Olimpicus - Zaccaria biancazzurro d'Algeria

Da LazioWiki.

Annabà, la piazza della stella
Il poster de "L'Intrepido"
Marco ed Alf, Algeria 1974

OlimpicusEagle.jpg RUBRICA LETTERARIA "I racconti di Olimpia" di Olimpicus per LazioWiki



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ZACCARIA, BIANCAZZURRO D'ALGERIA


Prologo: sfida al Ramadan

Il cameriere si avvicinò con lentezza sesquipedale al tavolo, ciondolando stile pinguino mentre teneva in bilico un vassoio di argento lavorato pieno di cose buone sulla mano destra e una brocca d'acqua e zucchero, lune di limone e germogli di menta nella sinistra. Non seppi trattenere un "auff" d'impazienza. Non gli perdonavo di averci messo tanto, considerato che eravamo gli unici clienti del caffé-pasticceria. Al momento. Servì per primo mio padre, il capo famiglia, come da tradizione in Algeria. Quindi mia madre, che ringraziò con un "merci" starnutito dei suoi. Col medesimo garbo, sganciò il rancio a me e al mio pestifero fratellino di undici anni, biondo come un putto del Correggio ma provvisto di due zampine che sapevano rubare e graffiare. Come al solito, mia madre ci aveva azzeccato e io no: per lei e il babbo, un trionfo di tartine di pasta di mandorle, miele, glassa e frutta candita, lavorate a fiori con i capolini gialli, i petali a giri concentrici di mandorle e pistacchi. Alf provò subito a buggerare il fragolone che sormontava un dolcetto biancoverde, ma la maman lo fulminò con lo sguardo: bastava quello per bloccare l'ampiamente previsto abbordaggio di Capitan Uncino. Sul mio piatto, e su quello di Alf, ancora tremavano le pêche melba, dopo il trasbordo di dieci metri sul binario a scartamento ridotto del cameriere-pinguino. Belle pure loro.

Due cupole arancioni butterate di granella e una cordigliera di panna montata tuttintorno, interrotta a est e a ovest dalle palline di gelato alla vaniglia. Afferrai il cucchiaino e strizzai l'occhio ad Alf: la festa cominciava. Enfin! Il mio sbuffo all'indirizzo del garçon aveva un suo perché: l'orologio del Grand Caffé batteva le sette di sera, e la Place de l'Ètoile di Annaba, nella vieille ville, si presentava assolutamente deserta, non un'anima in giro. L'idea di mio padre di andare a "cenare dolce" (pratica antica: sapeva quanto fosse golosa mia madre) nell'ora finale del Ramadan era stata una mossa azzeccata: soli soletti, in un posto che non aveva turismo ma "cooperatéurs" europei con tessera rossa dell'est e dell'ovest, a goderci la frescura di quel martedì 17 settembre 1974 nella più elegante piazza della città. Dai porticati ombrosi proveniva un brusìo di gente in attesa. Sentivo che centinaia di occhi ci scrutavano con un certo malanimo. La fontana a stella, pure, pareva trattenere il suo fluido respiro ed emettere a singhiozzi e con circospezione, per non infrangere il silenzio santificante. In quello strano tempo trattenuto, tintinnavano un ritmo rallentato di xilofono i nostri cucchiaini sui piattini un po' sbreccati di porcellana di Limoges.

Se avessi battuto forte col mestolo sulla brocca di cristallo, il suono prodotto avrebbe mimato la Grande Berta che tuonava contro i fanti nelle trincee della prima guerra mondiale. Naturalmente, il desiderio dell'esperimento covava in me, ma non osavo, ricacciavo indietro il pensiero cattivo, uno scapaccione del babbo sarebbe partito in un microsecondo. Poi, precisa spaccata in sincronia coll'ultimo raggio del sole morente, si alzò la voce del muezzin della moschea di Djamâa El Bey, che annunciava la fine del primo giorno di digiuno per tutti i fedeli. Gli infedeli no, quelli potevano continuare a mangiare e bere. La scena che seguì l'avevo già vista, così che non mi sorprese: piranha all'assalto di una preda in difficoltà nel fiume. Decine, centinaia e infine migliaia di uomini e donne di tutte le età sbucarono dalle viuzze e dai porticati fiocamente illuminati, prendendo possesso del territorio che noi stranieri avevamo dominato fino a un attimo prima. Un tizio più temerario, passando davanti quasi correndo in babbucce con la veste biancorosa svolazzante, ci guardò con intenzione palese, le folte sopracciglia nere inarcate a dire: "Che cavolo ci fate ancora lì? La piazza è nostra, ora!". Quindi sputò un nocciolo di dattero nella nostra direzione. La maman, veneziana di origine e alta quanto la media dei maschi locali con i suoi 36 anni portati benissimo, non si scompose. Con freddezza si alzò dalla seggiola, sfilando la borsetta ciclamino e inanellandola sulla spalla abbronzata da tre mesi di mare. Mossa quasi da giocoliere, cui rispose il babbo che recuperò il portafogli dal tavolo e se lo ficcò nella tasca interna della giacca. Alf e io ci alzammo come soldatini di stagno davanti a un cerino acceso all'improvviso: era arrivato il momento di squagliare. La nostra piccola guarnigione di giubbe blu levò en toute vitesse l'accampamento, prima che Corvo Rosso e i suoi guerrieri ci scalpassero le capigliature e (giustamente) l'appendessero ai loro tepee.

