La fine di Mussolini segnata da due campioni sportivi
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In occasione del 70° Anniversario della Liberazione, prendendo spunto dall'interessante articolo di Marco Impiglia pubblicato su "Repubblica.it" circa il ruolo svolto dal polisportivo della S.S. Lazio Ivo Bitetti nella cattura di Benito Mussolini, ci pregiamo di pubblicare un altro articolo che il dott. Impiglia ha voluto appositamente scrivere per LazioWiki. Di ciò sentitamente lo ringraziamo.
LA FINE DI MUSSOLINI SEGNATA DA DUE CAMPIONI SPORTIVI
di Marco Impiglia (marco.impiglia@gmail.com)
Gli eventi che, il 27-28 aprile 1945, condussero alla cattura e all'esecuzione di Mussolini sulle sponde occidentali del lago di Como sono, a tutt'oggi, immersi in una foschia che sembra non volersi alzare più. C'è da evidenziare che l'intera vicenda si svolse in maniera assai caotica. Qui intendo sottolineare una curiosa, possibile coincidenza: i due uomini che identificarono Benito Mussolini in fuga e posero termine alla sua vita erano due campioni sportivi, l'uno lombardo e l'altro romano: Michele Moretti e Ivo Bitetti. Di Moretti si sapeva. Bitetti è un nome nuovo, frutto della presente indagine.
Michele Moretti, terzino destro e partigiano di sinistra.
Fatti scendere dall'auto, il duce e la Petacci vennero posti contro il muretto di Villa Belmonte. Mentre "Valerio", imbracciato il mitra, pronunciava la sentenza di morte in nome del popolo italiano, Mussolini non apparve troppo sorpreso e, quando ebbe l'arma puntata contro di sé, gridò con foga: "Viva l'Italia!". Ma il mitra si inceppò e quindi "Guido" estrasse la rivoltella, ma anche da questa non partirono i colpi. Allora "Valerio" mi chiamò, invitandomi a portargli il mio mitra modello Mas 7,65 lungo, di fabbricazione francese. Io arrivai di corsa, tutto si era svolto in un modo così rapido ed eccezionale, in circostanze tanto imprevedibili, con la comparsa di personaggi così diversi che, per un istante, l'idea di dover consegnare a un altro la mia arma mi turbò. Poi [....]
Così Giorgio Cavalleri nel suo bestseller Ombre sul lago. Poi il partigiano "Pietro Gatti" iniziò a sparare. Erano le 16 circa di sabato 28 aprile 1945, a Giulino di Mezzegra, nel Comasco. "Pietro", partigiano della 52esima Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", dieci anni prima il sabato lo passava a preparare la partita della domenica. Si chiamava, appunto, Michele Bruno Moretti ed era stato un giocatore di calcio. Ma chi era l'uomo che uccise Mussolini? Quale la sua vicenda umana? Quali le sue passioni? Moretti era un operaio. Come molti altri operai del vecchio nord socialista, era rimasto "rosso" antifascista anche negli anni d'oro del Regime. Nato a Como nel 1908, suo padre era stato fra quei ferrovieri socialisti licenziati nel 1922 per gli scioperi selvaggi che tanto avevano adirato la borghesia, cui non piaceva che le locomotive si fermassero senza preavviso, in pieno inverno e sotto la neve, nelle bassure della Padania. La storia di Moretti calciatore ha spunti di qualche interesse. Vale la pena raccontarla.
Moretti amò il pallone fin da piccolo. Ingaggiato tra i "boys" dell'Esperia in Terza Divisione, fece il grande salto nel 1925, quando dalla fusione dell'Esperia FC coll'FBC Como sorse l'Associazione Calcio Comense. Nel 1929 entrò nella rosa nella squadra maggiore, giocando in Prima Divisione. Il 1930-31 fu un anno memorabile per la Comense. Gli azzurri, che avevano al timone il magiaro Guido Lukacs, vinsero il campionato segnando 72 reti e con zero sconfitte al passivo. Per quell'impresa, ricevettero dal segretario della FIGC, Ottorino Barassi, una coppa d'argento. Grande merito fu riconosciuto proprio alla coppia dei terzini: Moretti-Farina. Di Moretti si diceva che, per valore e gioventù, avesse le qualità per aspirare a un grande club. Moretti era uno di quei "grevi terzini con la testa fasciata dal fazzoletto – per citare Gianni Brera – che avanzavano risucchiati dal resto della squadra in manovra d'attacco". Solido, grintoso, tipico esempio della "razza operaia" che partorirà Valentino Mazzola e altri esponenti del Grande Torino. In carriera marcò un solo gol, ma nella retroguardia si dimostrò un mastino.
