La "Brasilazio"

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"Brasilazio" è il termine con cui viene definita la Lazio nel periodo che va dalla stagione 1931/32 alla stagione 1934/35. Il motivo di tale appellativo è dovuto alla massiccia presenza in organico di giocatori italo-brasiliani. Già nel corso del 1930/31 la Lazio aveva ingaggiato i cugini Juan e Octavio Fantoni, detti rispettivamente Ninão e Nininho, provenienti dalla Palestra Italia di Belo Horizonte. Ai due, nell'estate 1931, si vanno ad aggiungere altri sette giocatori provenienti dal Brasile. Il gruppo viene integrato anche da due allenatori destinati, il primo, alla guida della squadra titolare ed il secondo a quella della formazione riserve e alla gestione di tutte le altre squadre del settore giovanile. Il 29 maggio sbarca a Genova dalla nave Giulio Cesare, l'allenatore l'allenatore Barbuy conosciuto con il nome di battesimo di Amilcar e proveniente dalla Palestra Italia di San Paolo. Dopo aver assistito alla partita di Campionato giocata sul neutro di Foligno, Lazio-Legnano 4-0, prende le redini della squadra a partire dalla 32^ giornata fino al termine della stagione, dopo di che riparte per il Brasile.

Torna il 22 luglio sbarcando a Genova dalla nave Conte Verde, unitamente al primo contingente di italo-brasiliani costituito dai seguenti elementi: il mediano Rizzetti, detto Pepe, proveniente dalla Palestra Italia di San Paolo, il terzino Del Debbio e l'ala destra Guarisi, detto Filò, provenienti dal Corinthians e la mezzala Tedesco prelevato dal Santos. Il 6 agosto dalla nave Duilio sbarca a Genova un nutrito gruppo di giocatori sudamericani, tra cui i tre destinati alla Lazio: la mezzala Castelli, detto Rato, l'ala sinistra Demarìa e il mediano Serafini. I primi due provengono dal Corinthians, il terzo dalla Palestra Italia di San Paolo. A fine agosto, a completare il gruppo, arriva infine in Italia l'allenatore Fabbi che aveva precedentemente guidato la Palestra Italia di Belo Horizzonte.

Alcuni giorni dopo il loro arrivo Barbuy, Castelli, Del Debbio e Serafini, intervistati da un cronista de "Il Littoriale", rilasciano alcune dichiarazioni in merito alla loro nazionalità. Pur sentendosi legati al Brasile, per il quale sentono nostalgia, sostengono di sentirsi italiani a tutti gli effetti e rifiutano l'etichetta di italo-brasiliani. Le dichiarazioni scatenano violente polemiche in Brasile. Il quotidiano locale "Jornal dos Sports" riporta integralmente la traduzione dell'articolo de "Il Littoriale" attaccando duramente i giocatori che definisce "Rinnegati" e "Ingrati". Oltre ad essersi "venduti" al calcio italiano, questa è l'accusa, rinnegano anche la loro patria d'origine che è il Brasile. La stagione 1931/32 si apre comunque con la Lazio che ha in organico due allenatori e nove calciatori italo-brasiliani e la stampa inizia a definirla la Brasilazio. Non tutti i giocatori trovano collocazione fissa nella squadra titolare, ma in alcune partite la formazione risulta composta da nove italo-brasiliani su undici. In una occasione poi anche il tecnico Barbuy, a causa delle numerose assenze, si schiera in campo, collezionando così una presenza come calciatore. Il campionato della Lazio però è abbastanza modesto e la squadra si classifica al 13° posto.

Al termine della stagione Barbuy lascia la panchina e torna in Brasile. Con lui anche il suo secondo Fabbi e quel Tedesco reduce da un fallimentare campionato che lo ha visto scendere in campo solo in sei occasioni. Arrivano comunque altri due italo-brasiliani, Leonidio Fantoni, fratello di Juan detto Niginho, proveniente dalla Palestra Italia di Belo Horizzonte e Salatin, noto in Brasile con il nome di battesimo di Duilio, prelevato dal Portuguesa. Il primo arriva in Italia con il piroscafo Giulio Cesare, insieme ai connazionali José Carlos Miliozzi e Felice De Maria (entrambi destinati all'Ambrosiana). Il secondo che sbarca l'8 dicembre 1932 a Genova, sempre dal Giulio Cesare, deve però limitarsi a giocare solo partite amichevoli, in quanto sorgono problemi per il suo tesseramento. L'apporto dei giocatori provenienti da oltre oceano, anche in questa occasione non è sufficiente a far uscire la Lazio dalla medocrità. Al termine del campionato si classifica 10^ con 33 punti e distanziata di ben 21 dalla Juventus, Campione d'Italia.

