Olimpicus - L'isola dello Zibibbo
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L'ISOLA DELLO ZIBIBBO
Ad Olindo l'idea d'impiantare una sezione canottaggio alla Società Podistica Lazio sugherellò nella zucca un mattino della primavera del 1923, mentre stava steso al sole all'Isola dello Zibibbo. Spaparanzato lì, insieme a Tullio, Alfredo, Romeo, Mario e Alberto, si godeva i raggi timidi sulla riva del Tevere opposta all'Albero Bello. Lo vedo nella mente come se fosse adesso. Volando alta tra le nubi, loro non mi potevano notare, ma io ne avevo una chiarissima visione, di quel gruppetto di amici, macchia bruna sull'oro ad adorare il Sole: il mio generoso Dio Sole. (Sapete, sono pagana anch'io... da innumeri generazioni). E dentro di me sentivo forte la speranza che stava per nascere qualcosa d'importante. L'Albero Bello non esiste più, ma lo potete collocare all'altezza del lungotevere Flaminio, a monte di ponte del Risorgimento, dove stanno i due circoli di canottieri Lazio e Roma. Una volta, Gabriele D'Annunzio, da quelle parti, ci aveva fatto una specie d'alcova d'amore, e anticamente c'era stata una casa appartenuta ad un pittore francese, che pure sulle enciclopedie se ne parlava. Si raccontavano un sacco di storie, tramandate con dovizia di particolari dai fiumaroli, sui morti affogati in quel tratto di golena spoglio d'alberi e di canne. Sì, perché, a fiume si nuotava, tanti anni fa. Uomini e ragazzi andavano su e giù col braccetto romano, e qualcuno già azzardava il craolle australiano, ma i risucchi ne trascinavano parecchi a fondo, e i giornalisti ci scrivevano certi articoli lacrimevoli sulla rubrica: "I rifiuti del Tevere". Storie che poi ci hanno fatto pure una pièce teatrale, e che successo ebbe! È evidente che la fame di disgrazie del popolo è rimasta sempre la stessa: tivvù o non tivvù, webbe o non webbe.
Insomma, di società di canottieri all'epoca ne esistevano quattro o cinque, praticamente come oggi. C'era l'Aniene, c'era la Tevere Remo, e altre che non sto qui a dire. Quei tizi in canotta a righe gialle e celesti, o biancorosse e blu, scivolavano come ragni d'acqua e tessevano le loro avventure su e giù tra i ponti, e dalle banchine della Romana Nuoto e della Rari Nantes gli arrivavano certi insulti che neanche si può immaginare. Roba romanesca, roba forte. Allora i signorini canottieri, i paini coi padri piemontesi, veneti, milanesi e fritto misto, alzavano un attimo il collo come fanno certi uccelli d'acqua prima di tuffarsi a pesce, e con un leggero scatto della testa rispondevano una pernacchia che così esplosiva neanche Totò: l'anatresco grido del fiume, veniva chiamato. Era temutissimo. Lo udii screziare l'aria più d'una volta: era un suono che ti colpiva come uno sputo sulla fronte, proprio in mezzo alle sopracciglia. I canottieri lo riservavano ai loro nemici e a certi generali e ammiragli reduci di guerre post-risorgimentali che venivano a scintillare di medaglie alle feste del club. Solo certe cantilene solfeggiate con le ocarine di coccio dai fiumaroli più incalliti, abbarbicati come pitoni sui rami degli alberi lungo la riva, potevano stare al pari del grido del fiume. Ed è tutta roba del Dio Pan, è chiaro, roba dimenticata da tempo. Ma torniamo a bomba. Vi stavo a dire dello Zibibbo.