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Tre mesi a ritroso di questa scena, la maman, la piccola Isabella, Alf e il sottoscritto eravamo sbarcati dal piroscafo Palermo-Tunisi, stipati su una 127 Fiat imparruccata da una catasta di valigie e pacchi di pastasciutta tenuti da corde elastiche sul bagagliaio di sopra. Eravamo uno spettacolo ambulante strampalato e non poco curioso, per i tunisini. Soprattutto per la donna al volante! Quattro o cinque maccheroni avevano subito preso la strada di casa delle guardie doganali alla frontiera, il resto era giunto fino alla villa in riva al mare dove ci attendeva il papi, ad Annaba. L'ultimo pacco-scambio di spaghetti acciuffato al volo dalla scimmietta Joujou, che il guardiano della villa, il serio Madjid, antropologicamente di un nulla superiore alla sua amica, pretese come un suo inesplicabile diritto da "les italiens". Era il giugno del '74. La quarta estate che trascorrevamo in nord Africa, nell'Algeria "socialista" del dittatore Houari Boumédiène, dove il babbo lavorava a un progetto nazionale sul mais e il sorgo per conto della Fao. Il progetto aveva una durata quinquennale, come si usava in quel paese che scimmiottava le strategie di produzione dell'Unione Sovietica dalla quale riceveva protezione. La villa apparteneva a una ricca vedova del posto ed era divisa in due parti. La zona principale, col salone e le stanze ammobiliate lussuosamente, da parecchi anni affittata a una famiglia di francesi post-colonialisti, ergo sfigati.

Tipi freddi, intellettuali, vetero-esistenzialisti con i sette volumi della Recherche belli rilegati in cuoio nella libreria di legno di noce. Costoro avevano purtroppo messo in circolazione un ragazzino odiosissimo, Jean-Cloud, che Alf e io cercavamo di evitare il più possibile. La parte più interna della villa, tre vani e una cucina provvista di un ampio giardino, era tutta nostra. Il serio guardiano Madjid, e la subdola Joujou, abitavano la casina a sé stante che legava le due aree. In una maniera che ci costringeva sempre a transitare davanti all'ingressino a tre scalini, dove i due stavano seduti a osservare le cose del mondo sulle quali il destino gli aveva concesso un minimo arbitrio. Ah, il destino, il fato, inshallah: devo dire, a questo punto, che nella presente storia il destino gioca un ruolo. Un destino arabo che influì, in una misura che solo un jinn annoiato potrebbe per gioco rivelare, sullo scudetto della Lazio del '74. Esagero? Oh sicuro! Quando si scrive una storia, vera o di fantasia che sia, si esagera sempre, solo le memorie dei carcerati tendono a minimizzare. Ma giudicate voi...


A pesca col papi

Per cento giorni all'incirca, dall'ultimo di scuola alla riapertura delle classi a fine settembre, le nostre giornate di ragazzini romani degli anni settanta in vacanza lunga in Algeria si aprivano sovente nel modo che vado a descrivere. La routine era precisa: sveglia alle quattro di notte al canto del muezzin di Zaiki, alzata alle cinque alle prime luci dell'alba, colazione veloce a base di frutta fresca e due minuti a piedi per raggiungere l'immensa spiaggia di Sidi Salem. Una volta lì, lasciavamo i sandali incustoditi sulla sabbia grigia e fine e cominciavamo il pattugliamento, maschera da sub gialla e pinne di gomma blu, della bassa fascia di mare antistante, alla ricerca disperata di polpi. Disperata perché, con quelle astute bestiacce, che chissà perché in pentola coll'acqua bollente, i pomodori, l'aglio e il sedano non ci volevano proprio finire, la nostra era una guerra aperta. Armati di tridenti di metallo lunghi un metro legati da una cordicella ai polsi, li stanavamo dai loro buchi negli scogli e li inseguivamo per mezzore intere. Tre volte su quattro scappavano, tra nuvole di inchiostro che costituivano il sistema preferito di camouflage della loro specie, e la quarta li cacciavamo in retina. Poi sarebbero stati regalati a Faridà, la ragazza del souk che aiutava la maman in cucina e nel riassetto della casa, oltre a fungere da baby-sitter per la piccola Isa di tre anni. Alternativa ai polpi erano le giovani arzille nascoste sotto la sabbia. L'acqua alle sei del mattino aveva una limpidezza tale che ne vedevamo gli occhietti sporgere.

Trapassarle era facilissimo, e quelle ce le mangiavamo sempre, buone fritte panate o in brodo con i broccoli. Polpi e razze. Di bei pesciotti, con i nostri ridicoli tridenti, non se ne potevano infilzare. Anche se in un'occasione Alf, giusto a riva catturò con le sue mani da muratore junior un grosso cefalo mezzo stordito, che poi la maman non volle cucinare. Per prudenza – disse –, e il cefalo fu regalato al serio Madjid. Quell'estate del '74, però, c'era una novità: avevo convinto la maman a comprarmi una canna da pesca col mulinello, assai sofisticata per quel che ne capivo. Non ricordo il prezzo, ma la acquistammo in un negozio di articoli per il mare a piazza Augusto Imperatore, sotto le arcate. Lei mi avvertì che, comunque, non avrei pescato nulla, perché il babbo, marchigiano degli Appenini, era negato per questo genere di cose, nonostante un giorno le avesse detto che la sua stirpe vantava lontani trascorsi galiziani spagnoli. Conosceva il suo pollo, e io no, che invece mi fidavo del papi e condividevo con lui la fede biancazzurra. Fino all'età di dieci anni, quando lavorava ancora all'ispettorato agrario e prima di partire per l'Africa, mi aveva portato in macchina allo Stadio Flaminio a vedere la "Lazietta", e insieme avevamo sofferto abbastanza per cementare un'amicizia da veterani della guerra del Vietnam. Non potevo immaginare che un tipo tosto come lui (era minuto e alto un metro e sessanta, ma a me pareva tosto lo stesso), gran sterminatore di pernici, beccacce e fagiani allevati in riserva, non sapesse destreggiarsi con una Soldarini ultimo modello. E, al limite, a tirar su i pesci ci avrei pensato io.