La Comense, come spesso succede alle squadre bene assemblate, alla prima esperienza tra i cadetti rimediò un figurone, guidata in panchina dall'ex capitano della nazionale Adolfo Baloncieri. Il 24 aprile 1930, allo Stadio "Sinigaglia", gli azzurri batterono il Parma 4-3. La domenica successiva violarono il campo del Vigevano e raggiunsero la quarta posizione: a un passo dalla Serie A. Fu quello, però, un primo maggio disgraziato per Moretti, che s'infortunò seriamente. Nelle stagioni seguenti, la Comense ebbe alterna fortuna. La società rimase invischiata in un tourbillon di giocatori, allenatori e dirigenti. Fra i quali ultimi il più munifico fu Bruno Pessina, l'industriale titolare dell'omonima Tintoria Italiana a Borgo Vico e nei cui fabbricati era impiegato lo stesso Moretti. Nel 1936 i lariani retrocessero in Prima Divisione e mutarono il nome in AS Como. Già la stagione prima, Moretti aveva lasciato il club per giocare nel Chiasso FC, nella lega svizzera. La sua militanza in maglia lariana aveva avuto l'atout in occasione di due allenamenti fatti con la Nazionale. Il primo avvenne il 26 marzo 1931. Moretti si trovò a marcare Giuseppe Meazza, mentre lo guidava dalla porta lo juventino Giampiero Combi, passato a difendere la rete degli allenatori. Il secondo incontro ravvicinato con i divi del calcio cadde il 12 febbraio 1932, e questa volta l'avversario fu Attila Sallustro. Vittorio Pozzo lo rimproverò d'essere stato troppo violento nella marcatura. Non è chiaro l'esatto momento in cui Moretti interruppe l'attività di semipro'. Ma poco dopo i trent'anni appese le scarpe da football al classico chiodo. Trovò un lavoro come elettricista-idraulico nella Cartiera Burgo, nel paese di Maslianico, il cui campo sportivo veniva usato dal FC Chiasso. Intanto, si era iscritto al Partito Comunista, frequentando una cellula. Nell'aprile del 1944, ricercato dalla polizia politica, andò a fare il partigiano tra le montagne delle sue zone.
Ivo Bitetti, il pallanuotista della SS Lazio che fermò la fuga del duce.
Quando ebbe a che fare con Mussolini, Ivo Bitetti non era un ex atleta ma un atleta in piena attività. Pochi mesi dopo i fatti, nel settembre 1945, avrebbe vinto con la SS Lazio un campionato nazionale di pallanuoto; titolo che la Federazione Italiana Nuoto (Fin) nel 1946 invalidò su reclamo dell'altra finalista, la Rari Nantes Napoli. Oggi lo scudetto del 1945 non rientra nelle statistiche ufficiali Fin, ma è giusto rilevare che nelle pubblicazioni del Coni fino agli anni sessanta ancora risultava. Classe 1919, figlio di uno dei pionieri della Lazio – Olindo Bitetti, presidente della Fin nel quadriennio 1937-40 – Ivo Bitetti era stato prima nuotatore e poi pallanuotista. La sua stazza fisica (circa 1 e 85 per una novantina di chili) ne faceva un buon giocatore d'attacco. Fu più volte titolare nelle formazioni biancocelesti che, tra il 1935 e il 1940, disputarono la leadership nazionale alle "Rari Nantes" Camogli, Florentia e Napoli. Avendo il papà presidente della Federazione, stava addirittura per andare alle Olimpiadi, quelle di Tokio, poi annullate per via della guerra cino-giapponese. Su questa sua attività di pallanuotista per divertimento (ma studiava alla Facoltà di Economia e Commercio, la stessa in cui aveva ottenuto la laurea Fulvio Bernardini), ecco alcuni passi di quanto ci disse in un'intervista:
