un pizzico insofferente. Fortunia mi spiegò l'idea del merlo, tirando fuori da una credenza un aggeggio di legno che serviva a preparare la pasta, di cui Comandino era ghiotto. Comunque, si trattava di un uccello assai educato, la mattina mi salutava con un gracchiante: "Ponciorno mammocce!" Il giorno dopo – era sabato di vigilia – la passai con Gigi e Bruno nella villa. Che era maestosa, su due piani con la soffitta e il seminterrato, cinque bagni e due disimpegni che non si capiva il motivo di tanta dovizie di lavandini, vasche, stenditoi e docce. Bruno, più tarchiato e massiccio di Gigi, tipo morfologico indigeno da manuale, mi rivelò che quella di tornare dai posti lontani dove ci si era guadagnati il pane e utilizzare i denari per dimostrare agli altri che il tempo non era stato sprecato costituiva un classico della mentalità dei gaglianesi. Se ne contavano una dozzina, di più o meno superbiose ville che rimanevano disabitate tre stagioni su quattro: anche loro non sfuggivano alla regola.
La cosa bella era che lo spazio a iosa aveva fruttato una sala giochi che ricollegai al giardino di gemme preziose ne Le mille e una notte, completa di pesi, cyclette, ping pong, calcio balilla e un fichissimo flipper Bally Star Trek, uno dei migliori, sul quale ingaggiammo sfide all'ultimo zoing. La grana non mancava ai fratelloni, e non per niente il papà costruttore edile ancora viaggiava tra l'Italia e lo Zaire. Da Roma m'ero portato un borsone con maglietta, mutande e scarpini con tacchetti bassi di gomma per giocare a pallone sulla terra battuta. Non la racchetta modello Arthur Ashe, perché Gigi m'aveva avvisato che di campi da tennis, a Gagliano, non c'era neanche l'ombra. Così, già quel primo pomeriggio scendemmo tutti e tre al campo sportivo. A Bruno non dispiaceva tirare quattro calci e Gigi si adattò a fare il portiere, esibendo uno stile simile a quello di Sylvester Stallone in Fuga per la vittoria. Trovammo altri cinque volenterosi, due locali e tre di fuori, e imbastimmo la partitella. Ad un certo punto, notai un tizio che s'era seduto sull'unica panchina di ferro arrugginito, mezzo addossato con la schiena alla rete di recinzione. Restò a osservarci fino a quando cominciò a rosseggiare. Lassù, circondati dagli Appennini, la sera arrivava presto, prima che in città. O forse era solo un'impressione: le ombre salivano come ladri gli scalini di pietra e s'allungavano sugli usci delle case, perché volevano farti credere che fosse giunta l'ora di cercare rifugio dai lupi e dagli orchi.
- Chi è quel vecchio? – chiesi a Bruno.
- Berardino, uno che viene da un paese qui vicino. Da giovane è stato un calciatore semiprofessionista. Dice che era riserva nell'Aquila in Serie B, ai tempi dell'allenatore Ottavio Barbieri, e che poi un incidente ferroviario a Cornigliano, su in Liguria, distrusse la squadra che era piuttosto forte. Ci furono morti e feriti e lui si salvò per miracolo. Vieni che te lo presento.
Ma mentre mi spiegava queste cose, intanto la panchina aveva perso il suo occupante. Ci guardammo intorno: di Berardino nessuna traccia. Il cancelletto, però, era spalancato. Se da ragazzo era stato rapido in area di rigore come lo era adesso a sparire dalla circolazione, davvero doveva trattarsi di un ex campione. Il pensiero non lo espressi a voce, dissi piuttosto a Bruno:
- Fa' niente. Andiamo a casa va', che voglio fare un paio di mani a scopone scientifico, e il quarto lo fa tua sorella.
Gigi, che da dietro aveva sentito la battutaccia, mimò una pedata nel culo. Bruno mi posò uno dei suoi manoni da pugile sulla nuca, in un buffetto gentile ma non per questo meno doloroso.