Il giorno della prima uscita nella zona del porto finalmente arrivò. Un mattino, il babbo ci fece salire sulla Peugeot 404 – unica in tutta la città per la decalcomania ONU-FAO sulle fiancate – e dirigemmo verso il vicino quartiere di El Boun, dove esisteva una bottega di pesca. La trovammo senza problemi. Alle nove era già aperta e si presentava anche bene, la modanatura esterna in legno pitturato con una vetrina pulitissima (ogni cosa pulita spiccava in quel paese che non era esattamente un modello in tal senso). Vetrina che sciorinava reti, canne, mulinelli e una conturbante cassetta porta-attrezzi in ferro smaltato e ghirigori. Da un lato si poteva leggere, a caratteri latini con la traslitterazione in arabo classico a fianco: "appat vivant". Significava che vendevano larve di mosca, granchietti e vermi. Un dlin-dlon allegro accompagnò il nostro ingresso, segno gentile che il commercio stava lì dall'epoca del colonialismo. Al bancone il "bienvenu" venne da un signore sui sessanta, i baffi bianchi e la capigliatura candida e folta come un Einstein fatto algerino, che immediatamente iniziò a illustrare la qualità delle varie esche al papi. Il mio bravo fratellino, profittando che nessuno apparentemente gli badava, aveva nel frattempo preso a rovistare in un cesto di vimini alto quasi quanto lui e colmo fino all'orlo di cianfrusaglie, scarti di robe smerciate a un dinaro al pezzo; in un attimo, se ne era infilate nelle tasche sformate dei calzoncini almeno una dozzina: sugheri, manovelle, piombi, pesciolini e calamaretti finti.

Con la coda dell'occhio avvertivo tutto questo. Ma le mie pupille erano state attratte, come limatura di ferro da un magnete, verso l'angolo in alto sulla sinistra del bancone. Appesa alla parete con lo scotch, c'era l'ultima cosa al mondo che avrei mai immaginato di vedere in quel posto: la Lazio! Era il poster che l'Intrepido aveva regalato a ottobre dell'anno prima, gli undici di Tommaso Maestrelli in tenuta bianca e bordi azzurri. Il nero Pulici al centro, Chinaglia e Wilson ai lati, Martini, Frustalupi, Garlaschelli e Re Cecconi accosciati. Gli artefici più importanti dello scudetto appena vinto ci stavano tutti, in quel manifesto a colori che aveva già acquisito il sapore del tempo passato. L'"ahioo!", emesso sottovoce dall'Alf, interruppe lo stato di sogno in cui ero precipitato per via della visione celeste. Un tipetto più o meno della mia età, sui tredici-quattordici, aveva afferrato al volo e con fermezza il polso del ladro, invitandolo a riporre la refurtiva sul marmo del banco: "Così la contiamo e facciamo la nota". Alfredino eseguiva con evidente malavoglia l'operazione imposta dall'inatteso ufficiale della Gendarmerie. E intanto mi guardava, gli occhioni nocciola spalancati che supplicavano di non allarmare il babbo, indaffarato a valutare un impasto di pane francese, formaggio bouhezza e zafferano.

"Oui, oui, il n'y a pas d'importance, le petit voleur à les mains longues". Il ragazzo, biondiccio anche lui a dispetto della carnagione appena olivastra, e in possesso di occhi incredibilmente celesti, indirizzò verso di me un silenzioso "Oui", mentre controllava la situazione con il cliente e l'Einstein, che in quell'istante intuii fosse suo padre. Allora, senza ulteriori indugi mi presentai, allungando la destra: "Je suis Marco, je viens de l'Italie". "Zakaria" – rispose lui sorridendo – et j'aime beaucoup la Lazio. Fu così che conobbi Zakarià, o meglio Zak, l'unico aquilotto dell'Algeria. Non ci fu tempo per ulteriori approfondimenti. Il babbo si riavvicinò con l'aria soddisfatta. Monsieur Youssuf era riuscito a convincerlo a comprare esche e impasti per una settimana, più due rocchetti di lenza e alcuni galleggianti giusti per la pesca a lancio dalla riva e la traina dalla barca. Salutai con un "vedrai che tra pochi giorni torneremo, e se sei della Lazio tornerò anche solo per parlare con te". Zakaria sorrise nuovamente, con più timidezza della prima volta. Come andò la pesca quel mattino? Disastrosamente. Mio padre non ci capiva un tubo, come aveva detto la maman. Ogni volta che eravamo andati a prendere in alto mare i "pompiers", i giganti rossi che salivano dalla profondità di cento metri con la bolla dello stomaco fuori della bocca (quando salivano interi, perché la maggior parte delle volte arrivavano tranciati a metà dai morsi degli squali, gli enormi ami di ferro brunito spaccati come niente), i pescatori professionisti che ci ospitavano avevano compiuto loro tutte le operazioni. Il nostro divertimento era stato assistere allo spettacolo e fare un po' di traina nel viaggio di ritorno; infine comprare il dentice più bello.

