Marchini Libero Turiddo
Centrocampista, nato a Castelnuovo Magra (SP) il 31 ottobre 1913 (per partecipare alle Olimpiadi, con il benestare del regime fascista, si tolse un anno dalla carta d'identità. Gli annali del calcio riportano quindi 1914), morto a Trieste il 1 novembre 2003. Alcune fonti riportano Turiddu. Cresciuto nella Carrarese, gioca in seguito con Fiorentina, Genoa e Lucchese. Dalla Lucchese, lo acquista la Lazio, dopo che si è laureato campione con la Nazionale alle Olimpiadi di Berlino del 1936 ed aver collezionato altre due presenze con la Nazionale B. Disputa 2 stagioni in maglia biancoceleste. Vincolato con la Lazio, cerca di firmare un contratto con il Torino senza consultare la dirigenza biancoceleste. Il presidente Zenobi lo mette al minimo dello stipendio e lo spedisce per una stagione intera in tribuna pur essendo un giocatore nell'orbita della Nazionale. Gioca in seguito con il Torino e ancora con Lucchese e Carrarese.
Con la Lazio colleziona 16 presenze e 5 reti in Campionato ed una partita con la Nazionale B.
Da "Il Tirreno" del 9 agosto 1999
Il racconto di Libero Marchini, medaglia d'oro con la nazionale olimpica, che non si è mai arreso alla dittatura. L'anarchico campione del duce inventava mille trucchi per evitare il saluto fascista
CASTELNUOVO MAGRA. «E il Fuhrer scese dal palco d'onore dell'Olympia Stadion di Berlino per consegnarci la medaglia d'oro». Che soddisfazione per Libero Marchini, per tutti i castelnovesi Turiddu, ricordare quelle emozioni... Lui, anarchico, figlio dell'architetto anarchico Umberto Marchini, aveva vinto la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Berlino, come punto di forza della nazionale italiana di calcio. All'epoca il calcio era veicolo del fascismo, che cantava al mondo le gesta degli eroi della italica pedata, due volte campioni del mondo e campioni olimpionici. Ma quando l'ala destra Turiddu Marchini vestiva i colori dell'Italia si rifiutava di salutare Benito Mussolini con il braccio teso al termine degli inni nazionali. E circola ancora una foto, scattata alla fine del 1936: stadio Marassi di Genova, l'Italia ha sconfitto per due a zero la Cecoslovacchia. Il Ct Pozzo è schierato davanti agli azzurri, i giocatori sono tutti sull'attenti. Marchini non ci sta e la foto ingiallita dal tempo ce lo consegna mentre finge di grattarsi una coscia. Anche quel gesto gli fu perdonato, come il rifiuto al fascismo, solo perché la sua classe faceva impazzire le difese.
«Sono Libero, di nome e di fatto» diceva mentre i campagni di squadra lo chiamavano «Scugnizzo» per il carattere estroverso ribelle. Era il 1936: l'Italia aveva sconfitto nella finalissima del 15 agosto la nazionale austriaca, di cui Adolf Hitler era originario. Due reti ad uno per l'Italia dopo un tempo supplementare, con doppietta di Annibale Frossi. «Anche la formazione austriaca era uno squadrone progettato per vincere. Hitler ci teneva tantissimo a primeggiare. Figurarsi: abbiamo vinto in Germania. Una gioia indescrivibile. Al rientro fummo anche ricevuti e premiati dal Duce, insieme all'ostacolista Ondina Valle e a tutti gli altri medagliati» ricorda Marchini. Nelle intenzioni del cancelliere tedesco l'Olimpiade doveva essere un elemento di propaganda nazista e chiese alla regista cinematografica Riefhensthal di magnificarne l'imponenza con una pellicola chilometrica: «Olympia». Quando però il velocista e saltatore americano di colore Jesse Owens vinse le quattro medaglie d'oro che lo hanno piazzato nella storia, Hitler, teorico delle leggi razziali, fu costretto ad abbandonare lo stadio Olimpico per non essere costretto a premiarlo di persona. L'Italia era campione del mondo in carica, avendo trionfato nel campionato del 1934, ma non poteva disporre dei Piola, Meazza, perché alle Olimpiadi partecipavano soltanto calciatori che erano iscritti all'Università, dunque solo studenti. Inoltre i giocatori non potevano avere disputato altri incontri con la nazionale maggiore.
