Olimpicus - Lionel delle frecce

Da LazioWiki.

Il logo della Sezione Lazio Archery
L'Hotel in La Baule
Bersagli per arco
Un piatto di langoustines
Il "bull's eye" colpito da una freccia

OlimpicusEagle.jpg RUBRICA LETTERARIA "I racconti di Olimpia" di Olimpicus per LazioWiki



Vai al racconto precedente: Ritorno al 1980: il plot di un racconto che non sarà mai scritto

Vai al racconto successivo: L'Uomo che mi volle


LIONEL DELLE FRECCE

Helas!' – esclamai, ricordando qualcosa di Corneille, del Cid o che so io. Ed indicai a Giulio quel che avevo appena visto. Ma il direttore dell'Hotel, monsieur de Noe, si voltò appena e poi fece con aria indifferente:

- Significa che la stagione buona è terminata.

Mi avevano avvertito che, fuori stagione, La Baule era una località balneare che dava i punti alla Costa Azzurra, per chi ama lo spleen dell'autunno alla Michelangelo Antonioni. Lo stesso Hotel dell'Hermitage aveva una dependance come un castello; precisamente, il castello di Maria Cristina di Svezia, la regina ermafrodita. Questo significava qualcosa. Significava che l'Hermitage era di un lusso raffinato, frequentato da personaggi estremi, per lo più matti inglesi e americani. La Baule, poi, era bella per la sua magnificenza panoramica, per l'amplissima costa ad ansa che si protendeva sull'Atlantico e lo stile delle attrezzature che ricordava il liberty dei più vecchi alberghi del Lido di Venezia. Era appunto nella sala di soggiorno della dependance che stavo osservando quello spettacolo singolare. Singolare evidentemente per me e per Giulio, perché per gli altri non costituiva nulla di speciale. Il signore gigantesco, due metri non di meno, appena entrato portava con sé, a parte il reggimento di bagagli di cui si curavano i facchini, un tipo in costume di carnevale, piuttosto grassoccio e piccolino come un bimbo di cinque anni, ma rubizzo in viso. Il tipo lanciava occhiate corrusche mentre l'altro faceva l'indifferente sbrigando le solite pratiche al bureau. Ma la cosa più calamitante e sorprendente, almeno per me e per Giulio, era che a tracolla il tipo – cioè il nano in maschera – aveva una borsa chiaramente destinata a custodire un arco: Hoyt Carbon, si poteva leggere in grandi lettere d’argento. Beh... forse un piccolo arco.

Ad un certo momento, il tipo estrasse da non so dove un enorme sigaro, lo accese e attaccò a fumare come una vaporiera. Fu a questo punto che io dissi Helas!; e fu a questo punto che monsieur de Noe mi disse che la stagione poteva considerarsi finita. Infatti, come venni a sapere continuando a respirare, il Gargantua molto distinto e dall'aspetto trasognato capitava ogni anno a La Baule un paio di settimane dopo la fine dell'estate, al momento in cui gli ultimi testardi esemplari delle greggi dei villeggianti da cento euro a capo sciamavano lontano. Allorché arrivava lui, l'Hermitage aveva ormai occupati ben pochi dei suoi settanta esclusivissimi appartamenti. Però, il casinò funzionava sempre e alcuni dei cuochi di varie nazionalità, selezionati tra i migliori al mondo, non se n'erano andati insieme con la season. Appresi che il cliente imponente, atletico, col viso lungo da cavallo arabo e i baffetti alla Salvador Dalì ombreggiati da un caschetto di capelli lisci e corvini degni di un Winnetou, era un marquis d'oltre Pirenei, e che il suo degno compagnon era pure lui di origine iberica.

- Bravissima persona – aggiunse monsieur de Noe –, ed anche di piacevole conversazione. È molto colto. Dirige il Museo della Biblioteca Nazionale a Madrid. Ma credo che si sia offeso.

- Chi si è offeso?

- Lui, il marchese... quello del nano. Fa sempre così quando non lo prendono in considerazione. E qui nessuno lo prende in considerazione, perché la gente lo fa apposta per non dargli questa soddisfazione.