Fatto sta che il papi spacchettò sul posto il mulinello a bobina fissa, cromatissimo e ora scintillante al sole. L'appoggiò sul parapetto del tratto di mare nella zona del porto che aveva individuato su consiglio di Salah Merdasì, il suo attendente al lavoro, e trafficò non poco per giuntarlo alla canna. Io lo osservavo dubbioso ma ancora rispettoso, ogni secondo più cosciente del casino in cui ci stavamo cacciando. Alf, servo tuttofare, intanto preparava la prima esca per l'amo: una pallina gialla di pane, acqua e formaggio cui aveva aggiunto, artisticamente e senza motivo, un ciuffetto di rosei bigattini. Armata la canna, il babbo la porse a me per il lancio d'apertura. Il parapetto strapiombava per almeno dieci metri. Sotto, però, nessuno scoglio ma il rassicurante blu. Portai il braccio destro all'indietro ed eseguii il lancio da manuale. M'aspettavo il sibilo del piombo che viaggiava rapido nell'aria dritto davanti a me, e poi il "pluff" a distanza. Senonché, il piombo partì sgangheratamente verso l'alto e qualcos'altro partì verso il basso: era il mulinello, che il babbo non aveva ben fissato al sughero del manico. Il mulinello col suo peso trascinò con sé il filo e si creò, in un attimo, un garbuglio tale che non sapevamo più letteralmente che pesci pigliare. Provammo a recuperare il mulinello, sparito giù in fondo all'acqua, ma non veniva su: la canna era diventata una gru dal cui vertice fortemente incurvato pendevano e s'intrecciavano due fili che sparivano a mezz'aria.

Il papi cominciò a guardarsi intorno, temendo che qualche passante si interessasse alla scena dei "francesi" imbranati. Per il momento, fortunatamente, il dramma non aveva spettatori, con l'eccezione di un micio che ronzava intorno al secchio profumato di esche. Ricordo che sudavo parecchio anch'io. La vergogna era tanta. Alf ridacchiava, accovacciato per terra all'indiana coi ginocchietti da elefantino rossi e spellati. Non lo si poteva nemmeno picchiare: era l'unico che aveva svolto il compito per bene. Insomma, ad un certo punto, realizzando che tutto era perduto, ci acchiappò il panico e decidemmo di scappare. Con la forbice speciale tagliammo i fili. La canna era di nuovo libera, il mulinello invece era andato. Raccogliemmo le quattro cose sparpaiate ai nostri piedi e risalimmo come rapinatori di banca in macchina. Alla maman servimmo una bugia a metà: un grosso, grossissimo essere, magari una verdesca avventuratasi nel porto dietro una nave (le mie nozioni di ittiologia), aveva "strappato" in modo tale da far saltare il piede di fissaggio della canna; forse non tanto perfetta come sembrava.

Che fosse il caso, al ritorno a Roma, di protestare col tizio che ci aveva venduto il set? La maman ci squadrò solo un istante con i suoi occhi verde smeraldo. Quindi guardò Farida, imbarazzata in un canto, la mano sulla bocca a celare i denti bianchissimi. Senza commenti, ma con un gesto della testa che esprimeva molto bene il suo pensiero, riprese l'opera di sbattitura dei materassi in giardino. A pranzo, niente saraghi e orate col sughetto di banadora ma il solito, ottimo chakchouka tunisino a base di peperoni, cipolla dolce e le quattro uova a quadrato. Per secondo le bourek, sfogliatelle fritte alla carne trita e un misto di puré e spezie; l'acqua minerale Saidà, con la sua bottiglia di vetro celeste, a troneggiare a centro-tavola. Un pasto consumato in silenzio. Come in un racconto di Kafka, la famiglia di animaletti pelosi nella profondità della tana che mangiano auscultando i tenebrosi suoni martellanti dal mondo ostile di superficie. Alf mi rubò una brick e io non mossi un dito. Quel furbo aveva capito. La colpa, la colpa non espiata. L'orrore, l'orrore, l'orrore...


Un nuovo amico

La missione fallita al porto ebbe un effetto mortale sulle mie illusioni di catturare muges, sars, dorades, pagres e pageaux; o magari le loup de mer, cioè la spigola, la fantastica murena a macchie gialle e un bell'esemplare di pesce palla. Il babbo, con la scusa che aveva dei "gravi problemi" al lavoro, s'era eclissato come il sole sul Golgota. Per una settimana lo vedemmo esclusivamente a cena. Una sera portò a teatro la maman, immagino per farsi perdonare la cacchiata. La caccia ai polpi e le giornate trascorse con l'Alf all'ultima spiaggetta di Ain Achir, sulla tortuosa route verso il faro biancoardesia di El Manar che sovrastava la costa occidentale, riempirono il vuoto. Di acquistare un nuovo mulinello assolutamente non se ne poteva parlare. Ma con una lenza più fina, e un galleggiante con i piombini, mi sarei convertito alla pesca a canna fissa. Sul libro che m'ero portato dall'Italia era spiegato come fare. Ci provai. Con l'Alf che innestava i granchietti vivi, strappandogli una zampina che subito sgranocchiava. Credo lo facesse per la mia reazione di disgusto: io leggevo molto, non solo i fumetti ma anche i libri, e avevo fama di essere l'intellettuale della famiglia. La Soldarini, però, telescopica non più di tanto, risultò corta e il galleggiante tondo rimaneva troppo vicino allo scoglio. Abboccavano solo pescetti colorati di scarso valore. Li slamavo, attento a non ferirli, li ponevo nel secchiello, l'Alf ci giocava al terrorista col suo coltellino segreto e infine li ributtavo in acqua mezzi morti. Stupido. Noioso. Insopportabile alla terza volta.