- Scherzavo! – mi affrettai a tranquillizzarlo.
- Sì, sì.... scherza tu, sai come si dice da queste parti: Chije nen po' vatte sacche, vatte sacchette. Fatti una sega stasera, che è meglio...
- Contaci, Brù!
E tutto finì come doveva finire: in una risata. Appena a casa, mi attaccai alla radiolina a transistor, che pure m'ero portato in valigia, per seguire l'ultima mezzora della partita della Lazio. Un impegno non facile per i biancocelesti, guidati in campo da Pino Wilson e in panchina dal vecchio Bob Lovati, perché si andava al Comunale di Bologna contro una squadra che lottava nei bassifondi. Nelle alte sfere cercavano di salvarli, i gloriosi rossoblù, e fu proprio la Lazio a pagare dazio quel giorno. Mi arrabbiai non poco a sentire Tutto il calcio minuto per minuto. L'arbitro, un fiorentino, tra rigori contro, espulsioni e gol annullati per fuorigioco inesistenti riuscì a far vincere i padroni di casa. Inutile il gol finale di Bruno Giordano, realizzato grazie a un rigore regalato da chi aveva la coscienza troppo sporca. Quella sera mangiai immusonito. Nessun racconto di leoni e bestie marine uscì dalle mie labbra serrate. Notai che Fortunia e Orante mi osservavano con evidente "dismay", come dicono gli inglesi: perché mai il signorino era così freddo? Sembrava tanto gentile e simpatico...
- Telefò padrò!
Il gracchio sonoro di Comandino seguì un millisecondo dopo lo squillo del ricevitore all'ingresso. Il signor Orante trotterellò dalla cucina, dove stava godendosi Raffaella Carrà con la moglie. Alzò la cornetta di bachelite nera e ascoltò un attimo, quindi mi passò la telefonata con una reverenza che giudicai eccessiva, quasi fosse la chiamata del nuovo papa polacco:
- Per lei, signor Marco.
Era Gigi. Mi andava di uscire a gironzolare un po'? Non faceva tanto freddo (si sfioravano i quindici gradi al massimo) e "Gagliano by night" (ghigno gutturale neanderthaliano) costituiva un qualcosa d'irripetibile che non potevo perdere. Diedi il mio placet: when in Rome do as the Romans do. Nonostante la stanchezza, lasciai il libro sul lettone di ferro e mi rivestii in fretta, scegliendo il maglione e il piumino Moncler. Un momento prima di chiudermi alle spalle il portone di casa, udii il saluto di Comandino:
- Ce vedème, mammocce!
Mi parve contenere una nota d'ironia, non del tutto impropria in un merlo dal becco giallo.
Di notte al cimitero.
Gagliano di notte aveva un'aria inquietante. Le case, addossate l'una all'altra e arroccate a cono su un promontorio culminato dal campanile della chiesa madre, dedicata a San Martino, erano un groviglio alla Escher di scalinate in salita e in discesa, ponticelli, rientri bui, archi in serie, archetti isolati, portici, carri a stanga e attrezzi da lavoro appoggiati, con agreste fiducia, ai muri, oppure lasciati nei cortili. Ci si poteva perdere se non si aveva in testa la mappa del luogo; così che ti acchiappava un senso di straniamento che, al riverbero tremolante dei lampioncini di ferro, era acuito dal "preso!" sussurrato dalle madonnine nelle edicole, tramutate in spiritelli coribantici che giocavano un loro gioco a nascondino. Un silenzio profondissimo saliva dal fresco delle pietre smussate secondo uno stile pre-romano. Non concedevano nulla alla curiosità le finestre delle abitazioni, schermate da spesse tende di lino che filtravano l'eco di intimità sacre.