Nel 1933/34 la colonia brasiliana si riduce di un'unità. Infatti Castelli, dopo aver svolto la fase preparazione e partecipato alle amichevoli di inizio stagione e alla prima partita di campionato contro il Palermo, si imbarca sulla nave Conte Biancamano e fa ritorno in Brasile. Salatin invece, risolti i problemi di carattere burocratico, può essere finalmente tesserato. Anche Juan Fantoni torna momentaneamente in Brasile per rientrare solo nel mese di novembre. Il campionato ricalca quello della stagione precedente, 10° posto con punti 31 a meno 22 dalla Juventus, ancora una volta Campione d'Italia. La stagione successiva, 1934/35, vede la partenza di Rizzetti e Salatin. Il gruppo dei brasiliani si riduce a sette unità che nel corso della stagione si ridurranno a sei, per la drammatica vicenda di Octavio Fantoni che muore di setticemia per le conseguenze di una ferita al naso, riportata durante l'incontro contro il Torino del 20 gennaio 1934. E' comunque questa la migliore stagione della Brasilazio rinforzata anche dal nuovo centravanti Silvio Piola. I punti finali sono 32 punti che fruttano il 5° posto nella classifica finale.

Nell'estate 1935, la campagna acquisti porta una totale rivoluzione nell'organico della Lazio. Tutti i brasiliani tornano nel paese d'origine fatta eccezione per Guarisi che, dopo essere partito con gli altri per il Sud America, torna in Italia solo il 23 dicembre 1935, sbarcando a Genova dal piroscafo "Conte Grande". Viene acquistato Zacconi dal Torino. Si tratta di un altro brasiliano che impropriamente verrà poi considerato, da alcuni, come uno dei componenti della Brasilazio. Non può definirsi però tale perché, a differenza degli altri, è l'unico a non avere origini italiane, arriva alla Lazio dopo due stagioni al Torino e non direttamente dal Brasile e ha modo di condividere solo una stagione con l'ultimo superstite della Brasilazio, ovvero Guarisi. Nel corso della stagione, in Brasile gli ex componenti della Brasilazio hanno modo di riunirsi per celebrare i loro trascorsi con la maglia biancoceleste. L'8 marzo 1936 a Belo Horizonte, sul campo della Palestra Italia, viene disputata una partita che vede di fronte la stessa squadra locale e una selezione definita "Ex-Plaers do Lazio". Con la Palestra Italia sono in campo i tre fratelli Fantoni, Ninão, Niginho e Orlando (che giocherà successivamente con la Lazio), con la selezione altri sette giocatori della Brasilazio ovvero, Del Debbio, Pepe, Duilio, Serafini, Tedesco, Rato e De Maria. Ad arbitrare il match è chiamato Amilcar. L'incontro si conclude con la vittoria degli ex-Lazio per 4-1. L'incasso viene devoluto ai figli dello scomparso Octavio Fantoni.

Il campionato italiano si chiude con la Lazio al 7° posto. Guarisi torna in patria per giocare con il Corinthians, per poi tornare per un breve periodo nel gennaio 1938. Zacconi gioca invece ancora per tre stagioni con la squadra capitolina, prima di lasciare l'Italia alla conclusione del campionato 1938/39.



LazioWiki porta alla luce un interessante articolo dello scrittore, giornalista, drammaturgo e pittore Marcello Gallian (Roma, 1902 - Roma, 1968) che negli anni Trenta collaborò con l'importante rivista culturale fascista "Quadrivio". Egli, con la penna felice del grande scrittore, ritrae con acume e lucidità il gioco della cosiddetta Brasilazio che, data la presenza di molti giocatori brasiliani, si fece ammirare da un lato per l'impareggiabile tecnica e da un altro per la mancanza di concretezza. Un tipo di calcio per esteti ma che, con grande sconforto dei sostenitori biancocelesti, non teneva in gran conto il risultato finale delle partite.