Avrei compiuto quattordici anni di lì a poche settimane e non potevo baloccarmi così, come fossi un pischello senza risorse. Non rimaneva che tornare al negozio di El Bouni. Ci andai da solo, una quindicina di giorni dopo il pasticciaccio. Era luglio pieno. Di pomeriggio, inforcai la bici ed eccomi davanti a Zakaria, intento a strofinare con un panno un paio di mulinelli. Gli spiegai tutto per filo e per segno, perché non volevo che l'amicizia col Zak iniziasse sotto l'ombra di mezze bugie. Non rise, anzi, cercò di scusare la dabbenaggine di mio padre, forse perché Youssouf stava lì accanto e drizzava le orecchie a quel che andavamo dicendo. Mi indicò una canna di bambù sui cinque metri, morbida e flessuosa. Con quella, un terminale diciotto, un flotteur a penna e ami a gambo lungo avrei insidiato prede di un paio di chili. Acquistai tutto e gli chiesi della Lazio. Era chiaro che Zak non si poteva concedere il lusso di parlare di argomenti che esulassero il suo lavoro. Tuttavia, chiarì l'arcano: un giorno che stava dal barbiere, aveva adocchiato sul tavolino una rivista in una lingua straniera. L'aveva presa tra le mani con ardente curiosità, il titolo era "L'Intrepid". Siccome non sapeva leggere i fumetti in italiano, ma gli era piaciuto un articolo sul football, aveva ottenuto dal barbiere di portarsi a casa il giornalino.

L'articolo riguardava la Lazio, e c'era un poster centrale. L'aveva subito appeso in camera e s'era disposto a seguire con la radiolina a transistor le partite di campionato, la Serie A. La trasmissione, col tempo buono, si riusciva a captare la domenica in riva al mare; vero che si perdeva spesso la frequenza e con essa qualche gol, ma l'italiano non era poi molto diverso dal francese e, quando segnava la Lazio, lui lo capiva benissimo. Poiché la domenica era un giorno come gli altri nel suo paese, Zakarià aveva preso l'abitudine di chiedere al fratello Nourredine, di sette anni maggiore, di sostituirlo al negozio. Aveva così mandato a memoria tutti i nomi della squadra vincitrice dello "scudetò", e festeggiato spostando il poster nel luogo dove passava le giornate. "Le captain Wilson" vegliava sul buon esito dei suoi affari; col permesso del pére, naturalmente. Quella storia, tanto semplice, di devozione a una squadra che neppure aveva mai visto giocare, mi commosse. Gli rivelai che non ero della Roma, i lupi giallorossi, ma che anch'io tifavo per le aquile, e che avrei potuto raccontargli del giorno dello "scudetò", perché ero andato allo stadio e m'ero goduto tutto. Zak ne fu contentissimo. "Jmil!" (bello), disse, visibilmente estasiato. Mi diede appuntamento per il giorno dopo, venerdì, lì davanti al negozio. "Andremo a pesca. Con altri miei amici che non ti immagini neppure! Ma non c'è bisogno che porti il bambù, basta la retina per i tanti pesci che prenderemo". Con questa misteriosa promessa, un pizzico in contraddizione con i cinquanta dinari che avevo appena sborsato, ci salutammo, consacrando il patto con una stretta di mano. Dopo tre anni di zero assoluto, mi ero fatto un amico in Algeria. Un aquilotto, per giunta!


La danza dei cefali

Il mattino dopo, alle otto in punto ero sul posto. Erano bastati dieci minuti in sella alla mia Legnano, su strade percorse da rare auto e da un'infinita teoria di carretti trainati da muli. Le Peugeot, le Renault e le Citroën se le potevano permettere solo i commercianti più agiati e quei bravi signori che intrallazzavano nel governo. La corruzione imperava, nell'Algeria militarizzata di Boumédiène. Zak era già lì, pure lui gommato. Pedalammo verso il porto, la meta era la spiaggia dei Giudei a pochi chilometri da El Boun. Viaggio agevole, anche se quasi mi scontrai frontalmente con un acquaiolo. Zak pigiava forte sulla sua bici verdolina assemblata da lui stesso su un telaio Rochet. Les Juifs non era lontana, allorché mi segnalò di accostare. Da una rupe, alta forse trenta metri, si scorgeva sotto un gruppetto di scogli piatti dove stazionavano sei ragazzi a torso nudo. Zak salutò e quelli risposero in arabo: "Mhrbana alhak!" - Ciao fratello. Sembrava non esserci un modo per raggiungere il gruppo giù in fondo all'abisso. Ma Zak, dopo aver assicurato con una catena le bici a un muricciolo, scostò la barriera di cespugli e s'infilò, strisciando sul ventre, in una minuscola entrata buia.

