Sospensione del Campionato 2019/20 per pandemia da Coronavirus
Mentre fine dicembre 2019 e inizio gennaio 2020 pensavamo ai buoni propositi per l’anno nuovo, con la Lazio in lotta per lo scudetto e fresca vincitrice della Supercoppa Italiana, ed eravamo del tutto ignari dell’emergenza sanitaria che si sarebbe creata, un nuovo virus altamente contagioso e completamente sconosciuto al nostro sistema immunitario aveva iniziato a circolare in una regione remota del globo. Non avremmo mai pensato, all’epoca, che questo virus apparentemente così lontano avrebbe potuto diffondersi e causare tanti problemi a livello individuale e collettivo, per la salute, per i sistemi sanitari ed economici. Ma in poco più di due mesi lo scenario globale è cambiato radicalmente e noi abbiamo dovuto adattarci e far fronte alle nuove esigenze. Ecco la trama (anche mediatica) della diffusione del coronavirus sintetizzata nelle principali tappe temporali dell’epidemia di Covid-19.
31 dicembre 2019: “polmoniti anomale”
Già a novembre – e forse anche a ottobre, secondo le ipotesi di uno studio italiano – il nuovo coronavirus Sars-CoV-2 aveva iniziato a circolare, in Cina, in particolare a Wuhan, la città più popolata della parte orientale, perno per il commercio e gli scambi. All’inizio, però, non si sapeva che si trattava di un nuovo virus: ciò che inizia ad essere registrato è un certo numero di polmoniti anomale, dalle cause non ascrivibili ad altri patogeni.
La prima data ufficiale in cui inizia la storia del nuovo coronavirus è il 31 dicembre, in le autorità sanitarie locali avevano dato notizia di questi casi insoliti. All’inizio di gennaio 2020 la città aveva riscontrato decine di casi e centinaia di persone erano sotto osservazione. Dalle prime indagini infatti, era emerso che i contagiati erano frequentatori assidui del mercato Huanan Seafood Wholesale Market a Wuhan, che è stato chiuso dal 1 gennaio 2020, di qui l’ipotesi che il contagio possa essere stato causato da qualche prodotto di origine animale venduto nel mercato.
Fra il 9 (giorno del 120° anniversario della Lazio) e il 12 gennaio: l’annuncio del coronavirus.
Il 9 gennaio le autorità cinesi avevano dichiarato ai media locali che il patogeno responsabile è un nuovo ceppo di coronavirus, della stessa famiglia dei coronavirus responsabili Sars e della Mers ma anche di banali raffreddori, ma diverso da tutti questi – nuovo, appunto. L’Oms divulgava la notizia il 10 gennaio, fornendo tutte le istruzioni del caso (evitare contatto con persone con sintomi) e dichiarando – all’epoca giustamente – che non era raccomandata alcuna restrizione ai viaggi per e dalla Cina. Tutti i casi – ancora molto pochi – erano concentrati a Wuhan e non si conosceva la contagiosità di questo virus (Sars e Mers, ad esempio, molto più gravi erano però molto meno contagiose).
Il 7 gennaio il virus veniva isolato e pochi giorni dopo, il 12 gennaio, veniva sequenziato e la Cina condivideva la sequenza genetica. Questo è stato il primo passo importante, in termini di ricerca, anche per poter sviluppare e diffondere i test (i kit) diagnostici che serviranno a molti altri paesi. In questa fase la Cina stava già svolgendo un monitoraggio intensivo.
21 gennaio: il virus si trasmette fra esseri umani
Il 21 gennaio le autorità sanitarie locali e l’Organizzazione mondiale della sanità annunciavano che il nuovo coronavirus, passato probabilmente dall’animale all’essere umano (un salto di specie, in gergo tecnico), si trasmette anche da uomo a uomo. Ma ancora gli esperti non sapevano (e tuttora l’argomento è discusso) quanto facilmente questo possa avvenire. Il ministero della Salute ha iniziato a raccomandare di non andare in Cina salvo stretta necessità. Nel frattempo Wuhan diventava una città isolata e i festeggiamenti per il capodanno cinese venivano annullati lì e in altre città cinesi, come Pechino e Macao.
