Olimpicus - Il mio nome è Scudetto

Da LazioWiki.

Il libro di Marco Impiglia

LA STORIA DELLO SCUDETTO E DEI MIEI SCUDETTI di Marco Impiglia

Giusto la settimana scorsa, a piazza della Libertà, col suo curato giardinetto ora intitolato Luigi Bigiarelli, e la torretta che sempre di più sta diventando un punto di raccolta delle memorie storiche della Biancoceleste, ho mangiato paste e vermuth con Fabio, Flavio e Lorenzo, new entry della comunità laziowikista. Senza corse all’ingiro per aguzzare l’appetito, però: l’età più non lo permette. E anche il traffico di automobili, che centoventi anni fa praticamente non esistevano. Ho consegnato a Lorenzo e alla torretta – che nella mia fantasia, troppo ingombra di reminiscenze letterarie, è la Fortezza Bastiani, ultimo avamposto di tranquillità a meno che non si scenda a Fiume, per esempio alla Romana Nuoto un po’ più giù – l’ultimo libro dedicato alla storia dello Scudetto in quanto simbolo: non l’elenco dei campionati di calcio ma le tante trasmutazioni che l’emblema ha subito dai giorni del re Umberto a oggi.

Poi si è parlato a ruota libera, con la passione di chi crede in qualcosa, come si fa tra veri laziali; o fra ufficiali imperiali d’impostazione tardo-romantica, che hanno il problema di sconfiggere la paura di morire. La Lazio di una volta e quella “lotitiana”. Le questioni spinose che infiorano la storiografia delle aquile, oggetto di viscerali dispute come accadeva nella Bisanzio dell’Impero Romano d’Oriente, o ai tempi del Nome della Rosa. Le possibilità di fare un’attività sportiva salubre in una metropoli inquinata da tutto, soprattutto dall’indifferenza dei più. Naturalmente, sono fioccate le domande sullo Scudetto. Quando è nato. Ma davvero fu d’Annunzio? E qual era la sua forma originaria. E quando è divenuto il simbolo semplice e aureo che conosciamo oggi. Argomento non nuovissimo per LazioWiki, già toccato dal sottoscritto.

Le ricerche che ho portato a compimento per pubblicare un volume che incidesse la parola fine alla “storia dello Scudetto”, mi hanno condotto per mano, come un bambino, a scoprire l’errore commesso per un quarto di secolo e oltre: D’Annunzio “inventò” il primo scudetto tricolore, di tipo repubblicano come l’attuale, e tuttavia la sua foggia non era “sannitica”, come supposi nel ‘94 dalle sbiadite foto de Lo Sport Illustrato, bensì “svizzera”. Se non vi urta il paragone (a me no…), come lo stemma della AS Roma. Stiamo nel 1920 a Fiume, e in quegli anni ’20 gli stemmi dei club sportivi spesso avevano la foggia svizzera, magari col monogramma societario. Nel caso del Vate, la maglia azzurra e lo scudetto tricolore senza il blasone sabaudo al centro significavano l’anelito al ricongiungimento alla Madre Patria di una città che gli slavi volevano soffiare al Regno d’Italia, e col beneplacito dei Sabaudi.

Mi ero sempre domandato se ci fosse stato un legame di qualche tipo, tra lo scudetto dannunziano e quello genoano del 1924: quattro anni non sembravano poi un ponte così lungo da percorrere. Ma mi sono dovuto ricredere: nell’estate del 1923 fu un vercellese che stava alla presidenza della FIGC, Luigi Bozino, a fissare una “commissione” incaricata, tra le altre cose, di dare il là a un “distintivo tricolore” per la squadra campione 1924. Quelli del Genoa Football Club, piegati i “voiellesi” del Savoia di Torre Annunziata nella doppia finale nord/sud, che l’anno avanti era toccata proprio alla Lazio di Bernardini, decisero in autonomia quale modello di stemma porre sulle loro maglie. Divise che non recavano ancora il fatidico emblema col grifone al quale ci siamo abituati.