L'isola aveva cominciato ad affiorare, per il riporto della terra alluvionale con la fine della brutta stagione, poco prima della costruzione di ponte del Risorgimento, quindi nel 1910 all'incirca. Rimaneva giusto sulla sponda opposta alla sede fluviale della Lazio, vi si accedeva mediante un sentiero, era lunga una cinquantina di metri e profonda una diecina. Ci si andava la mattina perché, al pomeriggio, il sole vi tramontava: i laziali erano frequentatori abituali. Veniva chiamata anche "de' li cornuti", in quanto le coppiette l'avevano prescelta a nido di passioni crepuscolari. Ancora nei primi anni '50 del secolo passato, si scorgeva guardando d'estate giù dal ponte: una lingua di sabbia gremita di bagnanti, con una costellazione di panni appesi ai cardi della riva che parevano fiocchi di cotone su alberi di Natale. Il greve galleggiante dei pompieri e uno sgangherato bar, distributore di gazzosine a pallina, costituivano le sole testimonianze di una qualsivoglia volontà costruttiva. La colonia nacque per caso. Difficile dire esattamente quando, probabilmente in un'era mitica che posso collocare poco prima, durante, o subito a ridosso della Grande Guerra. La storia più o meno è questa: un bel giorno, un barcone di ferro che discendeva il Tevere con un vecchio a bordo s'incagliò nel fondale vischioso della riva destra. Come a certi antichi fondatori di città, quello parve al vecchio un segno del destino, e vi si fermò per sempre. Era il patriarcale sor Nicola, progenitore e capo della Tribù dello Zibibbo. Anni di solitudine gli avevano insegnato che i giorni, nella memoria, tendono ad uguagliarsi, ma che non c'è un giorno, neppure di carcere o d'ospedale, che non porti una sorpresa, che non sia, visto controluce, una rete di mini-sorprese. E la sorpresa dell'incaglio gli sembrò positiva, a quella specie di Noè del secolo elettrico.
Il venerabile capostipite si affrettò a piantare sul fondo basso i pali del gallinaro, cioè il recinto dei cattivi nuotatori, dove i fiumaroli passavano il tempo in lunghi semicupi. Poi tirò su, utilizzando vecchie casse, una casupola sul pontone, di così varia architettura come il caso aveva voluto. Sulle finestre c'era scritto 'Cinzano'; su una parete si leggeva 'il Re dei Saponi', impresso a fuoco in tinta azzurra. La cucina, attraverso un tubo arrugginito, emetteva globi di fumo grassi e nerissimi. Il tutto appariva inclinato, a guisa di Torredipisa nana, lercia e vagamente ributtante, senza una parvenza di razionalità del Bramante o del Palladio. Dapprima, l'arca si popolò di pischelli scalcinati che accorrevano a frotte dai quartieri limitrofi. Poi affluirono, attratti dal fascino della riva folta di salici, i primi cittadini stabili. Il bagnino Giggi fu l'abitante numero due dell'Isola. Quell'alerione non sapeva né nuotare né remare. Le uniche confidenze che lo si vedeva prendersi col fiume era quando, armato di due zucche enormi, annaspava inquieto tra le palafitte del gallinaro. A causa di un tic nervoso, tubava. I primi clienti ne furono sorpresi (anch'io ne fui molto sorpresa...). Allorché si spogliavano nel ventre del barcone, udivano il verso dei colombi tutt'intorno. Ma era Giggi, che eseguiva in un angolo i suoi soliloqui. Un tizio, un giorno, gli chiese perché lo facesse, proponendogli come rimedio di trattenere il respiro per un minuto con un bicchiere d'acqua in bilico sulla testa ogni volta che gli prendeva il ticchio. Sembra che la cosa non ebbe successo, a parte le risate di chi s'era accomodato a guardare lo spettacolo. Il bagnino, er sor Nicola, e sua figlia, la sora Rosa, furono presto raggiunti da un vecchio magrissimo, dall'ascetico volto color mattone e i tratti fachireschi. Il vecchio era veramente un tipo speciale, e i molti anni l'avevano ridotto e levigato come le acque fanno con una pietra e le generazioni degli uomini con un detto. Nominava se stesso: il Professore. Diceva d'essere un pittore, anche se si limitò a dipingere di vernice rossa la baracca.