In Italia i casi erano pochissimi e tutti provenienti dalla Cina: a partire dal 29 gennaio c’erano due turisti cinesi di Wuhan contagiati, ricoverati allo Spallanzani – uno degli ospedali italiani che saranno protagonisti (loro malgrado) della vicenda del coronavirus. C’era poi un ricercatore italiano positivo al virus e proveniente dalla Cina e un diciassettenne, rimasto bloccato a lungo a Wuhan a causa di sintomi simil-influenzali, non positivo al coronavirus ma ugualmente tenuto sotto osservazione e ricoverato allo Spallanzani. Tutte queste persone sono guarite e sono state dimesse nel mese di febbraio – per ultima, la paziente cinese della coppia malata, il 26 febbraio. I contagi fuori dalla Cina sono ancora molto circoscritti e limitati, con focolai per ogni paese di un manipolo di persone.
30 gennaio: l’Oms dichiara lo stato di emergenza globale.
Alla fine di gennaio il rischio che l’epidemia si diffondesse passava da moderato a alto e il 27 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità scriveva che era “molto alto per la Cina e alto a livello regionale e globale”. Tanto che nella serata del 30 gennaio l’Oms dichiarava l’“emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale” e l’Italia bloccava i voli da e per la Cina, unica in Europa. Ma la situazione in Cina stava già migliorando: pochi giorni dopo, alla data dell’8 febbraio, l’Oms scriveva che i contagi in Cina si stavano stabilizzando ovvero che il numero di nuovi casi giornalieri sembrava andare progressivamente calando.
Febbraio: dare un nome alle cose
L’11 febbraio è arrivato il nome della nuova malattia causata dal coronavirus. Il nome, scelto dall’Oms, è Covid-19: Co e vi per indicare la famiglia dei coronavirus, d per indicare la malattia (disease in inglese) e infine 19 per sottolineare che sia stata scoperta nel 2019. Questo per quanto riguarda la malattia, mentre il virus cambia nome e non si chiama più 2019-nCoV, ma Sars-CoV-2 perché il patogeno è parente del coronavirus responsabile della Sars (che però era molto più letale anche se meno contagiosa).
All’epidemia di Covid-19 si affianca quella dell’informazione, con notizie non sempre veritiere (molte sono fake news). Tanto che ai primi di febbraio proprio l’Oms parla per la prima volta di infodemia, termine nuovo con cui si indica il sovraccarico di aggiornamenti e news non sempre attendibili.
21 febbraio: primi casi in Italia
Venerdì 21 febbraio 2020 è una data centrale per la vicenda italiana legata al nuovo coronavirus. In questa data sono emersi diversi casi di coronavirus nel lodigiano, in Lombardia: si tratta di persone non provenienti dalla Cina, un nuovo focolaio di cui non si conosce ancora l’estensione. Alcuni dei paesi colpiti (Codogno, Castiglione d’Adda e Casalpusterlengo ed altri) sono stati di fatto chiusi, un po’ come avviene ora per l’Italia “zona protetta”. Intanto a Milano due giorni prima si era giocata una partita fra Atalanta e Valencia valida per la C.League.
Quella che doveva essere, e lo è sicuramente stata, una grande festa per i tifosi dell'Atalanta si è probabilmente trasformata nell'innesco di una "bomba letale" stando a quanto trapela dall'unità di crisi della Protezione Civile. La partita del 19 febbraio di Champions League (andata degli ottavi di finale) tra i nerazzurri e il Valencia sarebbe stata la cosiddetta "gara zero", quella che ha fatto esplodere il contagio da coronavirus in tutta la Lombardia e, successivamente, anche in Spagna. 45mila i tifosi, tra italiani e iberici, che hanno affollato le tribune del Meazza per quella storica partita.
Tutto è cominciato sulla metro?
In quella serata di febbraio - ha raccontato una giornalista a Calciomercato.com -, uno dei convogli della linea 5 che avrebbe portato tutti a San Siro, ha visto tanti tifosi, tutti accatastati come (anzi di più) in un comune lunedì mattina per andare a lavoro. Sulla carrozza seguente centinaia di "rivali" del Valencia, anche loro stretti uno sull'altro. Tra loro probabilmente c'era n'era già qualcuno contagiato dal Covid-19, che aveva già fatto la sua comparsa nel regione valenciana, come hanno successivamente rivelato le autopsie. Fischi e slogan contro l'Atalanta da parte dei giallorossi, 'buu' di risposta da parte dei nerazzurri. Poi, all'uscita dalla metro intasata, la calma, gli scambi di gagliardetto e anche foto ricordo. Ma soprattutto - ha proseguito - un particolare: in molti si passavano lo stesso bicchiere di birra, prima di offrirlo agli ultrà nerazzurri di passaggio, tutti accomunati dal brindisi ad una serata storica. Ma in comune, settimane più tardi, è rimasto solo un incubo.
