Sukrü Gulesin Mustafa
Attaccante, nato in un paesino dell'arcipelago dei Principi, Kinala Ada, che dista una ventina di chilometri di mare da Istanbul (Turchia), il 14 settembre 1922 e qui deceduto il 22 luglio 1977. Sul nome del giocatore è necessario un chiarimento: Gülesin è il cognome, mentre il nome proprio è Melaid. Şükrü, parola che in lingua turca significa 'sorridente' è solo il suo appellativo.
Uno dei campioni del calcio turco negli anni '40/'50. Oltre ad essere uno dei nomi simbolo nella squadra del Beşiktaş, e del Galatasaray. Colleziona 11 presenze nella squadra nazionale e 4 gol di cui una delle Olimpiadi di Londra. Viene acquistato dalla Lazio nell'estate 1950, ma entra in ballottaggio con Unzain per il ruolo di terzo straniero. Gioca l'amichevole di ritorno con il Celtic, alternandosi con il paraguaiano nel ruolo di ala sinistra. La scelta cade poi su Unzain e Sukru viene girato al Palermo. Torna alla Lazio a luglio del 1951 per prendere parte alla Zentropa Cup. Disputa poi l'intera e unica stagione 1951/52 in maglia biancoceleste. Attaccante possente (m 1,88 per kg 92) era dotato di un fortissimo tiro, di un ottimo colpo di testa e di grande coraggio. Nonostante la mole era anche veloce e provvisto di tecnica non trascurabile. Nel 1952 viene ceduto al Palermo.
Nel giugno del 1953 prende parte al torneo Calcistico Pretoniano con la maglia del Chinotto Neri. Trasferitosi a fine carriera a Roma, nel 1957 lavorò per lungo tempo come corrispondente del quotidiano Milliyet. Rientrato nel suo paese nel 1961, ha allenato l'İzmirspor Kulüpleri. Poi nella squadra nazionale, in Arabia Saudita nel 1969. Quindi riprese a scrivere sui giornali sportivi turchi. Di carattere spiritoso e disinvolto, era considerato molto arguto. Molto dolore lasciò in Turchia la sua prematura morte avvenuta a soli 54 anni.
Con la Lazio colleziona 29 presenze e 16 reti in Campionato.
Bruno Roghi, su "Il Calcio Illustrato" del 13 marzo 1952, dedica a Sukru un bel ritratto nella sua rubrica "Specchi concavi":
Mi pare che fu in occasione della trasferta di Busto Arsizio per Pro Patria-Lazio che Gulesin Sukru arrivò tardi in stazione. La sveglia non aveva funzionato, o il sonno era stato più sordo della sveglia, o qualcosa di simile. Quando gli dissero che il treno era partito, il povero turco non seppe trattenere uno scoppio di pianto: chi lo vide racconta che le sue lagrime erano rotonde, grosse e trasparenti come le biglie di vetro dei giochi dei bambini. Non voleva darsi pace, era proprio disperato. Un treno successivo lo salvò e, in definitiva, raggiunse i suoi compagni in tempo per sedere in trattoria con loro. Il mio informatore continuò il racconto dicendomi che una frotta di monelli si adunò davanti alla vetrata del ristorante attrattavi dalla solita curiosità di veder mangiare i giocatori della squadra ospite: ma quel Sukru offriva veramente uno spettacolo a sé. Pareva che fosse intercorsa una sfida tra la mole del suo corpo e la mole del suo piatto di tagliatelle. Vinse il turco per una scorpacciata a zero.
L’inclinazione dell’animo e il buon nutrimento fanno sì che l’entrata di Sukru in campo sia l’entrata dell’atleta di cuor contento. La sua indole di giocatore ottimista non è soltanto un dono della sua natura felice e invidiabile: fa parte di quel complesso di accorgimenti psicologici che assistono il personaggio che, consapevole dell’effetto destato nella folla dalla sua comparsa in scena, s’industria a voltarla a suo favore e profitto.
D’acchito, infatti, la gente che lo vede per la prima volta ha un moto istintivo di diffidenza e di antipatia. Questo moto si accentua allorché l’avversario di Sukru – l’ala contrapposta, o il mediano, o magari il terzino – risultano di complessione fisica mingherlina. La gente, fatto il confronto, invidia e detesta nel turno il vantaggio di bilancia: e siccome per i tifosi di lingua sciolta e di immaginazione calda spetta ad ogni gladiatore (di squadra avversaria) la scure metaforica del macellaio in mano, ecco che l’assegnazione di questo attributo sanguinolento diventa di rigore alla semplice apparizione dell’atleta. Sukru lo sa, o lo fiuta nell’aria, o l’ha appreso dall’esperienza: per questo egli illustra il suo faccione rubicondo con la vignetta di un sorriso bonario e cattivante, il sorriso dell’uomo che rassicura le mosche circa le intenzioni evangeliche che guideranno in ogni circostanza la sua condotta.
È il gigante buono per eccellenza, è proprio il caso di dire. Per quanto gli avversari, presa con lui progressiva confidenza, lo urtino e lo sballottino, egli non si lamenta mai. È capace di fare dei capitomboli catastrofici, si rialza sorridendo o, quando proprio l’abbattitore ha esagerato nella spinta o nello sgambetto, scuote il capo più per commiserare se stesso che per protestare per il colpo sleale ricevuto.