Dalla rivista culturale "Quadrivio" del 5 novembre 1933 - I misteri della "Lazio"

L'articolo di Marcello Gallian pubblicato su "Quadrivio" del 5 novembre 1933

A me piace il mistero: quando gioca la Lazio, corro allo Stadio, mi ficco tra i popolari e mi metto a studiare il campo, la partita e i giocatori come uno sconosciuto generale i piani di guerra. Ci vuol fegato a rimaner tranquilli tra quella folla comune, indignata ed aspra che, nella maggior parte, viene per ridere: i laziali sono pochi, sono un drappello sparuto, inferocito e deluso, simili tutti a congiurati contro l'avversa sorte. Fra i congiurati non manca una donna vestita sempre d'azzurro, larga, robusta, che è capace di tenere a bada coi pugni gli spettatori più turbolenti: gli zigomi sono forti e nudi e soltanto le labbra sopportano uno strato di carminio: certe mani dure e nodose, abili nel pugilato, portano unghie dipinte e qualche delicatezza di vene azzurre, appena affioranti negli attimi di terrore. Per capire qualche segreto della Lazio, bisogna osservare attentamente una tal donna tifosa, che, sotto il gol, spasima e diventa bellissima: la delusione la imbruttisce subito, le braccia dimostrano muscoli maschili: l'avversa sorte la riduce scura e dura sotto il cielo più sereno.

Tale la Lazio: una squadra enigmatica, che nessuna Sibilla riescirà mai a spiegare: inutile affidarsi alle carte, vano interpretare una chiromante. Un gioco sereno, limpido, pulito trova simpatie fra i diversi giocatori che sanno unirsi in parentele fulminee per innalzare un gran monumento al capostipite della razza; ma il monumento non sorgerà mai: il tiro finale non viene, le azioni sfumano dinanzi alla porta avversaria, il pallone sorvola la traversa o rasenta i paletti o piomba a vuoto oltre la linea di fondo. E un pallone, che, mansueto nel gioco in campo, si ribella dinanzi alla porta e scalpita e si rifiuta di entrare e preferisce il vuoto, lo spazio, l'erba del prato, l'acqua della piscina incantevole: non smantella, non sommuove, non bombarda, non fiacca, la violazione non fa per lui, gli ripugna ogni manomissione o contagio o presa di possesso. La Lazio è l'antistoria, si serve di ipotesi sublimi, di trame delicate, di squisite congetture: dinanzi alla porta, fallisce. I simpatizzanti si rodono nel malumore, escono dal campo privi di unghie, i vestiti sciatti e lisi, i volti biechi e sudati. Ormai non gridano più: s'arrovellano, in silenzio, si castigano, soffrono: non saranno premiati mai, nessuna voce li chiamerà a far parte della schiera degli eletti; la città avversaria è inespugnabile.

Sono simili, tutti, alle prime falangi sconosciute e derise d'un qualche sommovimento: sono i patrocinatori d'una fede che un giorno o l'altro dovrà trionfare: per ora s'accaniscono nella mortificazione. Strano destino. Non v'è squadra in Italia che eguagli questa bella squadra; non v'è compagine che possa tenerle testa: se le classifiche non si facessero a punti, i famosi punti, la Lazio terrebbe il primato del calcio. E' una squadra squisitamente letteraria e poetica: le mancano la "zampata", il colpo di testa, l'espugnare feroce e repentino, la salvezza strappata coi denti. Dicono che manchi il cuore. Dicono che non riescirà mai a compromettersi. Barbarossa è un gigante del quale i giocatori della Lazio vogliono ignorare il valore: aborrono dalla carneficina e dallo spargimento di sangue, lottano sotto le mura della città e poi si ritirano per ritornare all'assalto, senza profitto. Eccezion fatta di Del Debbio, il terzino di guardia, tutti gli altri son delicati, gentili ed eccellono in accademia; le finte, le schivate, le astute riprese, i giochi di equilibrio, i pronti ritorni, le volate, i tocchi leggeri, le azioni in miniatura, i progetti di trionfali città smantellate sono il loro forte: gli atleti giocano sognando.