La giornalista ha spiegato anche come Atalanta-Valencia fosse stata classificata come una gara ad alto rischio. Più di un'ora d'attesa tra le 18.30 e le 20 con un cordone di poliziotti che fermava il serpentone nerazzurro ogni 5' per far passare i tifosi spagnoli. C'era il timore di scontri, pronti ad essere documentati, a causa del gemellaggio tra i valenciani e gli ultras interisti della Curva Nord. La motivazione, col senno di poi, si è rivelata sbagliata: nessuno scontro, anzi, i tifosi Murcielagos si mischiarono come nulla fosse ai sostenitori della Dea, consumando panini sotto le stesse bancarelle. L'ampio spiazzo di San Siro divenne improvvisamente stretto con l'assembramento di 43mila atalantini e 2500 valenciani. Pieno anche di anziani, i più fragili, ma anche quelli che non potevano mancare dopo aver seguito la squadra sia in Serie B che in Serie C.
L'errore...da Valencia
A fine gara, in una sala stampa oberata di persone, l'incrocio al buffet con Kike Mateu, il giornalista valenciano che poi risultò positivo al coronavirus. Tra bagni, banchi con i computer e tavolo ristoro era impossibile non venire a contatto. Una settimana più tardi Mateu venne ricoverato in ospedale: troppo presto per aver contratto il virus a Milano. E, come emerge dalle ipotesi della Protezione Civile, è molto probabile che il contagio lo avesse portato già in valigia da Valencia. Insieme a tanti altri portatori sani, che si sono salutati tra strette di mano e abbracci a fine gara con lo scambio di numeri per rivedersi poi al Mestalla. Solo per un soffio la giornalista ha evitato la gara del 10 marzo. Solo perché il suo areo, quello che doveva decollare alle 9 di domenica, era stato anticipato di qualche ora dal decreto che ha reso la Lombardia zona rossa. Altrimenti avrebbe preso parte in pieno ad un altro assembramento, quello più grave perché avvenuto dopo, con una tragedia già in atto sia a Bergamo che a Valencia. Ma la seconda bomba, a differenza della prima, si poteva disinnescare.
Fuori dalla Cina, il numero di contagiati è molto alto in Italia, Iran e Corea del Sud, anche se per l’Oms Covid-19 non è ancora pandemia. Tuttavia, fra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo 2020, dopo l’Italia, anche in altri stati (europei e non solo) vengono rilevare un numero crescente di casi e un’epidemia.
4, 8 e 9 marzo: le tre date chiave dei provvedimenti in Italia
Il contagio si è diffuso nel nostro paese, soprattutto nel nord, ma inizia anche in altre regioni. Per questo, mercoledì 4 marzo il governo ha dato il via libera alla chiusura di scuole e università in tutta Italia fino al 15 marzo. Alla data del 4, stando ai dati della Protezione civile i positivi sono circa 2.700 e già c’è qualche caso (decine o qualche unità) in tutte le regioni. Mentre domenica 8 marzo arriva il decreto che prevede l’isolamento della Lombardia, in assoluto la più colpita, e di altre 14 province, che diventano “zona rossa”. Anche anche se la bozza ancora non ufficiale del decreto era stata pubblicata da alcune testate già nella serata del 7.
E infine si arriva all’ultima data (per ora) importante per l’Italia: quella di lunedì 9 marzo. In questa giornata, intorno alle 22, Conte annuncia in televisione di aver esteso a tutto il paese le misure già prese per la Lombardia e per le altre 14 province, tanto che tutta l’Italia diventerà “zona protetta”. Le nuove norma sono contenute nel nuovo decreto Dpcm 9 marzo 2020, entrato poi in vigore il 10 marzo. Di fatto la regola è contenuta nell’hashtag #iorestoacasa, si può uscire solo per comprovate ragioni di necessità come per fare la spesa, per esigenze lavorative, per l’acquisto di farmaci o per altri motivi di salute.