Molte case, un buon terzo giudicai, apparivano abbandonate, e lo si intuiva dal degrado che le rivestiva; un lasciarsi andare, però, pulito, rispetto a quanto si nota di solito in una metropoli. Dominava quelle vecchie dimore il verde cupo dei rampicanti, con i fusti contorti di alberi-bonsai che sbucavano in mezzo alle pietre sbreccate. Le persiane cadute di traverso, come in uno shangai riuscito male, erano ormai solo pezzi di legno barboni, macchiati di colori bruni dipinti dagli insetti, dagli uccelli, dal freddo cocente, dal sole dei meriggi estivi, dalla pioggia e dalla neve; forse anche dalle preghiere incanalate e sospinte nelle viuzze lungo duemila anni di cristianesimo.
- Ma è sempre così?
- Che intendi, Marco?
- Voglio dire... così desolato, triste, sembra un paese tenuto in ostaggio da una banda di fantasmi.
La fronte prognatica di Bruno si aggrottò ancora di più, lui era uno che ci teneva al paesello e digeriva male le critiche.
- Guarda che qui ormai ci sono rimasti solo i vecchi. Ma se una volta vieni d'estate, diciamo ad agosto, vedrai tutta un'altra storia: bambini, famiglie, i figli e i nipoti che sono andati a vivere all'Aquila o a Roma. E allora, anche la sera, ci sarà più illuminazione, perché molte di queste case, in realtà, non sono vuote, ma hanno mobili che attendono i padroni. È un paese che aspetta, se si può dire.
- Già, aspettando Godot in versione abruzzese.
La battuta da studente all'ultimo anno di liceo mi sorse spontanea, e per poco non mi causò un altro buffetto da parte di Bruno. Ma intanto, eravamo usciti dal labirinto. Davanti a noi s'era parato il cancello d'ingresso del cimitero, chiuso a chiave ma senza il catenaccio.
- Non vi preoccupate, so come aprirlo. – disse Gigi.
L'avventura, infatti, consisteva in un raid notturno nella città dei morti. Con noi c'era la Lise dalle lunghe gambe, snella e davvero carina col suo tubino a strisce grigiobianche e un eskimo celeste che ne metteva in risalto l'incarnato da araba e la bocca rosso ciliegia.
- Dai, entriamo! – incitò.
Compresi come per lei si trattasse di un'opportunità da cogliere, una visita proibita al riparo dei fratelli maggiori. E poi c'ero io, il "principino" (così mi chiamavano), il fichetto pariolino che frequentava il collegio dei frères e giocava a tennis col Gigi. Sapevo bene che Lise s'era presa una cotta per me, e non le lesinavo occhiate calde che finivano in un freddo distogliersi dello sguardo, giusto per tenerla sulla corda. Lise col mio modo di fare non ci aveva capito nulla. Io, lettore di Moravia, credevo fosse la tattica giusta: creare nel suo cuore un universo turbinante di caos e desiderio. Il cancello era di ferro e piuttosto alto, gugliato e inaccessibile a una scalata mani e piedi. Il muro intorno presentava cocci di vetri cementati sui margini. Ma non ci si poteva fermare lì. Gigi tirò fuori dal giaccone un buzzichetto pieno di un liquido oleoso, armeggiò sulla serratura e socchiuse i battenti del cancello. Entrammo in fila indiana, in ordine di età: Gigi, io, Bruno e Lise. Davanti a noi, lo scenario era da Rocky Horror Picture Show. La notte era senza luna e la nebbia sfilacciava come iceberg davanti al Titanic. Lapidi e croci si contavano in numero tale da ricordarmi una figura, ammirata da bambino in un libro di storia, dell'esercito di Serse alle Termopili, pronto per la battaglia.