Ho iniziato alla piscina del vecchio Flaminio, che allora si chiamava Stadio del Partito Nazionale Fascista. Avevo circa quindici anni e ricordo che come insegnante c'era un ungherese, Imre Szas, che parlava malissimo l'italiano. Presto entrai nella squadra allievi della pallanuoto. (...) Ci allenavamo e giocavamo le partite alle due piscine dello stadio, quella coperta all'interno e l'altra scoperta, davanti alla curva. Il vascone da 25 metri stava proprio davanti ai distinti. Il migliore dei miei compagni era il triestino Aldo Ghira, che è stato considerato per un certo periodo il più forte centravanti del mondo, un ottimo ranista e campione italiano. Lui era mancino, io destro, così giocavamo davanti in coppia. Precisamente Aldo, che tra l'altro studiava da ingegnere, stava al centro, e io a sinistra. C'erano poi il portiere De Angelis, Catalani e il terzino Tamagnini, proprietario di un ristorante. La Camogli, la Pro Recco, la Florentia e la Canottieri Napoli erano le nostre concorrenti più agguerrite. In trasferta partivamo in una decina, di solito in treno. Non avevamo medico o massaggiatore, solo l'allenatore e un paio di riserve. Si andava a festeggiare le vittorie in trattoria, spesso a Trastevere. Alla Casina della Canottieri Lazio ho offerto più di un pranzo a nuotatori e pallanuotisti per tenere alto il morale della truppa.
L'altro merito sportivo di Bitetti è relativo a una disciplina assolutamente diversa e completamente "terrestre": quella della palla ovale. Poiché il waterpolo si giocava nei mesi estivi, il rugby era perfetto come gioco invernale. Un bel rinoceronte come l'Ivo, di sangue casertano (la nonna paterna essendo una baronessa De Sivo, famiglia che aveva dato un ministro al borbonico "re Franceschiello") misto a sangue biellese (città della madre Zoe), risultava adatto per gli scontri nel fango sotto la pioggia. La squadra in cui militò per un lustro fu la bianconera Rugby Roma dei quattro fratelli Vinci, il cui campo rimaneva all'Acqua Acetosa. Bitetti junior partecipò alla conquista degli scudetti 1947-48 e 1948-49, quando Renzo Nostini, dirigente del movimento sportivo universitario, ne era il presidente. Due campionati splendidi, vinti a spese del Rovigo. Nel 1950, non trovando più spazi in prima squadra, Ivo si lasciò definitivamente alle spalle anche il rugby, per rivolgersi alla pesca atlantica col padre. L'episodio inerente Mussolini avvenne giusto in una pausa del periodo pallanuoto-studio, prima del periodo rugby-pesca. Tutto prese l'avvio nell'estate del 1940, allorché Bitetti evitò la chiamata alle armi grazie a una pleurite. Venne mandato a svolgere un lavoro d'ufficio con le stellette di tenente. L'Armistizio dell'8 Settembre 1943 lo rese libero dalla divisa e, come moltissimi altri italiani, in grado di decidere da sé il proprio destino. Il resto della storia arriva da un colloquio registrato che ebbi con lui nel 2002, qui condensato e rielaborato per renderlo più scorrevole, almeno rispetto al nastro originale. Quel 12 agosto di tredici anni fa mi trovai al cospetto di un 83enne assai provato fisicamente e psicologicamente, dopo una vita a dir poco tumultuosa. Infatti, il buon Ivo sarebbe morto esattamente 18 mesi dopo il nostro incontro nella sua bella casa sulla Cassia. Quel che soprattutto emerse fu il suo attaccamento ai colori bianco e celesti. Si sentiva laziale nelle midolla, e sapeva che a molti laziali come lui "l'affare Mussolini" avrebbe pouto creare imbarazzo. Forse fu davvero questo uno dei motivi per cui non rivelò mai l'incredibile segreto della sua avventurosissima esistenza. A nessuno, per quel che ne so. Ma ora partiamo. La Storia con la "S" maiuscola ci attende. Saliamo con il nostro valoroso Ivo sulla carrozza del treno "27 Aprile 1945":