Giulio mi guardò un attimo, come per dire: sei voluto tu venire qui, no? In autunno! E capii tutto il rimanente senza bisogno che mimasse altro. Era giusto la bizzarria che cercavo, dopo la delusione apatica del soggiorno cinese nell'anno olimpico. Lasciammo l'albergo perché era risalita la marea. Uno spettacolo che fa sempre una discreta impressione. In periodo di bassa, ogni giorno dalle quattordici alle diciannove circa, il mare si ritira per qualcosa come un tre chilometri. Lo si vede nelle ore della siesta occhieggiare lontano come un limite metallico blu d'Assia. Le barche, dipinte di vivaci colori, i motopescherecci, le vele, s'appoggiano allora su un fianco e pare si addormentino sul fondale che il mare lascia scoperto. Poi, alle sette di sera, quando la marea torna a lambire l'immensa spiaggia di La Baule, allora pare che le vele e i battelli si risveglino e tutta la costa ad arco rifiorisca. Dalla greve statica della siesta si passa al dinamismo d'una tartaruga d'acqua dolce appena risvegliata dall'inverno. Il lungomare di otto chilometri si popola di pescatori muniti di sfilatissime canne, nei locali si rianima un poco la situazione con l'odore di moules et frites anche se, ad ottobre inoltrato, sembra quasi che da un momento all'altro possa arrivare il commissario Maigret a svolgere la sua indagine sul vecchio capitano scomparso. E le nebbie non sono poi così arretrate, nella parte alta della clessidra. Qualcosa di simile avevamo veduto negli altri porti bretoni allineati sopra il distretto della Loira, e anche nella vandeana Sables d’Olonne, dove c'eravamo gustati le più squisite zuppe di pesce di Francia, con la groviera dentro, superiori pure al brodetto d'Ancona.

Ma Sables d'Olonne ha quel fenomeno singolare e terribile delle sabbie mobili, che a La Baule non c'erano. Vedevi solo i suoi granchi che camminavano impettiti e scontrosi, pronti a pizzicare. E vedevi il nano arciere. Il sole era già a letto quando ritornammo al castello di Maria Cristina, e il mio Rolex puntava sottilmente quasi alle otto. Il nobile spagnolo stava scendendo in quell'istante dal suo appartamento. Lo incrociammo: era correttamente vestito (per uno come lui...) in un completo Balenciaga verdecrema, e si avviò verso il ristorante fulminando i presenti con occhiatacce molto significative. Questa volta, per attirare l'attenzione, s'era messo l'amico nano sul braccio destro, che teneva a gancio come l'avesse d'acciaio. Il nano, pur seduto in quella posizione incomoda e quasi acrobatica, comunque dominante, stringeva tra le labbra carnose uno dei suoi enormi avana. Vestiva un completo sgargiante di tessuti oltremodo preziosi, e gioielli vistosi di foggia antica, che lo rendevano molto simile ad un paggio medievale. Nessuno si voltò a guardarlo e questo, credo, fu un'amara esperienza per lui e per il marchese, che a tavola lo scivolò delicatamente su un seggiolone rotante. Imperturbabile, il nano, svolgendo volute di fumo aromatico nell'aria (all'Hermitage non valgono le sciocche leggi cui soggiacciono i comuni mortali), ordinò un antipasto di langoustines. Il marchese era intanto impegnato con la carta dei vini. Dissi a Giulio:

- Senti, dobbiamo saperne di più, non ci possiamo lasciar scappare questa cosa.

Un cenno al cameriere, che si portò rapido al tavolo mirabile e ricevette, anche lì, le sue precise istruzioni. Presto ci invitò a trasferirci in un separé all'interno, dopo che il marchese avesse fatto per primo la mossa. Beh, sembrava proprio che l'hidalgo volesse essere sempre lui a stupire. Svolto il rito delle presentazioni – che ci sorprese non poco, dacché venimmo a sapere che anche il nano era un sangue blu, un visconte per l'esattezza, Lionel Sebastian Chupinazo Montjuich y Llobregat –, il marquis, un Alonso de Adar e una sfilza di y, quello il suo identificativo, si rivelò ottimo conoscitore del Cervantes, argomento che m'è caro e sul quale avevo subito dirottato la conversazione, fidando nell'orgoglio nacional logorroico del messere. Ero ancora indeciso se catalogarlo un Don Quixote o un Dalì, ma forse una via di mezzo con qualcosa dentro della struttura atletica di Daley Thompson. Giulio, da par suo, iniziò a discorrere con la creatura partendo dalla nota che ci premeva: l'arco incluso nel bagaglio. Io con un orecchio badavo al francese abbastanza fluente dell'Alonso, mentre con l'altro padiglione captavo i termini tecnici a me consueti: compound, booster, clicker, carter... Il nano parlava di archery con profonda conoscenza. Il suo accento di Barcellona mi spinse ad abbandonare un attimo il Quixote al suo ronzinaggio andaluso e azzardare un: - Lionel Messi, n'est pas?, intendendo divinare che veniva dalla città delle ramblas. Il nobile nano mi fulminò un due secondi col suo sguardo in cui nuotavano occhi ipertiroidei di tormalina, quindi rispose alquanto meravigliato, sollevando le bracciotte paffute:

- Chi è?

Senza attendere risposta, riprese a parlare di riser, burger botton, follow through e di dardi e alette con Giulio. Che, a sua volta, mi donò un'occhiata non proprio di ammirazione. Intanto, e per fortuna, era arrivato sulla tovaglia di lino di Normandia uno stupendo miscuglio di granceole e ostriche, che mi salvò da una situazione a dir poco imbarazzante verso i miei commensali. Ricavalcai col Campeador altri quaranta minuti minimo, e solo verso la fine della strada ritrovai il nano e Giulio. Che con spirito di pietà degno d'un Enea spiaggiato, mi riepilogò quant'era andato scoprendo sull'incredibile Lionel: che era un grandissimo appassionato di archery, e che voleva sfidarci l'indomani a una gara olimpica a dieci volée, lui contro il migliore di noi due. Ma a una condizione: che, tra una salva e l'altra, i tiratori avrebbero dovuto aspirare una boccata di pax cubana. Accettai con l'entusiasmo d'un bambino, le sfide strane mi sono sempre piaciute. Il nano, capito che ero io lo sfidante e ripescatomi dal bouillon de merde anche solo per quello, tirò fuori dai suoi panni di troubadour la confezione degli avana Maria Guerrero, una scatola vintage biancobruna con la classica coroncina, la aprì e mi chiese se la marca mi stesse bene. Sillabai un sì senza riserve, per non offenderlo. Lui sorrise, visibilmente compiaciuto. Giusto in quel momento, il sommelier s'era avvicinato con la lista degli spiriti da dessert. Il nano l'afferrò senza cerimonie e, indicando un Perrier-Jouet Belle Epoque da 570 euro, disse:

- Monsieur, una sfida non ha sale senza un premio. Il premio sarà questa bottiglia che domani sera il perdente offrirà al vincitore.

E l'irripetibile serata praticamente finì lì. L'indomani mattina, alle nove al dipresso, Giulio ed io consumavamo la petit déjeuner a base di tea, far e sablè. Giulio scherzava che dovevo avere molta honte a giocarmi quella posta con un visconte dimezzato sulla distanza di 70 metri, io che passavo per un più che discreto tiratore e, in tempi non remotissimi, prima di approdare alla Lazio Archery in qualità di istruttore speciale, avevo sfiorato la qualifica a un'Olimpiade.

- Il Leonello se l'è cercata – risposi strizzando l'occhio –, la sua sicumera è tale che vorrò vederne la faccia quando gli infilerò qualche nove in serie, e lui con quel suo giocattolo ridicolo che cela nella custodia...

Ma non sapevo quanto mi sbagliavo. L'Hotel aveva uno spiazzo d'erba rasatissima adatto alle esigenze, con un gazebo nero fumo di Manchester ornato di orifiamme. Vi avevamo fatto installare un bersaglio sul battifreccia alla distanza stabilita, due bandierine purpuree segnavano la piazzola di tiro, col sole alle nostre spalle. Era una bellissima mattinata azzurra, una brezza gentile spirava dal mare. A mezzodì in punto, comparvero il marchese e il visconte, sempre vestito come un giullare di corte o che so io. Noi indossavamo la tuta biancoceleste con lo stemma dell'aquila, meno interessanti ma più sportivi di loro; polo a maniche corte e scarpe da barca Blue Envy completavano la mise. Li salutammo con la dovuta cortesia: - Bon dia. Avevo da poco terminati gli esercizi di riscaldamento e stavo provando qualche movimento a secco. Lui – cioè il nano arciere – non degnò di un'occhiata il mio splendido strumento, un Bernardini d'ultima generazione con coppia di flettenti Exe Master. Poggiò, piuttosto, su un banchetto di legno marino una scatola di sigari uguale a quella della sera avanti, la dissigillò ed estrasse la sua miniatura (l'arco, intendo) per cui vidi che era, effettivamente, un Hoyt. Magnifico nell'assemblaggio, a parte il dettaglio d'essere lungo la metà d'un arco ricurvo olimpico standard. E aveva un accattivante colore metallico eppure caldo: direi noce del Serengeti.