Più rare erano le cappelle, in stile neoclassico, abbellite da statue di marmo e di bronzo. Lungo il perimetro sfilavano i loculi a ciclo continuo, bianchi, verdolini, bigi e rosati, incapsulati nella muricciata. Stradine di brecciolino ed erba selvatica si diramavano e s'intersecavano in maniera confusa, interrotte da cipressi svettanti, invisibili le cime come i rooftop dei grattacieli di Manhattan. Lucignoli rossastri foravano l'oscurità, a creare un firmamento di stelle cadute al suolo bisbiglianti fra loro un mantra segreto. Per dare un senso di musical americano, mancavano solo gli scheletri che ballavano il tip-tap di Fred Astaire e Ginger Rogers, shakerando allegri tra le fosse. Così come il paese, pure il camposanto celava uno schema complesso e indecifrabile. Me ne accorsi allorché, perduto di vista l'ingresso, era da un pezzo che giravamo tra le tombe. Mi venne da chiedere:
- Ma quant'è grande? Me l'aspettavo più piccolo.
Gigi rispose per primo:
- Ci sono salme per almeno trenta generazioni, dai tempi degli antichi Equi.
- Beh, non credo che abbiamo le tribù degli Equi, le loro sepolture erano diverse, è probabile che qui le tombe più antiche risalgano al Medio Evo.
Lise, alla mia saccenteria gratuita contro il fratello scienziato, lanciò verso di me un'occhiata amabilmente beffarda. Gigi se ne avvide e grugnì parole incomprensibili. Bruno mi guardò perplesso, come faceva spesso. Stavo per aggiungere altro, quando Gigi esclamò, con un gesto del braccio che intimava l'alt:
- Eccoci arrivati.
- Arrivati dove?
- All'Ossario. Siamo al centro perfetto dell'ellisse, mentre i due monumenti che abbiamo incrociato, quelli dedicati ai caduti nelle guerre mondiali, segnano i fuochi.
L'uscita di geometria spaziale di Gigi era una risposta, calcolata in ritardo, alle mie malizie verso la sorella: un dritto arrotato da fondo campo. Non replicai, giudicando sciocco rompere l'incanto con delle ulteriori fiatate. Anche perché i miei occhi vedevano qualcosa d'incredibile emergere dalla foschia: un tempietto greco con cariatidi ai lati e un teschio vero, a tibie incrociate, inchiodato sul frontone. Quello era, dunque, il sancta sanctorum di Dite. La costruzione appariva semplice e senza finestre, vi si accedeva da una porta-grata che lasciava scorgere tutto ciò che si trovava dentro. E lo spettacolo non era di quelli che si dimenticano presto! Rischiarate da lumini, migliaia di ossa tappezzavano la volta e le pareti. Per lo più crani di varie dimensioni, ma anche scapole, ossa lunghe, ossa piatte, costole. Al centro della parete di fondo, infisso in una piastra di rame lucente, catturava l'attenzione un tabernacolo costruito su una croce raggiata fatta di teschi, tibie e ossicini. Ai lati della croce, ridevano due colonnine di tre grossi teschi sovrapposti a pesanti tibie, in modo tale che le ossa entravano nelle bocche dentate in un osceno atto di autofagocitazione. Una immagine forte, da catalogare nel gotico, e che non sarebbe dispiaciuta a Edgar Allan Poe. Non c'erano i curiosi frati cappuccini a sagoma intera che s'inchinavano reverenti alla morte, come nella cappella di via Veneto che avevo visitato a Roma, ma l'effetto procurato era lo stesso: brividi a fior di pelle.
- Aaaaah!!
Il sospiro mi giunse da dietro l'orecchio: era la bocca rossa di Lise che l'esalava, scossa la bella dalla visione più che macabra dell'interno dell'Ossario. M'indusse a spostare lo sguardo di novanta gradi verso il basso, per cui mi accorsi di un'anomalia in un angolo della camera di destra: s'intravedeva, in un punto tenuto al buio, una forma globoidale che non era un cranio, a meno che non si trattasse del cranio di un animale enorme. Un orso marsicano? No, piuttosto mi ricordava qualcosa di familiare... sembrava un pallone da football di vecchio tipo, uno di quelli di cuoio marrone con la camera d'aria chiusa da laccetti. Non annunciai la mia scoperta ad alta voce, temendo d'essere preso in giro. Ma, giunto a quel punto, volevo toccare con mano la reliquia.