Ma siccome i genoani avevano sulle tessere uno stemma in foggia svizzera che riprendeva l’arme della città – ovvero la croce rossa di San Giorgio in campo bianco – lo copiarono pari pari, anche nelle dimensioni succinte, e lo cucirono col campo tricolore sulle loro maglie. Lo scudo sabaudo sulla pala bianca, giacché erano filo-inglesi e nulla avevano a biasimare in riguardo alla dinastia regnante, al contrario di d’Annunzio. Così, dunque, è nato, in tempi di caos, lo Scudetto: dal caso e dalla volitività in serafica congiunzione. Un po’ come il colore bianco e celeste, o il simbolo dell’aquila, per la Podistica Lazio; con buona pace di chi si ostina a illudersi che noi si appartenga alla schiatta del barone de Coubertin e della sua Grecia olimpiaca. Seppure, un certo Fortunato Ballerini con quelle storie c’entri qualcosa… Dire che si nacque con nel sangue lo spirito dei boschi e del branco lupino è un conto, affermare che Romolo e Remo furono allevati, istruiti e introdotti alla vita adulta da una Lupa è un altro: no? Ma cos’è la Lupa, poi? La stessa cosa dell’Aquila: la Maestà della Natura che tutto insegna.


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Forse i bicchierini di vermuth stanno facendo effetto, giacché mi accorgo di scivolare fuori del seminato. Facile, quando si parla a ruota libera, tra amici laziali. Vi ho detto un minimo dell’apripista dello Scudetto, il pescarese Gabriele; quindi dei padri dello Scudetto, i celti genovesi con il loro “Mister” Willy Garbutt. Ora spetta alla Madre dello Scudetto, che però ha le corna, sprizza fumo dalle narici, raspa e carica come un… toro. Chi ha creato lo Scudetto come oggi lo conosciamo, quello a foggia gotica e “repubblicano”, è stato infatti l’AC Torino. D’Annunzio, Genoa, Torino: ecco la trafila storiograficamente accertabile. In mezzo, tante altre cose: gli scudi sabaudi bianchi e rossi sui camicioni azzurri e lo scudetto “binario” di Benito Mussolini, con il fascio littorio posto “a tenente” dello scudo dinastico, coroncina compresa. Era, quello, il distintivo della squadra di calcio campione d’Italia e della Nazionale, come da foto e da filmati. Ma nel 1945 non più: caduto Lui dal balcone, il duce rampollato dal popolo che aveva gestito da par suo il lascito di una lunga guerra trincea contro i crucchi invasori - e il mio nonno jesino, l’Alfredo, ne sapeva qualcosa - tutto cambiò.

Avete presente quando la terra ha smesso di tremare sotto i piedi e vi guardate intorno? I giocatori del Torino, al volgere dell’estate del 1945, si guardarono negli occhi e decisero di disputare la prima amichevole precampionato, nel vicino Lago Lemano, con una maglia che recasse il simbolo di campioni d’Italia; di fronte, infatti, si paravano i campioni di Svizzera dello Sport Club Losanna. Il caso e la volitività, si diceva. Il Fato, come ammonivano i romani antichi, più saggi e profondi di noi su tanti temi. Per un caso, i torinisti avevano sulle camicie lo stemma grigio e rosso della FIAT, che li aveva sponsorizzati nei due anni di guerra civile. La grande ditta di automobili ora non li aiutava più, propensa a rivolgersi di nuovo alla Juve. Il posto era libero: Sede Vacante, come in certi francobolli vaticani della mia gioventù. Buco da riempire sulle divise di gioco, una volta scucito il vecchio emblema automobilistico e riapparso il sangriento da sotto. Le maglie erano di cotone a maniche corte e un po’ stinte; con un foro rosso oblungo ma squadrato, perfetto per uno scudo a foggia gotica del tipo classico, spigoloso.

Dovete sapere che, in quei giorni al settentrione, e in specie nella Torino operaia abitata da partigiani ventenni che avevano combattuto i nazi-fascisti, di quelli che avevano esibito simboli sovietici sui panni garibaldini, spirava un “venticello” che parlava agli alberi e ai monumenti. Diceva, nella sostanza: vogliamo il socialismo e il comunismo. Fuori dalle palle il re VEIII, il suo figlio imbelle e la corte reale al completo, nessuno escluso. Viva la Repubblica! Del gruppo dei “senatori” torinisti, quasi tutti erano di quell’avviso: si sentivano nella pelle repubblicani e di sinistra. Lo era Guglielmo Gabetto, frequentatore al lunedì della redazione torinese de l'Unità. Lo era il rosso capitano Valentino Mazzola, con le sue origini operaie, il suo amico istriano Loik e l’ex trainer-giocatore Janni. Loro sapevano che, dovunque avessero viaggiato col torpedone, in Svizzera, nel nord del Paese o giù fino a Roma a casa degli americani, quello scudetto tricolore “repubblicano” avrebbe colpito la gente. Se lo misero sul petto, cucito alla meglio, quasi un trapianto di cuore, e via col football. Così è nato lo Scudetto, ragazzi! Da uno slancio politico nel momento in cui si passava dalla monarchia alla repubblica (referendum del 2 giugno 1946). Voltando le spalle al re e al suo balordo accordo col regime liberticida. E giusto lì, a Torino, l’azzurra Torino, dove tutto era iniziato, col Camillo Benso e il Metternich davanti a due tazzine di tè, la chicchera del latte e un piattino di gianduiotti.