La Lazio è una squadra che non soltanto sa stringere il gioco secondo le regole del calcio classico. Se la stuzzicano, la Lazio, sa anche stringere i denti. Diventa allora una coriacea squadra di combattimento che può essere piegata come una sbarra di ferro, non frantumata come un vaso di cristallo. Agisce e reagisce. Ha grinta, come si suol dire con un vocabolo che detesto per i suoi riflessi ambigui, anche se è entrato nell’uso comune per designare le squadre che non scappano davanti alle insidie delle partite scabrose.
Ora parrebbe logico e umano che un Sukru dovesse rappresentare l’atleta di forza e il giocatore d’urto nei frangenti di una gara disputata in chiave di veemenza agonistica. Alto, tarchiato e robusto com’è, gli avversari dovrebbero andare in briciole come biscotti scagliati contro un muro. E gli arbitri, di conseguenza, dovrebbero farne il nome di prammatica da scrivere sul taccuino degli ammoniti e delle espulsioni dal campo.
Non succede niente di tutto questo. Il povero turco è, sì, un incassatore di colpi alle costole e allo stomaco. È, alla sua maniera, lo stoccafisso gigante della Lazio: più lo battono e più diventa morbido e saporito. Più di una volta ho notato che, alla fine delle partite, gli avversari diretti di Sukru, specie se minuti e smilzi, vanno a stringergli la mano. La sua, infatti, è una forza bruta che non impiega mai i mezzi dei quali potrebbe disporre. Il gesto di Antoniotti che in una scenetta fotografata di recente gli stringe la ganascia è meno lo scherzo di un amico che il simbolo della tolleranza divertita di un Gulliver che permette ai pigmei di arrampicarsi sulle sue gambe.
Le folle conoscono e ammirano la fattura di certi suoi goals che hanno l’arroganza delle “puntate reali” che di quando in quando fanno saltare il banco della roulette: sì che t’aspetti che la squadra avversaria si copra di un velo di crespo nero, come d’uso nei casinò. Sono i goals alla Sukru – segnatamente sui calci di punizione – che rintronano nelle orecchie e fanno il fumo delle mine. Non li cerca con gli espedienti della raffinata arte calcistica (taglio di palla, parabole astute, angolini gaglioffi, spiragli impossibili): li conquista, anzi li violenta, con tiri diretti e micidiali, autentici uncini scagliati contro la punta del mento dei portieri. E se il portiere ha ventura, o la disavventura di bloccarli prima che gli entrino a valanga in casa, cinque minuti devono trascorrere prima che si freddino le sue mani: infatti il pallone di Sukru è un pallone che scotta.
Questo i suoi goals. Ma il tipo Sukru è anche nei suoi strafalcioni. Non so se più mi addolorano (per lui) e mi divertano (e gli domando scusa).
C’è modo e modo di sbagliare un tiro. I più lo sbagliano per un eccesso di scrupolo aggravato dalla paura dei fischi: è una categoria che parte dai giocatori diligenti e arriva ai cacadubbi. Altri, invece, lo sbagliano per un eccesso di baldanza che si traduce in disinvoltura allegra nell’affrontare tutti i casi, i facili e i difficili, con la medesima prontezza di decisione e di azione. Chi si è trovato sui banchi di scuola davanti a una traduzione latina sa distinguere i compiti stitici (quelli dei secchioni che per ogni parola consultano grammatiche e vocabolario, donde certi svarioni provocati dalla tormentosa elaborazione) e i compiti ariosi (traduzioni affrontate ad orecchio, sulla spinta dell’intuito, talvolta temerarie e balorde, mai cincischiate). Così dei tiri a rete, i quali, in definitiva, sono i compiti in campo dei calciatori.
I compiti sbagliati del turco, non c’è dubbio, appartengono alla specie degli ariosi: tanto ariosi che non di rado capita che la gente guardi in… aria per scoprire il puntolino della palla spedita in paradiso. Ebbene. La recitavate all’asilo la canzoncina del “pallone rosso e blu – ch’era la gioia e la delizia mia”, e poi un colpo di vento lo porta via, cosicché “sono fortunati i bimbi in cielo – vanno tutti lassù quei bei palloni”?
Tutte le volte che quel grosso simpaticone Gulesin, dalla faccia di cherubino cresciuto troppo in fretta sbaglia la mira e scaraventa la palla in paradiso (per esempio la palla di Inter-Lazio, azione di “corner” al 17’ del primo tempo), quei versetti teneri e stupiti mi tornano in mente: e mi sento sicuro che Gulesin, tra anni mille, quando Allah avrà deciso di fischiare la fine della sua partita terrena, ritroverà tutti i suoi bei palloni ingenuamente sbagliati: gli verranno offerti canditi e caramellati dalle Urì di Maometto che l’aspetteranno giulive e procaci sulla soglia dei cieli.
Gulesin Sukru arriverà lassù a grande velocità: e l’ala che in terra gli serve per le sue discese vertiginose e veementi nei campi avversari gli servirà per salire a volo nei campi celesti dove non si piange per i treni che si perdono e dove non si ride perché Antoniotti ci stringe una ganascia.
Il gigantesco centravanti turco Sukru scherza con Antoniotti
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