Fanatico assertore delle virtù terapeutiche delle acque tiberine, il Professore vi si immergeva in tutte e quattro le stagioni, le sorseggiava con voluttà (a' professo', com'è er piscio oggi?...), filtrandole un poco e raccogliendole in un boccale in metallo a scomparsa, del quale era particolarmente geloso. Forse voi non li avete mai visti, perché siete giovani, ma io quei boccaletti me li ricordo bene: erano fatti di ferro o di latta e diventavano piccoli come una scatoletta della Pasticca del Re Sole. Le donne se l'infilavano nelle borse quando accompagnavano ai giardinetti i loro bambini, magari a quelli vicino al Quirinale, col re di bronzo a cavallo e i pischelli che bevevano dalla fontanella cercando di non inondarsi il vestito da marinaretto. Poi correvano a giocare a nascondino utilizzando la garitta abbandonata, ché dentro c'erano ancora le scritte graffiate dei soldati sulle loro morose eccetera. Ma questa è un'altra storia. Poco sportiva direi. Ai tempi della nascita della casina fluviale della Podistica, cioè intorno al 1920, l'Isola dello Zibibbo – che prendeva il nome dal fondatore, bruno di pelle e tondo e grinzoso, con un buon carattere zuccherino, come appunto l'uva passa – era in pieno rigoglio. Vi si poteva inventariare un gran numero di riti e di tipi, stravaganti alcuni, dei quali la colonia si vantava. Vicino, troppo vicino, stava la Tribù dei Polverini. Accanite rivalità di frontiera cominciarono ad avvelenare i rapporti tra le due nazioni, che rimasero tesi per moltissimi anni. Voi siete vermi!, gridavano quelli dei Polverini. E voi siete lumache!, rispondevano gli abitanti dello Zibibbo. Noi abbiamo un assistente universitario!, si gloriava il nemico. E noi un maresciallo dei carabinieri!, ribattevano gli zibibbesi. (Rarità inaudita sul fiume: era il famoso Tigellino, alias Alberto Schiavi, nume tutelare della Tevere Remo e che derivava il suo nome di battaglia dall'aver recitato la parte del favorito di Nerone in uno dei primi film muti).
Una buona carta poteva giocare, però, l'Isola dello Zibibbo, quando veniva messa alle strette: Noi abbiamo un prete! A tale incredibile affermazione, niente era lecito ribattere. Ma non si trattava veramente di un prete, era solo uno studente di teologia scappato dal seminario, detto l'Apostolo. L'Apostolo aveva il cranio lucido come quello dei migliori arbitri di calcio, una vera palla da biliardo. Si caratterizzava per essere un sostenitore intrepido del Cristianesimo primitivo. Approdato non si sa come allo Zibibbo, innario alla mano s'era votato a convertire miscredenti con la scusa d'insegnare il nuoto, lui che a malapena si reggeva a galla. Infagottato in un costume da bagno ascellare, quel moralista irriducibile aveva un ampio spacco nelle mutandine, che ignorava e di cui per anni nessuno lo rese edotto; in tal modo, ciò che diceva dall'alto veniva smentito dal basso. Un nuotatore laziale, che masticava un po' di lingue morte, lo chiamava "iniqua verbis". Altro tipo assiduo era Coccolino, che non aveva nulla a che fare coi detersivi (non ancora inventati, credo) ma si guadagnava il pane come giornalista. Coccolino covava, come tutti i fiumaroli, la sorda ambizione d'attraversare il Tevere dritto per dritto, ossia senza lasciarsi trascinare a valle d'un solo metro dalla corrente. L'atletica aspirazione, unita ad una naturale galanteria, lo spinsero sull'orlo di non poche sciagure, ma se la cavò sempre, grazie alla respirazione artificiale. Taciturno abitatore dell'Isola era, infine, il Pescatore della Fede, un rattrappito vegliardo armato d'un bilancino mezzo bucato che niente di buono mai riuscì a rubare all'acqua. D'inverno portava il cappello a sudovest, come un lupo di mare. A tempo perso, e di tempo da perdere ne aveva a disposizione tanto, si dava pure alla capnomanzia: gli bastava un'occhiata alle prime fumate della cucina per carpire agli Dei, misurando globi e appiccicume, direzione, colore e densità del fumo, tutti i segreti della giornata.