- Su misura? – chiesi.

- Bien sur, monsieur. Solo i miei antenati, quando infilzavano da duecento iarde gli inglesi e i francesi, più raramente gli italiani, ne avevano di interi. Ma questo li batte tutti, per precisione e per potenza.

Controllai il mirino e la diottra del mio riser Aladin, d'un rosso sangue di conquistador. Verificai lo stabilizzatore centrale, le astine, tutto il resto, e la competizione ebbe il suo necessario svolgimento. Partii con un blu interno e un rosso esterno, lui con un nero esterno e un blu interno. Quindi aspirammo alcune boccate dai Guerrero. Favolosi! Questa volta, il tipetto non stava su un seggiolone (chissà perché, l'avevo sognato così) ma tirava nella posizione normale, con la differenza che le frecce volavano seguendo una parabola più dal basso verso l'alto, almeno nei primi metri della traiettoria. Non era davvero male: a metà gara mi tallonava a tre punti. Giulio e il marquis ci gridavano i punteggi dopo ogni volée, annotandoli con dei gessi su una lavagna che si passavano l'un l'altro. Una nuvoletta azzurrognola, ma profumata come potrebbero essere le nuvole sopra i giardini dell'Alhambra, gravava ormai sotto il gazebo. Alla sesta volée imbroccai due rossi interni, ma il nano rispose con un rosso esterno e un giallo esterno: il primo della giornata. Cominciai a sentire rivoli di sudore colarmi giù per il collo dentro la polo bianca: bianca come il mio stordimento. Stavo perdendo l'eccessiva fiducia che avevo nutrito sulla scorta d'uno stolto pregiudizio. Il nano era probabilmente il campione mondiale della dwarf archery, se pure esisteva una disciplina simile, magari alle Paralimpiadi. Si giunse agli ultimi tiri, quelli della verità. Con un giallo interno da dieci mi appaiò nel punteggio. Mancava una sola volée, e toccava a me tirare per primo. Calibrai il respiro, sgombrai la mente da pensieri razzistici d'ogni genere, comprese certe recenti letture del conte di Gobineau sull'ineguaglianza delle stirpi umane, centrai due gialli interni e lanciai un belluino grido di trionfo. Giulio applaudì all'impresa, mentre il titanico marquis seguiva placido servendosi d'un binocolo da campo. Credevo d'avere la vittoria in tasca. Ma non sapevo quanto mi sbagliavo. Il nano si posizionò e, con mossa innaturalmente veloce, centrò un giallo interno alla prima freccia. L'ultima la scoccò dopo una interminabile attesa, non senza aver aspirato un extra voluttuoso dall'avana e disegnato due cerchi concentrici nell'aria.

Colse in pieno il bull's eye!

Non potevo crederlo. Aveva centrato un chicco d'uva baresana dalla distanza di tre campi di tennis messi in fila. Gli offersi la destra, forse con un attimo d'esitazione di troppo, e il nano sorridendo m'infilò l'ultimissima nel cuore:

- Helas, lei ha alcuni pensieri sbagliati, mon cher, che le circolano nella cabeza. La valentia d'un uomo si misura da qui a qui... Adieu!

Indicava col pollice e l'indice uno spazio ben definito tra le ciglia cespugliose da nano e l'attaccatura bassa dei capelli rossi da nano. Mi uscì un singhiozzo.



Vai al racconto precedente: Ritorno al 1980: il plot di un racconto che non sarà mai scritto Vai al racconto successivo: L'Uomo che mi volle Torna ad inizio pagina