Essi, che sono i campioni della forma, la stessa li deride, la cifra della classifica, la convenzione della misura del valore li spregia: il metro, come il punto, il traguardo come la tabella dei colpi, li assilla invano. Il loro è un gioco senza confini. Bisogna inferocirli, bisogna farli cattivi e perversi, bisogna massacrarli, questi giocatori, a chè un giorno vincano, a chè un giorno si guadagnino la convenzione delle vittorie. Bisogna farli sciatti, maneschi, duri e lontani da ogni misericordia, incapaci di perdono. Vedevo talvolta alcuni questi giocatori, in riposo, quando abitavo ai limiti di Roma, oltre piazza Crati, nei pressi di certe piaghe erbose e libere. C'erano burroni rozzi, nel fondo dei quali giocavano ragazzi. Lontane eran file di cipressi, in ordine e campi ancora di gioco improvvisati da battute di ragazzi accalorati. Sulle prode, seminudi, in riposo, prendevano il sole Guarisi, De Maria e Serafini. I figli razzolanti attorno. I muscoli delle gambe esposti e lenti. Le caviglie premurose tenute in serbo all'aria pura. Così godevano, ora distesi, ora supini, ora seduti in quel dolce far niente, quasi pascolanti.

Mi sembrava, sia detto con sopportazione, che tenessero troppo alla pelle loro. Che si compiacessero a dismisura di quella larga splendida ignavia. In una segreta vanità di campioni, che sappian l'arte dello schermire con eleganza soverchia. O forse anche era visibile in loro una specie di abbandono, quasi un rammarico di non essere incoraggiati a dovere, di non essere valutati nei limiti del loro giusto valore. Mi sembrava anche si riposassero, quasi castigati da una legge diffidente d'omertà. In altre società avvengono scandali, mutamenti, di altre congreghe si conosce vita morte e miracoli: della Lazio poco o nulla; regna il silenzio. Quando è il momento d dare il cuore, questo cuore non viene alla gola. I favori del pubblico avventati e gelosi. Eppure, non v'è squadra che abbia gioco più bello e più meritevole. Ecco quanto appare. Un'indolenza che a volte raggiunge i confini della disperazione. Calligrafi. E a volte, in certe domeniche strane, che sembran nate apposta per creare campi sinceri, quando le porte fremono nell'ansia d'essere violate, il cielo così grosso d'azzurro e l'aria piena, che vieta con gioia ogni gentilezza, allora quei giocatori spronati sembra vogliano divincolarsi a tutta forza dalle strettoie d'uno schema di gioco impareggiabile ma vuoto, d'una eleganza precisa ma priva di conquiste e si dànno a corpo perduto ad azioni brute ma efficaci. Brute nel senso di rozze, forti, sanguigne, capaci di tutto: è un attimo. La porta avversaria frustra ogni intenzione. E i giocatori ripiegano in bell'ordine, sciupando il punto. Allora i laziali, sulle scalinate popolari, si strappano i capelli e bestemmiano, in sogguato, contro la Nemesi. Parlando di comuni mortali, si direbbe, per intendersi: non sanno fare. Oppure: non hanno fortuna nella vita.


I calciatori della "Brasilazio":

Amilcar Barbuy - nella Lazio nel 1930/31 e 1931/32
Josè "Rato" Castelli - nella Lazio nel 1931/32, 1932/33 e 1933/34 (parziale)
Armando Del Debbio - nella Lazio nel 1931/32, 1932/33, 1933/34 e 1934/35
Alejandro Demarìa - nella Lazio nel 1931/32, 1932/33, 1933/34 e 1934/35
Anfilogino "Filò" Guarisi - nella Lazio nel 1931/32, 1932/33, 1933/34, 1934/35, 1935/36 e 1937/38
Maturio Fabbi - nella Lazio nel 1931/32
Juan "Ninão" Fantoni - nella Lazio nel 1930/31, 1931/32, 1932/33, 1933/34 e 1934/35
Leonidio "Niginho" Fantoni - nella Lazio nel 1932/33, 1933/34 e 1934/35
Octavio "Nininho" Fantoni - nella Lazio nel 1930/31, 1931/32, 1932/33, 1933/34 e 1934/35
Pedro "Pepe" Rizzetti - nella Lazio nel 1931/32, 1932/33 e 1933/34
Duilio Salatin - nella Lazio nel 1932/33 e 1933/34
Enzio Enrique Serafini - nella Lazio nel 1931/32, 1932/33, 1933/34 e 1934/35
André Emanuel Tedesco - nella Lazio nel 1931/32
Benedicto Zacconi - nella Lazio nel 1935/36, 1936/37, 1937/38 e 1938/39







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