- Entriamo!
- Non si può: guarda che catena! Un tempo era possibile, ma poi è accaduta una cosa...
All'improvviso, Lise strillò isterica:
- Il fantasma di Cavajjù!!
Al mio inevitabile che cosa?, Bruno tacitò la sorella, che subito aveva fatto le corna a mo' di scongiuro, e se ne uscì con una sibillina promessa:
- Il motivo per cui non si può entrare te lo farò dire da una certa persona.
Fu in quell'istante che Gigi, da qualche tempo silenzioso e come assorbito da certi suoi pensieri, riprese in mano la situazione:
- Jammece, è tempo di lasciare questo cacchio di posto.
Il ritorno al cancello d'ingresso fu un affare da poco, perché i miei amici avevano il filo d'Arianna del cimitero. L'ultima scena fu il programmato scherzo da prete ai danni di Lise: scatto secco di noi tre moschettieri e chiusura al volo del cancello, con minaccia di farle passare la nottata in compagnia degli zombi che le avrebbero mangiato i graziosi piedini. Implorazioni della fanciulla, quasi scherzose però (non ci credeva neanche lei a tanta infamia), quindi sblocco della serratura in cambio di un bacetto sulla guancia a testa. Era morbida d'amore come una tigre. Rientrai a casa al tocco della mezzanotte. Appena udì il clic del portoncino che s'apriva, prima ancora che toccassi l'interruttore della luce, Comandino mi servì il bentornato:
- Offrekete, mammocce!
Berardino.
- Non mi era mai capitato di gustare una colazione di Pasqua tanto ricca. Neppure dai miei nonni paterni, nelle Marche, la fanno così buona.
Il mio complimento rallegrò Fortunia. L'anziana contadina mi scoccò uno dei suoi sorrisi giocondeschi mentre, usando una strepitosa bacchettina di legno, imboccava Comandino con un fiadone, specie di raviolo di pasta fritta col formaggio. Sulla tavola, accanto alla pizza pasquale farcita di anice e uvetta, facevano mostra di sé una dozzina di uova sode sgusciate e del salame a grana fine già tagliato a fette. Dal canto mio, da Roma avevo portato un uovo di cioccolato fondente alto sessanta centimetri; talmente bello che, con la sua carta lucida e i fiocchi dorati, aveva immediatamente attratto la curiosità di Comandino. Che adesso, però, dimentico del super-uovo, s'ingozzava di fiadoni a tutto spiano. Per essere un merlo venuto dall'Asia, quell'uccello sapiente mostrava una fame atavica che faceva onore alle generazioni di ginnosofisti del suo paese. Il resto del dì di Pasqua, meteorologicamente splendido, fu all'altezza dell'avvio: messa delle undici, pranzo nel gazebo della villa, flipper e partita di pallone. Una contesa, questa volta, più nutrita nei partecipanti e con parecchi spettatori, tra i quali tuttavia non scorsi Berardino. La mattina di Pasquetta c'era in programma la gita di pesca alla trota. Pesci nell'Aterno, che aveva acque freddissime, non se ne acchiapparono, ma il picnic sull'erba fece recuperare il buonumore a tutti. In macchina, Bruno mi sussurrò in un orecchio quel che aspettavo dal giorno precedente:
- Alle nove, dopo cena, Gigi e io ti veniamo a prendere. Andiamo da quella persona che sa perché non si può visitare l'Ossario. Abita in un paese a due passi, mi sono già messo d'accordo.
- Non vedo l'ora! – fu la mia risposta.