Fu un attimo. Il Toro che vinceva, il Toro che costituiva per intero la Nazionale. Uno squadrone azzurro-o-rosso, dominante e furente, la tromba del Bolmida che spazzava via ogni ostacolo, col quale mezza Italia ora si riconosceva, dimentica della Juve del quinquennio, del Bologna che tremare il mondo fa, dell’Ambrosiana-Inter del balilla Meazza. Nel 1947, alla vigilia dei Giochi invernali ed estivi di Saint Moritz e di Londra, Giulio Onesti adottò il simbolo repubblicano dello sport così cortesemente servito dal Torino, aggiungendovi la scritta Italia in campo azzurro, i cinque cerchi in capo e la stellina repubblicana. Era lo “scudetto CONI”. Lo steso anno, la Nazionale disputò a Firenze, ospiti gli amici elvetici, la prima partita con lo scudetto repubblicano, accompagnato dall’esecuzione del Canto degli Italiani, o Inno di Mameli, come mi viene alla mente per atavico retaggio. Nel 1952, sempre a Firenze, il debutto con l’Inghilterra dello “scudetto Italia”. Che è poi quello dell’Europeo del ’68, della semifinale all’Azteca contro la Germania vista sul televisore in bianco e nero a mezzanotte. Per intenderci: lo scudetto più amato da molti di noi. Lo scudetto Italia la nostra Nazionale l’abbandonò nel 1984, quando, per motivi di soldi e di sponsor, si passò al “bollo 3 stelle”. Ma si era fatto in tempo a vincere il Mondiale del 1982 in Spagna, con la piccola modifica della scritta FIGC inserita in verticale sulla pala bianca. Dalla metà degli anni ’80 a tutti gli anni ’90, abbiamo avuto quella specie di bollo ACI, e poi il “logo IP”, blu e giallo. Quindi, al volgere del millennio, il ritorno allo scudetto Grande Torino, soggetto a una grafica di design per renderlo adatto alle necessità del marketing.

Ricordo che lavoravo al Corriere dello Sport e il direttore Italo Cucci mi diceva: “lo Scudetto, caro Marco, l’ha inventato d’Annunzio negli Anni Ruggenti e poi è finito in sponsor”. Certo è che pure il Vate con la pubblicità non scherzava affatto, e nell’anteprima a Fiume c’è un che di profetico. Come è sicuro che la scomparsa a Superga, il 4 maggio 1949, del Grande Torino ha donato allo scudetto del campionato uno stigma di leggenda e di intoccabilità. La nostra Lazio ne ha vinti due di scudetti. Il primo del ’74 mi vide sugli spalti, e ricordo la marea di bandiere biancazzurre e biancocelesti sventolanti al sole come mai più mi è capitato. Fulgenti d’oro e d’argento certe “aquile” che parevano più piccioni da aia ben nutriti. Spettacolo indimenticabile nell’Olimpico aperto dell’epoca. Sullo scudetto del 2000, anche lì posso dire che c’ero. Da solo, senza il babbo al fianco, morto in Africa di malaria undici anni prima. Vi confesso pubblicamente una debolezza che mi colse, un moto dell’animo che, probabilmente, mi rende laziale al di là di ogni dubbio e confronto: al momento del fischio finale della partita di Perugia, raccontata dall’altoparlante a un piccolo popolo di elfi tremante di ansia, quasi al limite del collasso nervoso collettivo, mi scesero sulle gote un paio di lacrime.

Abbracciai metaforicamente (materialmente) il fantasma di mio padre, che sentivo come mi fosse accanto. Nessuno notò il mio strano gesto da matto, tutti si abbracciavano e piangevano. Non si rideva: c’erano sofferenza e felicità commiste, ognuno nelle proporzioni dello spirito suo. L’amore per la Lazio può fare questo, dunque: infrangere per un attimo le barriere dello spazio e del tempo. Sulla scorta di quella esperienza, direi che la “lazialità” ha in sé un qualcosa di spirituale.



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