Quando ci fu l'armistizio, mia madre Zoe si spaventò in quanto si accorse che, a seguito di un bombardamento, l'attico che avevamo in via degli Scipioni, nel quartiere Prati, era tutto pieno di schegge di granate dell'antiaerea. Roma non era più sicura. Ce ne andammo allora in una villetta di nostro zio Luciano, che stava vicino Biella, sua moglie era di quelle parti. Ma la villetta in realtà si rivelò una baracca, per cui mia madre decise di stabilirci presso Ettore, il fratello di mio padre. Ettore, dopo aver fatto l'ufficiale della Guardia di Finanza a Gravedona, al confine con la Svizzera, era andato in pensione rimanendo lì, ben sistemato con buone amicizie. Ed era diventato pure pro-sindaco di Gravedona. Ci trasferimmo lassù, e io ogni tanto me ne andavo in bicicletta a Dongo, che stava a due, tre chilometri, e aveva i negozi meglio forniti. Nella zona operavano le "Brigate Garibaldi", i partigiani comunisti. I tedeschi erano ormai in ritirata. Un bel giorno, su una strada strettissima del lungolago all'altezza di Sasso di Musso, una colonna di tedeschi in fuga venne bloccata facendo crollare due pinnacoli di roccia a mezzo di mine. La strada era ingombra di sassi, i nazisti chiesero di poter proseguire verso il Passo del Gottardo. I partigiani risposero di consegnare le armi. Questi parlamentari si svolsero anche grazie a me. All'arrivo dei tedeschi, io stavo ancora a Gravedona, a non molti chilometri di distanza dal punto in cui la colonna era ferma. I partigiani mi conoscevano per via delle mie frequenti discese a Dongo, sapevano che parlavo ancora abbastanza bene il tedesco. Mi telefonarono dicendo: "Dottore, perché non ci dà una mano con questi tuderi qua?". Io mi recai in bici sul posto e dissi ai tedeschi di stare calmi e di posare le armi, ché tanto in Svizzera armati non li facevano entrare. Cominciai a prendere i nomi, passando all'ispezione della lunghissima colonna.
Giunto alla fine, c'era una specie di camioncino, di quelli che di dietro hanno un capanno e davanti un bussolotto per far stare il guidatore al coperto. Chiesi al pilota, un soldato tedesco, di darmi il suo nome e di depositare le armi che portavano gli altri soldati, ma rimasi incuriosito da un uomo, in apparenza dormiente, che stava sdraiato di dietro con una coperta addosso. Allora gli chiesi in modo esplicito: "Ma chi è quello là dietro, sotto la coperta?" - Mi rispose che si trattava di un soldato ubriaco, che aveva la febbre e stava male. Me ne stavo per andare, quando il copilota, il secondo uomo alla guida del camion, e che era un italiano, mi sussurrò facendo un segno d'intesa con gli occhi: "Capo... ci sta il Capo!". Allora chiamai un mio collaboratore, che era anche più alto di me ma magro, aveva le gambe lunghe lunghe, e gli dissi: "Vieni qua, tu che hai le zampe lunghe, scavalca la balaustra di questo furgoncino e leva la coperta, che voglio vedere chi ci sta dentro 'sta coperta". L'uomo scavalcò ma, nel farlo, non mise un piede bene e gli acciaccò i coglioni. Benito Mussolini urlò: "Ahi!", e nello stesso tempo gli cascò per terra l'elmetto che teneva calato fino alla gola. Dissi: "Anvedi chi ce stà qui de dietro!". Di modo che andai a chiamare Ardente, il capo della Divisione, un comunista delle Brigate Garibaldi, e gli annunciai: "Aho, guarda un po' chi t'ho trovato qua!". Lui rispose: "Ora lo sistemiamo noi!". Mussolini la febbre non ce l'aveva per niente. Aveva invece una valigia azzurra, che si teneva ben stretta. I tedeschi ripartirono senza di lui. Gli chiedemmo cosa avesse in quella valigia, e lui rispose che non ci stava nulla d'importante: qualcosa di biancheria e alcune carte, dei documenti. Non era molto spaventato, aveva capito che non avevamo intenzione di ammazzarlo. Insomma, c'era 'sta valigia azzurra, io la apro: c'erano dentro dei grossi fogli di carta, scritti in inglese. Purtroppo io l'inglese non lo capisco, non lo so. Erano abbastanza le lingue che conoscevo: il tedesco, il francese, lo spagnolo, il portoghese, il brasiliano. L'inglese l'avevo studiato in seconda elementare, al collegio.