La persona era Berardino. Il vecchio abitava a Castel di Ieri, distante un quarto d'ora da Gagliano. Ci si arrivava prendendo la statale cinque, mi spiegò Gigi, l'unico di noi con la patente di guida e titolare della Citroën Dyane 4 che i genitori gli avevano comperato per il primo esame universitario. La casa di Berardino rimaneva appena fuori del borgo, piuttosto isolata e uguale alle altre della zona. La sera era limpida, un oscuro chiarore cadeva dalle stelle. Il vecchio ci venne ad aprire, invitandoci a sedere a un tavolo nello spazio unico al pianterreno che fungeva da sala da pranzo e da cucina; in un caminetto assai rustico, sormontato da attrezzi di ferro e da pentolame, scoppiettavano tronchi di faggio. Le scintille salivano come fuochi d'artificio su per la cappa, perché s'era alzato improvvisamente del vento al di là delle finestre. A vederlo da vicino, l'uomo dimostrava molti più dei suoi sessantanove anni. Di media statura e robusta corporatura, aveva i capelli crespi sale e pepe, un viso malmenato che ricordava quello del capitano Haddock di Tin Tin, ma la barba era candida, non nera. Niente pipa stretta tra i denti, che giocavano invece ossessivamente con un sigaretto pendente da un angolo della bocca. Indovinai che gli fossero rimasti pochi molari buoni, da come masticava con le labbra e inciampava sulle parole. Alcuni di noi sono come l'inchiostro, altri come la carta: il vecchio era carta sgualcita. Fu gentile. Ci offerse un'acquavite, del caffé riscaldato, i resti di una pizza pasquale nella versione dolce; infine ci raccontò la sua storia. Dapprima, su invito di Gigi, ci disse dei suoi trascorsi da calciatore, con la vicenda dell'incidente ferroviario che gli aveva inciso cicatrici sul torso e sulle gambe. Quindi passò ai dolorosi ricordi familiari.
La storia di Cavajjù.
Seppi finalmente chi era il misterioso Cavajjù nominato da Lise. Cavajjù era il figlio defunto di Berardino. Un ragazzo sfortunato, per il quale i magi d'oriente avrebbero sentenziato: nato sotto una cattiva stella. Il vero nome di Cavajjù era Lorenzo. Aveva perduto la madre durante il parto, e a undici anni già lavorava col padre, alle prese con zappe, carriole e vanghe. Come nel film Conan il barbaro, Cavajjù, faticando sui campi ogni santo giorno, s'era costruito un fisico scultoreo, gambe che erano fusti di quercia, le braccia innervate di muscoli, le mani dure come tenaglie. Nel poco tempo che gli rimaneva, d'estate soprattutto, inforcava la bici e da Castel di Ieri raggiungeva Gagliano, dove giocava a pallone con i ragazzi locali. La sua strapotenza fisica gli aveva meritato il soprannome Cavajju, cioè cavallo. Poi, col tempo, non si sa perché, l'accento era scivolato sulla vocale finale, forse per facilitare le urla dei sostenitori allorché galoppava verso la porta, inseguito da una muta di avversari diventati cani sulla scia del cinghiale: Cavajjù! Cavajjùùùùù... Jemo Cavajjù!
Lorenzo era lo scopo della vita grama di Berardino, che in lui si rivedeva giovane nell'Aquila Calcio. Un pomeriggio di giugno, Berardino chiamò due dirigenti della società rossoblù, disputante il girone sudista della Serie C, per mostrare il campioncino fatto in casa. Lorenzo, un classe 1947, aveva da poco compiuto 17 anni, ma pareva ne tenesse 27 in quanto a complessione. Poco affinato tecnicamente, ingenuo e sprovvisto di discernimento tattico, epperò in possesso di una capacità di corsa, di una potenza e di un istinto al dribbling tali da impressionare gli osservatori. Berardino rimase d'accordo che l'avrebbe portato in città la settimana dopo, per sottoporlo a un provino. Gli ospiti in visita lo rassicurarono:
- Lo passerà senz'altro, vedrai, tuo figlio è una forza della natura. E poi è anche mancino!