Il governo ha annunciato che la Serie A di calcio, così come tutti gli altri campionati e manifestazioni sportive nazionali, sarà sospesa fino al 3 aprile per via delle nuove misure di contenimento del coronavirus previste in un apposito decreto in vigore a partire da martedì 10 marzo. Il presidente del consiglio Giuseppe Conte l’ha annunciato in una conferenza stampa lunedì sera, presentando il decreto che ha esteso a tutto il paese le restrizioni già in vigore per il Nord da domenica.
Nella sua versione precedente, ormai superata, il decreto sul coronavirus prevedeva invece lo svolgimento delle gare agonistiche a porte chiuse, e nel weekend appena trascorso si erano giocate diverse partite di Serie A. La 27esima giornata di Serie A si sarebbe dovuta giocare fra il 13 e il 15 marzo. Il CONI e l’Associazione Italiana Calciatori avevano chiesto da tempo che fosse sospesa. Non è chiaro in quale modo – e se – verranno organizzati i recuperi. Allenamenti e partecipazioni alle coppe europee sono invece consentiti.
11 marzo: l’Oms dichiara la pandemia
Mentre l’Italia si sta muovendo – per prima in Europa, con il plauso dell’Organizzazione mondiale della sanità – per contenere il contagio, anche a livello globale sta succedendo qualcosa. L’11 marzo 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, ha annunciato nel briefing da Ginevra sull’epidemia di coronavirus che Covid-19 “può essere caratterizzato come una situazione pandemica”. dichiarando la pandemia. Ma questo non cambia di fatto le cose, almeno non per l’Italia, come hanno sottolineato le autorità nazionali, che sta già mettendo in atto le migliori misure possibili. L’obiettivo dell’Oms è quello di fare un appello a tutte le nazioni per contrastare la diffusione della Covid-19.
19 marzo La partita sotto accusa
Francesco Le Foche, medico immunologo, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del policlinico Umberto I di Roma. Più che mai in trincea di questi tempi, con i tre reparti attivi per il Covid 19. Una cinquantina di letti a oggi, più le aree di accettazione, decompressione e i reparti di terapia intensiva e rianimazione, fiore all’occhiello dell’ospedale, insieme alla storica e prestigiosa scuola di malattie infettive e tropicali voluta da re Umberto I agli inizi del novecento. Oggi l’assillo di Le Foche, quasi un’ossessione, è uno: quella che lui chiama l’«anomalia Bergamo». L’incomprensibile e al momento inspiegabile anomalia planetaria rispetto alla sindrome da Covid 19. Partiamo da qui. La diffusione enorme del virus a Bergamo e provincia e il tasso unico di letalità. Niente certezze. Ipotesi? «Probabilmente in quel distretto hanno agito più fattori trigger, i catalizzatori che attivano in modo repentino la diffusione del virus, facendolo esplodere in tutta la sua gravità».
Nello specifico? «Un paio su tutti. Quella bergamasca è un’area molto attiva nel mondo degli scambi economici e sociali. Un terreno ideale per il virus. Secondo fattore, parliamo antropologicamente di gente da sempre molto operosa, spartana, con una grande cultura del lavoro e una tendenza a sottovalutare e dunque trascurare malesseri che sembrano di stagione. L’albero degli zoccoli di Olmi è la rappresentazione perfetta di questa gente. Aggiungiamo i comportamenti che, specie nei primi giorni, non hanno certo aiutato lo stop del virus».
Un esempio? Da Valencia arrivano espliciti riferimenti alla partita di San Siro del 19 febbraio, l’Atalanta-Valencia andata di Champions. «Uno di questi episodi, tra i più eclatanti, potrebbe essere stato proprio quello. L’apice in termini di euforia collettiva di una stagione calcistica unica nella storia del club».
Siamo al paradosso assoluto: il contagio positivo della festa e dell’entusiasmo potrebbe aver favorito il contagio negativo del virus e dunque della depressione e del lutto? «Ci sta. È passato un mese da quella partita. I tempi sono pertinenti. L’aggregazione di migliaia di persone, due centimetri l’una dall’altra, ancor più associate nelle comprensibili manifestazioni di euforia, urla, abbracci, possono aver favorito la replicazione virale».
Che intende per “favorito”? «Intendo un’espulsione di quantità di particelle virali molto alta e a grande velocità dalle prime vie aeree, bocca e naso. Stiamo parlando dell’enfasi collettiva di una partita storica, con molti gol. L’afflato di una tifoseria appassionata come poche. Devo immaginare che a quella partita siano andati quasi tutti, inclusi probabilmente asintomatici e febbricitanti».