C'era un sentiero, che dalla carreggiabile non si vedeva. Scendeva a piccoli salti nella terra friabile commista alla sabbia e alle pietre, ingoiato dalla macchia mediterranea. Un pungente aroma di rosmarino, menta e gelsomino rinfrescava l'aria, per il resto piuttosto pesante. Piccoli lavori rozzi in malta e pietra aiutavano nei punti più a rischio. Il mio amico mi invitò a riporre i sandali nella sacca; ci aveva anche la corda per legarli dietro la schiena, era uno che pensava a tutto. Ad un dato momento, circa a metà discesa, ci trovammo davanti a un salto di tre metri e dovemmo superarlo aggrappandoci a un fil di ferro installato di lato. Mi sentivo uno scalatore dell'Himalaya ed era una sensazione nuova: il "K2" della madonnina dell'Olimpico pareva nulla a confronto! Pensai a quanto si sarebbe divertito l'Alf, che per quel genere di cose impazziva. Ma gli avevo detto che me ne andavo lontano a pescare, e che lui la bici non ce l'aveva e quindi doveva rimanere a casa con la mamma e la sorellina, e poi gli avrei raccontato tutto. Quasi mi aveva sputato in faccia per la rabbia. Aveva preso la canna di bambù e mimato un brutto gesto che non avrebbe dovuto appartenere a una creaturina così tenera e carina. Seppure milanista.

Dopo un ultimo tornante e un quarto d'ora di prudente discesa mani e piedi, improvvisamente si aprì uno squarcio di luce sulla destra e apparve il mare. Il barbaglio del sole sull'acqua, pressoché immobile, creò geometrie sfuggenti e mi ferì per un attimo le cornee. Ero miope e portavo gli occhiali per leggere o quando mi serviva distinguere i dettagli del mondo. Ma in occasioni come quelle preferivo lasciarli a casa, soprattutto per non rischiare di perderli. L'avventurosa discesa era evidentemente terminata. Zakaria balzò come un ginnasta in mezzo ai suoi amici e li abbracciò uno a uno con affetto. Quelli lo chiamavano "Zwawi", il suo nome di battaglia. Compresi immediatamente che mi trovavo al cospetto di una sorta di reparto operativo, con un capo denominato Rais. Zak mi presentò al Rais, il cui vero nome era Hassan. Alto una buona spanna più di me, quindi sul metro e settantatré, teneva i capelli neri tagliati corti e aveva un fisico asciutto e muscoloso. La "tartaruga" certo non se l'era costruita in palestra, ma svolgendo lavori pesanti come molti giovani di Annabà. Hassan sorrise e mi rivolse il benvenuto, quella frase araba internazionalmente nota e che a noi italiani suona "salamelecco". Aggiunse: "Tamurt?". Il mio scarso vocabolario mi suggeriva che voleva sentirmi dire da quale paese provenivo. Anticipai la traduzione di Zak e risposi pronto, con la serietà richiesta dalla circostanza: "Rome".

Non sembrò sorpreso. Di sicuro tutti erano a conoscenza del fatto che quel mattino arrivava un amico di Zwawi, ma la cerimonia di introduzione doveva comunque essere condotta a compimento. Bisogna dire che noi italiani eravamo ben visti in Algeria. Ci consideravano alternativi ai francesi, perché il film La battaglia di Algeri del regista Gillo Pontecorvo, cui avevano partecipato i più noti attori algerini, aveva riscosso un enorme successo: a sette anni dalla sua uscita ancora lo davano nelle sale. Inoltre, si ricordavano di Enrico Mattei e del suo tentativo di dare agli arabi il controllo delle loro riserve petrolifere. Per questi motivi, i cooperateurs italiani erano rispettati e nessuno li toccava. Al contrario di quanto capitava ad altri forestieri e specialmente ai russi, che giravano per la città in gruppi numerosi per paura di essere assaliti dai voleurs. Picchiare i sovietici intruppati a pattuglia sul lungomare, rubargli il berretto, un orologio o una catenina d'acciaio (molti erano marinai), valeva una simbolica medaglia di patriota. Immaginai che Hassan doveva saperne qualcosa. Proprio in quel momento, altri due della banda spuntarono come agili Sandokan dal sentiero. Avevano quattro secchi pieni di pasta di pane e pezzi di sarde. Si chiamavano Nadir e Murad, i capoguardia del Rais. Seppi da Zak i nomi dei restanti altri, non facili però da ricordare. Ora in tutto ci contavamo una decina, sparsi a raggiera sulla superficie della banchina di scogli. Il mio orologio da polso diceva che erano le nove passate. Con che cosa avremmo pescato, visto che non si vedeva una canna in giro?

Ma ecco che Hassan gridò "hdhraaan!" (attenzione). Quindi emise un forte fischio e batté le mani levandole teatralmente verso il cielo. Era il segnale che la pesca iniziava. Zak mi disse di sedermi e guardare la scena senza muovere un dito, come d'altronde stava facendo lui assieme agli altri della banda. Due, invece, se ne stavano accucciati in disparte a trafficare su rotoli di lenza avvoltolati a grossi pezzi di sughero. Hassan, l'unico in piedi, impartì secchi ordini in un arabo dialettale sfrigolante di sibilanti. In risposta, Nadir e Murad immersero le mani nei secchi e lanciarono in acqua manciate di impasto, che si frantumarono al sole come una pioggia di manna nel deserto. L'attesa durò pochi minuti. Tutti noi della banda zitti e con le mani sulle ginocchia, a parte Hassan che aveva tirato fuori un rosario a grani ed enumerava in litania i novantanove nomi di Dio. Presto mi accorsi che l'area antistante gli scogli si stava riempendo di scure sagome filanti. Era come un carosello di sommergibili U-boat, ma si trattava di cefali, muges di tutte le dimensioni. "Che succede, cosa aspettano?" – chiesi, a quel punto davvero eccitato, al buon Zwawi. "C'est le moment magique de la grande réunion. Allah avverte le sue creature che l'Uomo ha bisogno di nutrimento".