Era l'inizio dell'estate, le cicale cantavano le loro meccaniche trenodie dell'accoppiamento, le serate si presentavano dolci ma troppo lunghe per Cavajjù, che non aveva una fidanzata. Due amici per la pelle sì, però, e furono questi due amici, Sebino e Antonio, a proporgli un'avventura: sarebbero andati a mezzanotte all'Ossario e avrebbero infisso un chiodo al centro della croce di teschi.
- Perché? – aveva chiesto Cavajjù.
- Per vedere se hai fegato quanto sei forte: se non ce la fai, allora non sei un uomo!
La notte scelta fu la più propizia, quella tra il 23 e il 24 giugno, la notte di San Giovanni, quando tutti i diavoli escono allo scoperto e le streghe ballano la rumba. Se compiva l'impresa quella notte lì, mentre il campanile di San Martino batteva i dodici rintocchi, allora era un uomo vero. Una ragazza avrebbe messo il grano bagnato di rugiada sul davanzale e sarebbe arrivata presto a bussare alla sua porta. Lorenzo si lasciò convincere. La mattina della vigilia andò a pregare la Vergine Maria all'edicola sua preferita. Trascorse la giornata nei campi a lavorare, la sera tornò a casa e preparò un piatto di lumache cotte all'aglio. Se ne rimpinzò col babbo, attese che questi se ne andasse a dormire e uscì infilandosi un maglione sulla camicia. Inforcò la bici. Le saccocce dei pantaloni se l'era riempite di sale, ottimo contro lu diavule. Nel taschino della camicia, dalla parte del cuore, teneva un chiodo di ferro di dieci centimetri, bello appuntito e che sarebbe entrato nel tabernacolo come un coltello nel burro. Giunto a Gagliano mostrò tutto ai due amici, che gli diedero una pacca sulle spalle, immaginandosi già lo spasso:
- Jamme Cavajjù!
Ma loro si guardarono bene dall'entrare nel cimitero. Rimasero fuori. La notte rispettava la sua reputazione: nembi malati strisciavano a livello del terreno tra gli alberi, la luna era larga e sanguigna, in mezzo alle tombe brillavano e sparivano fuochi fatui. A Lorenzo avevano assicurato che si trattava di gas sprigionati dai cadaveri in putrefazione, ma forse erano proprio spiriti cattivi, per cui conveniva sbrigarsi. Bisognava eseguire il lavoro rapido e preciso come quando faceva i gol. Lorenzo aprì il cancello d'ingresso, lo riaccostò, mandò un fischio d'intesa ai due compari e s'inoltrò nel dedalo dei sentieri. Arrivò all'Ossario che mancavano dieci minuti alla mezzanotte. Attese nove minuti, contati sull'orologio da polso; minuti interminabili nel greve umidore di quella notte stregata e temuta. All'improvviso, si levò il verso di un barbagianni: pareva un uomo che russasse dopo un'indigestione. Lorenzo decise che era il momento di agire. Ruppe la catena con un tronchese, strappando tutto con la forza bruta delle mani. La torcia elettrica stuprò l'oscurità già bucherellata dai lumini, il cono di luce lo diresse verso la piastra di rame. I teschi ridevano attorno a lui. L'aria era fredda come fosse gennaio. Cercò di non pensarci. Tirò fuori il chiodo, accorgendosi che sudava e tremava; perfino il chiodo gli ballava tra le dita.