Sta dicendo che potrebbe essere una delle concause dell’anomalia Bergamo? «Potrebbe essere».
Una follia giocarla a porte aperte quella partita con il senno di poi? «Ha detto bene, col senno di poi. All’epoca troppe cose non erano ancora chiare, a cominciare dall’enorme diffusibilità di questo virus. Oggi sarebbe impensabile. Infatti, hanno bloccato tutto».
Riprendere a giugno è realistico? «Dubito molto fortemente. Un contesto così socialmente aggregante ed empatico come il calcio è l’antitesi dei comportamenti che si devono avere nell’emergenza sociale di un virus. Una minaccia per definizione».
Se le aggregazioni empatiche sono un fattore fondamentale di contagio, siamo di fronte a un’illusione collettiva delle istituzioni del calcio, quando immaginano di ricominciare entro giugno? «La Cina docet. Ci vogliono certezze. Che vuol dire una stabilizzazione vera prima di ricominciare. Molto probabile che il virus circoli in modo ridotto da qui all’autunno. Dopo di che potrebbe esserci una ripresa dell’attività virale. Stiamo, ovviamente, ragionando per ipotesi».
Non c’è da essere ottimisti… «In quanto alla diffusibilità, no. Questo virus continuerà a diffondersi. Noi, grazie anche all’aver studiato quanto accade al nord, l’abbiamo ridotti ai minimi termini, ma non basta per tornare alla realtà di prima. Da qui ai prossimi mesi dobbiamo riorganizzarci in modo diverso».
Molto improbabile dunque il via libera alle aggregazioni prima della fine dell’anno? «Di quelle sportive in particolare. Anche perché, se da noi il virus andrà a ridursi, la tendenza è a crescere in Francia, Germania, Spagna e Inghilterra. Tutte nazioni che hanno un ruolo centrale nelle competizioni internazionali».
Il rischio è il collasso del sistema. Riprendere a porte chiuse per evitarlo? «Potrebbe essere una soluzione».
Da studioso, una sua riflessione su questa pandemia? «I comportamenti umani hanno modificato l’habitat e dunque le chance di adattamento dei virus. Il virus, se non ha una cellula dove replicarsi, muore. In una situazione di habitat alterato le particelle virali cercano l’ambiente più favorevole. Questo favorisce il salto di specie. È la teoria di Darwin. Si adattano nella trasformazione. Replicarsi è l’unico scopo dei virus».
Scenario più che allarmante. «Noi abbiamo un’arma in più, importantissima. L’intelligenza. È l’arma che ci ha portato a vincere le battaglie più complicate nella storia dell’umanità. Dobbiamo fare in modo che il contenitore di virus si allontani, distanziando le possibilità di contagio. Dobbiamo evitare che il virus salti da autobus all’altro».
L’intelligenza umana sta andando nella direzione giusta? «Assolutamente sì. Tutto questo percorso virtuoso potrebbe però essere inficiato da comportamenti umani non virtuosi»
In Paesi come l’Inghilterra sembrano voler privilegiare altre strade. «Stanno cambiando strategia. In prima istanza avrebbero voluto vincere la battaglia della nazione in termini economici, anche rischiando vite umane. Nel nostro caso il rispetto della vita è centrale. Sfavorisce la forza della nazione in termini di economia ma la rafforza in termini di solidarietà sociale. Sono due strategie opposte».
Quale la più efficace? «La direzione che abbiamo scelto noi, di salvare le vite umane , è quella che appartiene alla nostra storia e alla nostra sensibilità. Non possiamo inventarci diversi da quello che siamo. Questo sì, sarebbe il disastro peggiore».
Cosa dobbiamo immaginarci da qui in poi? «Analizzando a fondo questo virus ritengo che si possa combattere in due modi. Quello di prevenzione epidemiologica, distanziando le persone. L’altro, è una terapia congrua».
Che sarebbe? «Bisogna capire bene la patogenesi della Covid 19, vale a dire il danno all’organismo. Il virus, quando degenera, scatena una tempesta citochimica, che si traduce in un’infiammazione acuta. Non bisogna arrivare alla sindrome dell’attivazione macrofagica, cellule del sangue che mangiano altre cellule. Ovvero, la parte terminale del marasma citochimico».