In effetti, il pandemonio si stava scatenando nei punti in cui il pane era caduto. L'acqua ribolliva per la lotta dei pesci che si disputavano soprattutto i bocconi di sarda. Hassan diede un altro segnale e due della banda rotearono nell'aria le lenze preparate con tanta cura in precedenza. Le manovravano dall'alto verso il basso con grande padronanza, sembravano corsari all'arrembaggio. Ogni lenza terminava in tre ancorette poco distanziate, era piombata pesantemente e fischiava a giro come il volano di un motore. I due, piazzati a qualche metro l'uno dall'altro, al quinto giro catapultarono verso il basso le lenze e "strapparono" violentemente, ognuno nella propria direzione. Volò un piccolo cefalo sopra la superficie schiumante, mezzo agganciato sulla coda. Quello sfuggì alla cattura, ma era solo il primo "engagement" della serie. Una seconda coppia di roteatori prese il posto della prima, che rinculò militarmente per riarmare i marchingegni. Ebbero più fortuna, ché un bel cefalo, di almeno ottocento grammi, fu tirato dalla bocca e planò sullo scoglio con volo rasente. Subito i due ragazzi più giovani del gruppo – gli arrêteurs mi informò Zwawi – lo afferrarono senza misericordia e lo buttarono in una piscinetta. Me ne accorsi per la prima volta che c'era: una vasca costruita in un angolo della piattaforma, utilizzando assicciate di fasciame di barca e una rete professionale da pesca. Era la Cajenna di quel luogo furente. Intanto, una terza coppia era avanzata sul fronte, e questa volta due cefali rimasero bene agganciati dalle micidiali ancorette. Si infilzarono sotto le branchie con tale forza da rendere difficile perfino disimpegnarle. A ritmi serrati, la mattanza andò avanti per un tempo che mi parve infinito.

Estenuante di spruzzi, folle di adrenalina, barbara e crudele, in un alternarsi di pioggia di manna e rampinate velocissime accompagnate da urla belluine. Fino a quando il Rais non diede lo stop. Ero impressionato, quasi sconvolto dallo spettacolo al quale avevo assistito. Sangue dappertutto, i roteatori rigati in viso da strisce di squame e di sale, perfino pezzi di carne di sarda e di cefalo appiccicati sui loro corpi bagnati. Eppure ridevano! La piscina-prigione era diventata un catino rosso dove, tra isole di budelle gialle e violette, pesci agonizzanti stavano mescolati ad altri ben vivi, che giravano all'intorno tentando una inesistente via di fuga. Mentre i roteatori e i guardiani si lavavano dalla sporcizia, Hassan si avvicinò e mi avvertì che al prossimo turno avrei provato anch'io l'azione. Credo che sbarrai gli occhi, perché il Rais rise, e di gusto anche: ma non ero venuto lì per pescare? Zwawi ricevette l'ordine di impartirmi una breve lezione di rampinaggio. Tutti si misero a guardare, sbocconcellando del couscous alle verdure da una ciotola spuntata fuori da nulla: vediamo un po' che combina l'italiano. Le prime prove si risolsero in un mezzo disastro. Non riuscivo a roteare la lenza con la giusta tensione. Ma dopo un dieci minuti di pazienti consigli del mio maestro capii il trucco, che consisteva nella posizione flessa delle gambe e in una particolare torsione del busto inclinato in avanti. Azzeccai un rampinaggio a tre giri: quello a cinque era roba da campioni, occorreva molta pratica per arrivarci.

Con questa rassicurazione del mio amico, formai con lui un engagement nella sessione numero due. Che iniziò verso le undici. Hassan ci dispose nella terza fila. Avevamo quindici minuti esatti per la cattura. Ci mostrò il suo cronometro Aram di fabbricazione sovietica e fece partire il tempo. Lungo la prima parte, toccò solo a Zak di tirar su un paio di pesci. Finalmente, quando già temevo la figuraccia, a una rondata particolarmente "cattiva", per non dire disperata, due delle tre ancorette agganciarono un esemplare di mugil cephalus di almeno un chilo; volò come un pilota di Formula Uno sopra la mia testa e quasi finì direttamente nella piscina! La pesca si fermò all'istante e tutti vennero verso di me a complimentarsi, per primo il Rais. "Tu es de la Qabail, maintenant. Pour toute la vie" – mi disse nel suo francese gutturale, appoggiandomi la mano a pugno sul petto. Un brindisi a base di khchaf, bevanda vinosa dolce con la cannella, suggellò la cosa. Seppi allora che "la Qabail" era il nome del gruppo. Non sarei più tornato a pescare con loro, perché una regola stabiliva di portare un ospite straniero una volta soltanto. E tuttavia, ero uno della "Qabail", e non dovevo dimenticarlo. In effetti, trovo ancora oggi difficile dimenticare una esperienza del genere.


Adieu, cher Zak!