Quando cercai di prendere i fogli e chiesi cosa fossero veramente, Mussolini mi rispose che si trattava di relazioni segrete del "Servizio Informazioni". Mi pregò di buttare tutto nel lago, onde evitare complicazioni a quei poveracci che ci avevano lavorato e i cui nomi comparivano sui fogli. Rivolgendomi ad Ardente, allora gli dissi: "Io non so... l'inglese non lo capisco...". Ardente fu d'accordo di buttare la valigia nel lago. Arrivati in serata a Dongo, dove c'era un alberghetto nel quale Mussolini venne ospitato, con una barchetta andammo al centro del lago e buttammo in acqua 'sta valigia azzurra, con dei sassi dentro per farla andare a fondo. Un anno dopo, si presentò sul lago Winston Churchill [in realtà, già ai primi di settembre del 1945, ndA] con l'obbiettivo di recuperare il suo carteggio con Mussolini, quello dove gli prometteva Nizza, Savoia e la Corsica in cambio dell'uscita dell'Italia dalla guerra. Churchill sapeva che c'erano queste carte compromettenti e voleva metterle al sicuro. Andò lì ma gli dissero che Mussolini l'aveva fatte buttare nel lago, dove l'acqua è più profonda. Mussolini, invece, non fece in tempo a fare niente, e Pertini lo fece ammazzare. Ma tutta questa storia, mi raccomando, non la pubblichi. Ci sono tanti matti in giro, nostalgici del fascismo, ammiratori del duce, e non vorrei che, venendo a sapere che fui io a scoprirlo mentre scappava, un bel giorno me li ritrovo davanti casa a darmi delle noie. E poi io sono della "Lazio"...
Fin qui la storia. Devo dire che solo recentemente, essendomi venuta l'idea di vendere lo "scoop" al giornale la Repubblica per il Settantennale della Liberazione, ho approfondito la veridicità di quanto allora narratomi da Bitetti. Scoprendo cose sorprendenti: 1) assolutamente vero e non inventato il nome del partigiano "Ardente", per altro mai citato nelle ricostruzioni storiografiche: secondo i registri della Associazione Nazionale Partigiani, risulta infatti un "Ardente Piccamiglio" a capo del Distaccamento "Magai" di Gravedona. Parlando per via telefonica con alcuni Piccamiglio oggi residenti nel Comasco, è emerso che esponenti dei vari rami della famiglia subito dopo la guerra migrarono in Australia; 2) il partigiano con le "zampe lunghe", che Bitetti sollecita a controllare l'uomo nascosto sotto la coperta, è invece Giuseppe Negri, partigiano di Dongo che prima dell'8 Settembre aveva fatto la guerra col grado di sottocapo di Marina. In pratica, il personaggio a cui la letteratura dà il merito della cattura; 3) secondo voci girate all'epoca dei fatti, il fascista autore della spiata sarebbe stato Oreste Bombacci, uno dei capi della Rsi poi finito appeso a piazzale Loreto accanto a Mussolini e alla Petacci; 4) sulla vicenda della "valigia azzurra", la mia ipotesi è che non sia quella del carteggio Churchill-Mussolini, 63 fogli che il giorno prima il duce aveva separato dal resto dei documenti. Piuttosto, come detto dallo stesso Mussolini a Bitetti, in essa forse erano raccolte le carte meno importanti dei servizi segreti, quelle a cui si poteva dire tranquillamente addio. La soddisfazione di Churchill fu di ottenere, dietro pagamento, gli originali del carteggio. Ma qui la vicenda si complica ulteriormente e le ipotesi sono molte: un mistero insolubile. L'importante, per tutti noi biancocelesti, è che ora sappiamo chi fermò Benito Mussolini nella sua fuga oltre confine: Ivo Bitetti, pallanuotista della Società Sportiva "Lazio".
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