Sarebbe questo il livello di guardia? «Sì, anche se la complicanza più grave è quella del danno alveolare nel polmone profondo. Quando il sistema immunitario non riesce più, occorre spegnere comunque l’infiammazione con la terapia. L’alternativa è l’intubazione».
A che punto siamo con i farmaci? «È un virus nuovo, va studiato bene. Oggi abbiamo marcatori sierologici che indicano il paziente a rischio. Su questi, in particolare, concentriamo oggi l’attenzione. La patogenesi a spanne del virus l’abbiamo rappresentata, ora stiamo utilizzando i farmaci che agiscono sulle citochine».
Quanto efficaci? «È una terapia ancora improbabile, i farmaci vanno affinati e lo faremo in brevissimo tempo. Non dimentichiamo che con la “spagnola”, un virus che uccise più della guerra, ci misero un anno per capirci qualcosa. Con la Sars ci vollero sei mesi. I cinesi hanno isolato e studiato il Coronavirus in tre giorni».
L’unicità di questo virus? «Che si replica molto rapidamente sulle prime vie aeree, anche durante la fase asintomatica. È la sua arma. Potremmo dire un virus molto democratico che colpisce chiunque, salvo poi seguire percorsi diversi. Una livella, per dirla alla Totò».
La preoccupazione? «Quella più grande è che si diffonda in Africa, dove i sistemi sanitari e di rianimazione sono meno efficaci».
Quanto è alto il rischio che nel resto d’Italia si ripeta quanto avvenuto al nord? «Con i comportamenti che abbiamo adesso lo ritengo molto improbabile. A oggi, i numeri ci confortano».
Un messaggio finale ragionevolmente positivo? «Uno su tutti: è molto improbabile che il virus possa vincere la battaglia con l’intelligenza umana. Stiamo dando, a partire dalla Cina, una prova di grande efficienza».
A partire dal Covid-19, cosa dobbiamo aspettarci in futuro? «Potrebbero presentarsi vari virus all’orizzonte orientati al salto di specie. I virus, in questo salto, possono potenziarsi o depotenziarsi. Alcuni di loro potrebbero essere molto contagiosi, com’è oggi il Coronavirus, ma anche molto letali e lì sarebbe lo scenario peggiore».
Come possiamo prevenirlo? «Dobbiamo evitare il salto di specie in tutti i modi. Ritornando a un equilibrio della natura, alla concezione di una vita biologica utile a tutti, cancellando la necessità per entità così piccole di aggredire l’essere umano, di farne l’ospite ideale».
Come si arriva a questo? «Prima cosa, istituire un organo di controllo permanente. Una task force. Dove medici e veterinari lavorino insieme. Non a caso Ilaria Capua, donna colta e molto preparata, è una virologa veterinaria impegnata anche su questo fronte».
Come cambierà, se cambierà, il genere umano a partire da questo choc collettivo? «Il comportamento delle persone cambierà in meglio. Ma, soprattutto, devono cambiare le scelte di fondo della classe politica, che negli ultimi anni ha relegato al ruolo di cenerentola anche la salute pubblica. Senza giustizia, istruzione e sanità, la decadenza di una nazione è inevitabile».
La lezione sarà recepita? «Mi auguro di sì. Sono certo che il politico di domani non può comportarsi come il politico di oggi. La gente non glielo permetterà».
Possiamo dire che questo flagello inatteso sia stato, in qualche modo, un allarme rosso per l’umanità intera, la risposta del suo sistema immunitario? «Ha detto bene. Dobbiamo viverlo così. Come un incidente fecondo»
I primi due giorni con dati in leggero calo registrano anche una intervista a Gomez dell'Atalanta sul Corsport
"Faccio fatica a pensare al calcio. Cerco di tenermi in forma, di allenarmi un'oretta e mezza-due al giorno ma è difficile mantenere la concentrazione. Il calcio è l'ultima cosa che mi interessa". Alejandro Gomez è sconvolto da quello che sta succedendo. "Non so se si tornerà a giocare, se lo si farà in estate o fra qualche mese ma prima il Paese deve rimettersi a posto - sottolinea il Papu, in collegamento con Sky Sport24 - Sarà molto difficile tornare a giocare: come si fa a organizzare le trasferte, ad andare negli alberghi? È una grande domanda che mi faccio". "Il mio stato d'animo non è al top, la situazione nel Paese non è la migliore e bisogna cercare di essere positivi anche se ogni giorno arrivano brutte notizie. Non c'è altro da fare che rimanere a casa e aspettare che tutto questo possa finire, spero presto.