In realtà si trattava di un escamotage perché gli effettivi agli ordini di Vittorio Pozzo giocavano quasi tutti in squadre di serie A o B. Ed era facile reperire dei rincalzi adeguati, dal momento che le sostituzioni non erano ammesse ed erano pochi i giocatori ad aver vestito la maglia azzurra. Marchini era fra questi: un'ala destra appena 23enne, tutta estro e sregolatezza, pupillo di Pozzo, ma chiuso in nazionale dal fenomeno degli anni trenta Giuseppe Meazza, capitano della nazionale due volte campione del mondo. Oggi «Turiddu» Marchini, a 86 anni è tornato a vivere a Colombiera con la moglie Giovanna Torello e la figlia Gabriella, lungo la via provinciale che porta a Castelnuovo. Nella casa che fu del padre e dalla quale era partito sedicenne per diventare calciatore. Riuscendovi: cinque presenze nella nazionale maggiore (oltre alle 4 partite nell'Olimpiade del 1936, aveva disputato un'altra partita contro la nazionale Cecoslovacca) e tre presenze con una rete nella nazionale B. Faceva parte del gruppo che ha trionfato nel campionato mondiale di Francia nel 1938, anche se non ha disputato alcuna gara. Ha giocato anche con Sarzanese, Carrarese, Fiorentina, Genoa, Lucchese, Lazio, ha visto crescere e svezzato i ragazzi che avrebbero dato vita al Grande Torino per poi finire la carriera di nuovo con la maglia giallazzurra della Carrarese.
A soli 29 anni perché la guerra aveva devastato la Val di Magra e lui doveva aprire un'attività commerciale, rimboccandosi le maniche ed investendo i guadagni calcistici in un ristorante, per mantenere la famiglia. Poi, quando le spese divennero insostenibili si trasferì a Torino, dove aprì un'edicola e dove il figlio Umberto (come il nonno) si è fatto strada nella Toro Assicurazioni, di cui è dirigente. Marchini ci mostra la velina di un'intervista radiofonica effettuata da Nicolò Carosio, il decano dei radiocronisti sportivi. Si era appena trasferito dalla Lazio al Torino, dopo aver scontato una squalifica di nove mesi, inflittagli dalla federazione per aver firmato due contratti con società differenti, ma in realtà per essersi rifiutato di scendere in campo in una trasferta a Palermo. Era un tipetto tutto pepe Marchini, che sorride sornione mentre ci racconta di come il generale Vaccaro, laziale imbufalito, lo volesse far incarcerare nelle prigioni di Gaeta a causa di quel rifiuto. O mentre ci racconta di come il padre architetto lo inseguiva con il «cinturino in mano» per impedirgli di giocare. Ne voleva fare un architetto come lui.
A lui invece interessava mettere a sedere gli avversari e divertirsi infischiandosene del regime, che era tollerante con gli atleti. E ci racconta che per partecipare alle Olimpiadi, con il benestare del regime, si tolse un anno dalla carta d'identità. Gli annali segnano tuttora il 1914 come data di nascita, avvenuta invece un anno prima. Marchini per altro, oltre ad aver vinto la medaglia d'oro, è stato anche premiato dal Re Vittorio Emanuele, da Mussolini, ed è stato premiato con la medaglia d'oro al valore atletico. «Ancor oggi ci arrivano a casa gli inviti a partecipare alle premiazioni ufficiali dei medagliati olimpici - dice la moglie Giovanna-. Per non parlare dei cacciatori d'autografo: mio marito non ne ha mai rilasciati. Mai. Ogni tanto arriva la lettera di qualche tedesco che ne vorrebbe uno in esclusiva, ma non c'è niente da fare. Mio marito è così: basti pensare che ha la possibilità di assistere a tutte le partite di calcio, in quanto ex nazionale, ma da tempo preferisce vivere ritirato». Ed è l'orgoglio del comune di Castelnuovo Magra che lo ha premiato nell'aprile scorso: si tratta dell'unico campione olimpico nato nel comune della torre. Ad aver vestito i colori della nazionale di calcio. Ed ha vinto in Germania la medaglia d'oro olimpica, ricevendo in dono da Hitler una campana di ceramica, insieme ai compagni. La nazionale italiana di calcio non è mai riuscita a ripetere quell'alloro. Quella del 1936 è tuttora l'unica vittoria.
di Giacomo Giovanelli
Un bel goal di Marchini in un Lazio-Atalanta del 1937
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