Io pure so' capnomantica, è 'na cosa che abbiamo nel sangue, noi aquile. Vi confesso, anzi, che so' parecchio capnomantica, e a volte mi capita, prima d'una partita di pallone, di capire come andrà semplicemente osservando come sale al cielo il serpente d'un fumogeno. Ma sto' zitta, ovvio, non voglio rovinare lo spettacolo alla gente. (E non mi faccio comprare, io...). Oddio, sto di nuovo divagando... Sarà l'età. Comunque, molti altri personaggi curiosi popolavano, d'estate, la riva dell'Isola dello Zibibbo, quasi cent'anni fa. In un gran miscuglio aristotelico e democratico, sempre schiettamente anarchico. Si vedevano accalcati severi professori e monelli ignoranti cenciosi, ricchi e poveri, bottegai che trovavano naturalissimo accompagnarsi con mendicanti; e nessuno ci aveva il culto della mammona, o doveva chinarsi a raccogliere il rosicchio caduto dalla mensa del ricco, magari cosparso di ciriole fritte, cioè le anguille. Il miracolo lo produceva il Dio Fiume, perché bastava scendere una scaletta per addentrarsi nel regno dei fiumaroli. E là ci si trovava davanti ad un'esistenza raccolta e cronica di melanodermia, orizzontale come l'acqua stessa. Gli abitatori del fosso illustre ostentavano odio e disprezzo per il mare di Ostia e di Fregene, o per il lago d'Albano dove pure qualche cittadino danaroso andava, considerandoli svaghi puerili e villeggiature da strapazzo. Chi arrivava allo Zibibbo, doveva adeguarsi ai regimi tirannicidi della Sancta Simplicitas; così almeno stava scritto su un cartello che rammentava il motto araldico del posto. Coloro che dichiaravano nobiltà d'intelletto o di natali, venivano fatti segno di quel lazzo rumoroso che, come scrisse Anatole France, quel tizio che faceva sante le passeggiatrici, basta ad uccidere violentemente.
La comunità rivierasca dello Zibibbo aveva i suoi riti inderogabili, che non potevano non essere presi sul serio. Il più sacro era la pennata, ed aveva luogo ogni 25 di aprile. Munito d'una lunghissima penna di struzzo (la cosa mi incuriosiva...), strappata a qualche ventaglio stile Impero ed infilata nel retro delle mutandine, ogni zibibbese doveva gettarsi a fiume dall'alto del pontone. Seguiva una parodia di danza acquatica, breve ma intesa e senza lirismi hollywoodiani, per consentire alla penna d'inzupparsi bene prima di passarla al tuffatore successivo. La pennata valeva come rito d'investitura per la nuova stagione. Cosa simbolizzasse, in realtà, non lo sto qui a discutere; immagino solo che Sigmund Freud, quel tizio che studiava la mente della gente, non avrebbe nutrito dubbi in proposito. L'altra cerimonia veramente importante si svolgeva nel cuore dell'inverno, ed aveva a protagonista sempre il Professore. Questi s'abbigliava di paramenti misteriosi e obbligava tutti i presenti ad ingoiare, seduta stante, tre minuscoli pesci-spillo, lessati senza sale. Il rito era poco coribantico e non incontrava il favore del popolo, che preferiva nascondersi e fregare un po' di vino dalla cantina del barcone. Però, non si sa bene perché, la tradizione rampollava ad ogni inizio dell'anno. Si diceva che era cominciata come modo anti-jella, quando su quelle rive qualcuno aveva raccolto il remo sbreccato del Suicida-sur-più-bello. Questa è una storia che venne fuori sui giornali, sempre in quegli anni dell'Olindo, e non so se vale la pena qui ricordarla. Vi do giusto un accenno, ma proprio solo una fettina della torta. Ve la racconterò per intero, per filo e per segno con tutti i dettagli e i retroscena (a me non sfugge niente...), un'altra volta. Perché questa è roba tinta di giallo, un po' strana, anche; l'avesse sentita Moravia, quello che faceva l'indifferente, ci avrebbe imbastito di sicuro un bell'imbroglio.