Partì il primo tocco della campana di San Martino, non si poteva indugiare oltre. Col palmo della mano sinistra avvolta in un fazzolettone bianco, colpì la capocchia del chiodo una, due, tre volte. Quello entrò facilmente. Altre tre botte secche: il chiodo s'infisse per un terzo. Le ossa della croce tintinnarono lievemente, lampi di luce piovvero dai lati della caverna, quasi a rimproverare l'atto sacrilego. Lorenzo sentiva, ora, il cuore battergli all'impazzata, le energie abbandonarlo e l'istinto di sopravvivenza suggerirgli che era meglio chiuderla lì. Scacciò il pensiero: che avrebbero detto Sebino e Antonio? La sua vigliaccheria sarebbe stata la favola dei paesi intorno. Doveva dare un'ultima botta al chiodo per garantire la tenuta. Il settimo colpo fu accompagnato da un altro richiamo, più allarmato, del barbagianni. Una ventata d'aria gelida, proveniente da non si sa dove, gli sfiorò la testa. Cavajjù non resistette oltre, girò di scatto le spalle al tabernacolo coll'intento di fuggire, prima che il dodicesimo rintocco gli spaccasse il cranio e l'uccello maledetto venisse a beccargli il cervello. Cavajjù ci provò a scappare, ma non gli riuscì: un artiglio d'ossa emerse dalla piastra acciuffandolo per il collo. Lo tenne fermo, bloccato, inutile scuotere le spalle per liberarsi, quella mano infernale era troppo forte anche per lui. Cavajjù spalancò gli occhi e si arrese alla punizione. Lo trovò Antimo, il guardiano del cimitero, il giorno dopo all'alba. Morto stecchito. Accasciato ai piedi del tabernacolo, un filo del maglione l'aveva legato alla croce, come un cordone ombelicale alla pancia della mamma. Quel filo di lana grigia che gli era parso un artiglio di demone. E il cuore, già affaticato dalla tensione e dal lavoro nei campi, non aveva retto.
La verità.
- Senti, Brù, levami un'ultima curiosità su Cavajjù: ma quell'oggetto che ho visto in un angolo dell'Ossario è veramente un pallone?
Buttai lì la questione mentre sostavamo a una pompa, sulla strada per Roma. Gigi era impegnato a pagare il benzinaio e io e Bruno eravamo rimasti soli in macchina. Sapevo che a quella domanda Gigi non avrebbe mai risposto, per l'amicizia discreta ma riconoscibile che lo legava a Berardino. Bruno mi scoccò uno dei suoi sguardi perplessi, controllò dove stava il fratello – dieci metri distante, era entrato nel baretto della stazione – e si decise a dirmi la verità sul fantasma di Gagliano Aterno.
- Devi sapere che il vecchio non s'è più ripreso dallo shock della morte del figlio. Divenne una specie di eremita, un misantropo sempre più difficile da avvicinare col passare degli anni, tanto che oggi solo Gigi, che è strano anche lui come tu sai bene, lo capisce un poco. Infatti, con la tragedia perse la fede, rifiutò di far seppellire Lorenzo tra le tombe comuni e ordinò ad Antimo di cremare il corpo. Le ceneri furono messe dentro il pallone con cui Lorenzo abitualmente giocava. Per qualche tempo, Berardino lo custodì a casa, in un baule nella stanza del figlio, proprio il pallone che hai notato nell'Ossario. Sono almeno dieci anni che il vecchio matto paga il guardiano per tenerlo lì. Naturalmente, ma queste sono solo voci di paesani come puoi immaginare, il pallone oramai è stregato. C'è chi giura di averlo visto volare tra le lapidi e le croci nelle notti di luna piena. E anche Cavajjù hanno visto, giù al campo sportivo. Le apparizioni avvengono all'imbrunire, quando è ora di tornare a casa. Per questo Berardino, ogni tanto, scende a vedere le partite: spera di assistere a una sgroppata del figlio. E magari a uno dei suoi gol.
Scrutai con attenzione Bruno negli occhi: era terribilmente serio. Avevo una battuta pronta ma me la rificcai nella strozza. Non diceva quel tizio che, quasi sempre, le parole non dette sono le migliori?
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