Dal sogno all'incubo
"In questi ultimi 4 anni - prosegue Gomez sulla situazione legata all'emergenza coronavirus- come Atalanta abbiamo reso felice una città intera ma quello che stiamo vivendo in questo periodo è qualcosa di terribile, che non riesco ancora a capire. Siamo il Paese con più contagiati dopo la Cina, è strano. In questo periodo uno dovrebbe essere felice, orgoglioso di quello che sta facendo con la propria squadra ma invece dobbiamo guardare altro e pensare alle famiglie che stanno soffrendo". Poi un messaggio ai bergamaschi: "Sono con loro, sono gente tosta che non si arrende e questo periodo passerà" (in collaborazione con Italpress)
Il dramma di Bergamo
Il Papu ha rilasciato anche un'intervista al quotidiano argentino Olé descrivendo la situazione italiana: "All'inizio c'è stata molta disinformazione, l'abbiamo presa tutti alla leggera. Pensavamo fosse solo un'altra influenza e quindi abbiamo continuato una vita normale. Quando sono iniziate le morti abbiamo cominciato ad avere paura".
Si parla dell'impatto della partita di Champions con il Valencia: "Uno di loro in campo era infetto. Stiamo tutti aspettando per vedere se qualcuno di noi mostra i sintomi. Aver giocato quelle partite è stato terribile. A Valencia non c'era controlli, erano tutti rilassati. La situazione di Bergamo di oggi credo abbia a che fare anche con la partita di San Siro di Champions. Qui ci sono 12o mila abitanti e quel giorno 45 mila erano allo stadio..."
"La partita era una bomba biologica. A quel tempo non sapevamo cosa stesse succedendo. Il primo paziente in Italia era il 23 febbraio. Se il virus era già in circolazione, i quarantamila fan che andarono allo stadio di San Siro erano infetti". Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, in un'intervista rilasciata via Facebook a Marca, riconosce come la gara d'andata degli ottavi di finale di Champions League tra Atalanta e Valencia possa essere considerata la "partita zero", che ha dato il là alla rapida diffusione del Coronavirus, tanto in Italia quanto in Spagna. "Nessuno sapeva che il virus stesse già circolando tra noi - aggiunge il primo cittadino del capoluogo di provincia lombardo -. Molti hanno guardato la partita in gruppo e ci sono stati molti contatti quella notte. Il virus è stato trasmesso dall'uno all'altro". Poi Gori chiarisce: "La partita non è stata la sola causa però, perché la scintilla vera e propria c'è stata nell'ospedale di Alzano Lombardo, con un paziente con polmonite non riconosciuta e che ha infettato pazienti, medici e infermieri. Questo è stato il fulcro dell'epidemia". Certo è che dopo il match dell'ex Coppa dei Campioni ci sono stati i casi di positività del 35% dei componenti del club iberico (Garay, Gayà, Mangala e gli altri rimasti anonimi), di Sportiello e di Enrique Mateu, giornalista volato a Milano e che è stato dimesso soltanto pochi giorni fa, dopo quasi un mese trascorso in ospedale.
Aprile e Maggio[modifica | modifica sorgente]
La partita di Champions tra Liverpool e Atletico Madrid dello scorso 11 marzo non sarà ricordata soltanto per l’eliminazione della corazzata di Klopp: uno studio condotto da Edge Healt - società che analizza i dati per il servizio sanitario britannico - ha rivelato che quel match fu una vera e propria ‘bomba’ virologica provocando ben 41 morti da Coronavirus. Gli spettatori ad Anfield furono 52 mila, 3000 dei quali giunti da Madrid che aveva già adottato un blocco parziale. In Spagna, in quel momento, si registravano secondo la ricerca circa 640 mila persone infette, un dato davvero impressionante: 100 mila, invece, il bilancio inglese. I decessi sarebbero avvenuti tra i 25 e i 35 giorni successivi alla partita, già finita da mesi sotto osservazione perché considerata - insieme ad Atalanta-Valencia - veicolo di diffusione del Covid-19.
Fonti: Ansa, Corriere Sport, Repubblica, Messaggero.
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