Insomma, c'era 'sto canottiere giovane e ricco, figlio di commercianti di stoffe del ghetto. Ernesto Coen si chiamava. Le Regie Poste ci emisero pure un francobollo pubblicitario – Ditta Coen appunto –, il pezzo migliore della mia collezione (sì, sono un'aquila che ficca pezzettini di carta colorata in un album: embé, che ciavete da dì?...) fino a che, un brutto giorno, un'amica me lo buggerò, profittando d'un mio attimo di distrazione. Quel ragazzo, Ernesto voglio dire, doveva essere anche lui una specie di lungo francobollo dentellato, appiccicato alla vita con una cellina trasparente e sottile. Era socio del Canottieri Aniene, il circolo che oggi ha come sovrano assoluto Malagò, figlio de' romanisti pure lui, e che all'epoca teneva il galleggiante non all'Acqua Acetosa bensì ormeggiato a ponte Margherita. Per farla breve, il suo cadavere fu ripescato da Tigellino al porto fluviale, un mattino di marzo del 1920. Il Coen, due settimane prima, s'era sparato con una rivoltella mentre scendeva il fiume, giusto alla vigilia delle sue nozze. Fu un caso che suscitò scalpore, perché per la prima volta il suicida era un canottiere, per altro figlio d'uno stimato personaggio della comunità ebraica. Prima di partire con lo skiff in direzione di ponte del Risorgimento, il disgraziato s'era fatto cucire da un lavorante nel negozio di famiglia una tasca speciale nel costume da canottiere, e in quella tasca ci aveva nascosta l'arma. Al momento di lasciare il pontile, aveva detto a Romolo, il custode del galleggiante che lo sconsigliava per il mal tempo: Non fa niente, tanto torno subito! Poi aveva dato due colpi secchi di remo, per staccarsi veloce, ed era sparito nella foschia piovosa. Nessuno l'aveva visto più.
Ciao Ernesto, orevuà. Non vi vorrei spaventare troppo, ma un paio di volte, sempre d'inverno, m'è capitato di vederlo prueggiare tra l'acqua e le canne, con un buco grosso e vermiglio come una mela nella testa. Er Berfagor de fiume, lo chiamo. E poi tiro giù i classici morti. Beh, queste erano le storie dello Zibibbo. Storie che conosco solo io. La tribù s'inoltrò felice anche nella seconda metà del secolo XX, quando ancora continuavano le guerre ai Polverini; guerre d'operetta, combattute per lo più a toppate, cioè a manate di fanghiglia lanciate al volo. Orribilmente tatuati in viso con ditate di limo nero, i capelli adorni di foglie e sterpi palustri, le tribù guerriere s'assalivano lanciando urla che venivano udite fino al livello superiore, quello degli abitanti del lungotevere. I due universi, sotto e sopra, erano nettamente divisi. Affacciate dalle balaustre del Risorgimento, le testoline dei curiosi apparivano come le chiostre angeliche della Cappella Sistina, agli indigeni sulfurei dell'Isola. E questi spernacchiavano, s’agitavano e salutavano strombettanti come un qualsiasi diavolo di Dante. Perché la turba è sempre la turba, non dimentichiamolo. È il porcellum politico. Poi le dighe cambiarono il regime fluviale, la lingua di sabbia si rimpicciolì, fu inghiottita da un'alluvione e con essa sparì lo Zibibbo: un chicco d'uva risucchiato nella bocca di un Dio vorace.
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