La totentanz con la Qabail mi fruttò cinque cefali, che trionfalmente mostrai alla maman una volta a casa. Alf volle sapere e non credette al fatto che non ci sarei più tornato. Si burlò della mia asserzione che uno dei cefali l'avevo catturato io. Comunque, ora eravamo un cefalo pari: Lazio-Milan uno a uno. Al gol di Pierino Prati aveva risposto "Long John". Rividi Zak solo due altre volte. Due viaggi con la famiglia ad Algeri e a Orano, verso il Marocco, tolsero molti giorni alla possibilità di incontro. Accadde sempre di venerdì. La prima volta, a fine luglio, Zak venne in bici fino alla plage Ain Achir, sciroppandosi il tortuoso tragitto in salita della litoranea. Un bel pezzo di strada sterrata che in macchina impiegavamo venticinque minuti a percorrere. Lo presentai alla maman, nuotammo e pescammo insieme per l'intero pomeriggio. La parte più divertente fu osservarlo mangiare le lasagne al pomodoro, che non sapeva proprio come afferrare con la forchetta. Ma prima ascoltammo alla radio la trasmissione Alto Gradimento. Naturalmente, Arbore e Boncompagni, Bracardi e Marenco non li aveva mai sentiti, con tutti quei personaggi da morire dalle risate come il dottor Marsala, la Sgarrambona e Scarpantibus, l'uccello preistorico dai bizzarri cinguettii. Fortunatamente, quella volta non comparve in trasmissione Malik Maluk, lo scalpellino magrebino mal pagato dai padroni cui indirizzava un "Fangàla, àssara 'ffangàla!" che sarebbe stato imbarazzante tradurre al mite Zak.

La seconda volta che ci vedemmo fu a ferragosto, più o meno. Mi invitò alla pasticceria centrale di El-Djouzia, nella città vecchia vicino al Corso della Rivoluzione. C'ero già stato e sapevo che si trattava della migliore, in quanto a dolcetti locali. Lì, svuotando bicchieri su bicchieri di acqua all'anice e rimpinzandoci di makrout alla crema di pistacchio e griwech ai semi di sesamo, seppi finalmente un po' di cose sul mio caro amico. Intanto, che la sua famiglia era originaria delle Kabilie sui monti di Djiurdjura, e così si spiegavano gli occhi e i capelli chiari, eredità vandala delle popolazioni berbere del nord. Aveva tre sorelle oltre al fratellone, la maggiore già maritata e le altre che aiutavano a casa. Poi seppi che non studiava più, le dieci ore al negozio non concedendogli di frequentare le superiori; aveva intenzione, però, compiuti i sedici, di iscriversi a un corso serale per diplomarsi elettrotecnico specializzato. Giocava a pallone in una squadretta di coetanei ma solo d'inverno, quando il lavoro al negozio diminuiva. Saltando il pranzo, e qualche volta dopo la cena, se ne andava a tirare quattro calci al "qurat alqadm", il campetto di quartiere. Di ruolo faceva il portiere. Senza guanti però, perché in Algeria non se ne trovavano. Gli scarpini sì, quelli ce li aveva! Mi chiese di Felice Pulici e gli dissi del suo stile di gioco; come fosse il senso della posizione il suo punto di forza. Chi dirigeva la difesa era, invece, Pino Wilson, l'elegante capitano di sangue inglese. Zak era come innamorato di Wilson.

Affermò con convinzione che molto merito dello scudetto fosse suo, perché sapeva tenere a freno i compagni e dirigerli con la giusta autorità del Rais. Era come Hassan. Gli promisi che l'estate seguente gli avrei portato una foto con dedica. Avevo appena finito le medie in una scuola che stava proprio davanti alla "casa" della Lazio, mi era capitato di vederlo entrare e avrei trovato il coraggio di avvicinarlo. L'avrei fatto solo per lui. A Zak quasi gli andò di traverso l'anice. "Ce serait fantastique!", disse. Era chiaramente al settimo cielo. La notizia sbloccò come un chiavistello segreto, che fino a quel momento era rimasto serrato. Mi confidò, incespicando sul suo francese nitido nella pronuncia ma incerto nella scelta dei vocaboli, che la domenica della sconfitta per 3-1 allo Stadio di San Siro con l'Inter, temendo che Wilson sarebbe stato beffato come già era capitato, aveva fatto una solenne promessa a Dio: recitare la sunnat nafila, le preghiere non obbligatorie, tutti i giorni fino alla fine del campionato. Allah l'aveva apprezzato e la Lazio aveva vinto! "Merci" Zakaria – gli dissi – J'ai te remercie a nom de tous les supporters de les Aigles!". Mi alzai dalla seggiola e ci abbracciammo. Due laziali in Algeria. Nel 1974. Fu, quella, l'ultima volta che vidi Zak. L'estate del 1975 la trascorsi pure ad Annabà, ma quando andai al negozio mi accolse Nourredine. Il fratellino era morto in un incidente, travolto da un'auto mentre andava a giocare a pallone. Rimasi senza parole, la foto di Wilson stretta convulsamente nella mia mano destra. La donai a Nourredine, e con essa il cappellino di tela con la visiera di plastica che avevo comprato allo stadio. Mi assicurò che le avrebbe messe tra le cose del povero fratello, nella scatola con gli scarpini e la maglia da calcio. Il poster della Lazio in alto a sinistra non c'era più; si notava il rettangolo chiaro dove era stato per quasi due anni. E in mezzo, sorridente, l'immagine di Zakaria.



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